Gesù Cristo, certo; ma, per amor di Dio, quale?
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6 Febbraio 2022C’è un testo alquanto misterioso di Leonardo da Vinci, la Lettera al Diodario di Soria, cioè di Siria, nella quale egli descrive un soggiorno nella regione dei monti del Tauro e presso le rive del fiume Eufrate, e perfino un terremoto che l’avrebbe devastata, con tale precisione e verosimiglianza, da far nascere il dubbio se si tratti del resoconto di un’esperienza reale oppure un semplice gioco della fantasia, genere d’esercizio letterario a lui non nuovo. Gli studiosi e i biografi del grande artista-scienziato, ovviamente, se lo son chiesto; e anche se la maggioranza di essi propende per la seconda soluzione, così come tutto l’ambiente accademico odierno, pure c’è stato qualche studioso serio, tutt’altro che facile a inseguire lucciole per lanterne, che ha ritenuto troppo realistiche e precise quelle descrizioni per essere un puro gioco della fantasia, e ha concluso per la prima ipotesi. Sta di fatto che quest’ultima interpretazione di quell’episodio della vita di Leonardo, con un’impostazione che potremmo definire ‘scientifica’, è stata avanzata dall’archeologo e storico dell’arte tedesco Jean Paul Richter (1857-1947) in The Literary Works of Leonardo da Vinci nel 1883; mentre l’altra, più propriamente ‘letteraria’, è stata elaborata dal giornalista, romanziere e biografo inglese Robert Payne (1911-1983) nel romanzo The Deluge (Il diluvio) nel 1954. Paradossalmente, dunque, l’interpretazione più audace è stata formulata da uno studioso con la forma mentis dello scienziato, mentre quella più facile e tradizionale è stata riproposta da un romanziere, privo di preoccupazioni filologiche.
Fra questi due estremi, assoluta verità e assoluta finzione, si collocano gli studiosi "possibilisti", i quali non negano a priori la possibilità di un soggiorno reale di Leonardo in quelle regioni del Medio Oriente, tanto più che sappiamo aver egli carezzato l’idea di stabilirsi a Costantinopoli per proporre al Gran Turco, fra le altre opere, la costruzione di un ponte che unisse le due sponde del Bosforo, Pera e Costantinopoli (e possediamo copia della lettera tradotta in turco, datata il 3 luglio 1503 e rivenuta negli archivi di Istanbul), ma che rimangono prudenti, in assenza di prove decisive a sostegno di ciò. Fra questi autori possibilisti ricordiamo il nostro Clemente Fusero (Caramagna, Cuneo, 1913-Cherasco, Cuneo, 1975), uomo di lettere assai colto e ben noto a suo tempo, oggi invece pressoché dimenticato, autore di fortunate biografie storiche di Raffaello, Mozart, Stendhal, Modigliani, Garcia Lorca, Eleonora Duse, Cesare Borgia, Hitler, Gandhi. Nella sua biografia di Leonardo anch’egli ha adombrato la possibilità di tale soggiorno in Oriente, nel brano che qui riportiamo perché il lettore se ne faccia una propria idea (Leonardo, Corbaccio, 1943, pp. 112-118):
Compì egli veramente, tra il 1473 e il 1477 (periodo della vita di Leonardo, intorno al quale mancano ragguagli certi), quel viaggio in Oriente, su cui s’è tanto tormentata la curiosità dei biografi dal Richter in poi? Vi fu veramente chiamato, in qualità di ingegnere, dal Diodario di Siria ("devadar" o "pervada": specie di ministro), luogotenente del Sultano di babilonia Kait Bai?
L’ipotesi ha, per una parte, più di un documento a sostegno: ma la questione sta nel valore dimostrativo che si vuole attribuire a questi indizi e, soprattutto, nel modo di interpretarli.
Nelle sue carte, fu trovato un progetto di ponte, accanto al quale è scritto: «Ponte da Pera a Costantinopoli, largo quaranta braccia, alto dall’acqua braccia settanta, lungo braccia seicento, cioè quattrocento sopra del mare e duecento posa in terra, facendo di sé spalle a sé medesimo». In un frammento della Biblioteca di Windsor, è descritta l’isola di Cipro. Una specie di parabola leonardesca sul divieto di ber vino mostra quanta conoscenza avesse dei costumi maomettani. Diversi disegni suoi si riferiscono a cose d’Oriente.
Ma il documento che più validamente sorregge la supposizione d’un viaggio in Oriente, consiste nelle famose lettere al Diodario di Siria, che contengono la descrizione del Monte Tauro e del fiume Eufrate. (…)
Stupenda descrizione. Non mai solitudine di giogaia fu resa con un più grandioso senso del paesaggio che in questa prosa lenta e solenne, gonfia di silenzi eterni. La deserta natura incute, nella sua quiete, uno sgomento profondo: e il Vinci, che vi s’aggira, ne è preso in tutte le fibre dell’esser suo.
Ma ecco che le forze dormienti si risvegliano, gli elementi si scatenano, le solitudini violate urlano, ruinano, scagliano venti e tempeste. (…)
Questi, i brani leonardeschi che han suggerito l’ipotesi d’un viaggio in Oriente. Descrizioni di paesaggio e narrazioni — frammentarie — di avventure strane e grandiose. Impressioni, che, tanta è la loro forza di rappresentazione e di evocazione, paiono colte dal vero. O Leonardo era un descrittore efficace come nessun altro, o aveva realmente percorso la regione caucasica. Nel primo entusiasmo con cui fu accolta l’ipotesi del viaggio in Oriente, vi fu chi cercò prove storiche atte a sostenerla. Risultò così che il sultano Kait Bai, per conto del quale Leonardo avrebbe intrapreso viaggi d’esplorazione e lavori di ingegneria, nel 1477 aveva percorso le valli del Tigri e dell’Eufrate, per ispezionare quelle fortezze che quarant’anni dopo sarebbero ricadute nelle mani dei Turchi. Inoppugnabili documenti arabi facevan fede di questo avvenimento, Per di più, nel 1483 s’era scatenato veramente in Siria quello spaventoso terremoto, a cui parrebbe alludere la descrizione di Leonardo e i disegni che l’accompagnano. Molti, quindi, aderirono alla convinzione del Richter.
Ma poco tempo dopo, venuta meno la seduzione di questa ipotesi in seguito a raffronti eseguiti e ad analogie scoperte tra le Lettere al Diodario" e altri manoscritti vinciani, numerosissimi argomenti furono messi in campo per demolirla, Alcuni fecero osservare come Leonardo manifestamente si compiacesse di raffigurazioni immaginarie e di descrizioni di cose mai vedute (non descrisse forse, per filo e per segno, il Diluvio?); altri fecero di Leonardo, press’a poco e salva la dignità dei termini, un manipolatore di opere altrui, oppure videro nelle Lettere al Diodario" una amplificazione letteraria di informazioni raccolte da viaggiatori provenienti dall’Oriente, Si suppose per dare maggiore autorità alla congettura (strano metodo dimostrativo, quello di convalidare una supposizione con un’altra!) che attingesse i suoi ragguagli da un giovane membro della famiglia Gondi che aveva soggiornato a Costantinopoli verso il 1480, o dai suoi amici lombardi, i quali avevano avuto rapporti con l’ambasciatore del Sultano d’Egitto, passato a Milano nel 1476, o da quel Benedetto Dei, reduce d’Oriente e direttore, dal 1480 in poi, della succursale milanese della banca Portinari, a cui Leonardo indirizzò le favolose "Lettere sul Gigante". Vi fu poi chi individuò la fonte delle descrizioni caucasiche in carte e piante acquistate da cartolari del tempo, né mancò chi vedesse nelle "Lettere" una trasposizione allegorica di questioni allora attuali. I critici più recenti usano ricollegarle con tante altre pagine leonardesche di fisica terrestre, di meteorologia e di geologia, in cui il Vinci tenta ardite ricostruzioni di epoche preistoriche, e particolarmente ad un suo brano sul piano pontico e sarmatico e sulla connessione del Mar Nero col Mediterraneo (in questa sua pagina, già è questione del monte Tauro), per concludere che si tratti di una specie di romanzo geologico, la cui azione si svolge in una remotissima epoca. Naturalmente, Leonardo non finì mai quest’opera: ma da una "divisione del libro" che ce ne rimane, si possono — parzialmente e a gradi linee — ricostruire le sue intenzioni. Tutti questi argomenti — o meglio, queste congetture — però, non distruggono n infirmano la possibilità d’un viaggio di Leonardo in Oriente che, oltre a riempire una lacuna della sua vita e a spiegare la scarsità delle opere prodotte in tale periodo di tempo, giustificherebbe quel gusto del fasto e del mistero, che da un certo momento lo dominò: elemento psicologico tipicamente orientale.
Da parte sua, la professoressa Marina Della Putta Johnston, docente presso l’Università della Pennsylvania, in un dotto saggio intitolato Leonardo da Vinci: scriversi come uomo di scienza, giunge alla conclusione che il resoconto del viaggio al Diodario di Siria è «una finzione letteraria scientificamente plausibile». Citiamo alcuni passaggi della sua elaborata e scrupolosa ricerca (fonte: Mnemosyne, n.7 del 2014, pp. 37-42):
Nel frammento principale, sopra il disegno di un lago circondato da montagne, Leonardo assume il ruolo di inviato del «Diodario di Soria, locotenente del sacro Soldano di Babilonia», al quale scrive da una non identificabile città di « Calindra » ai piedi del monte Tauro, in Armenia. Gli manda notizia di un «nuovo accidente accaduto in queste nostre parti settentrionali», che procederà a descrivere in dettaglio, e si scusa per il ritardo con cui lo fa data la difficoltà della materia. (…) Nel secondo frammento — in Atl. 573vv –, apparentemente continuando la lettera della nota precedente, Leonardo descrive una serie di devastanti catastrofi naturali da lui osservate: un’improvvisa alluvione seguita da frane, valanghe e un incendio. Non è chiaro però a chi Leonardo s’indirizzi dato il tono più colloquiale e familiare di questo frammento, né si conosce l’ordine cronologico delle due note che sono però generalmente antologizzate in questa sequenza suggerendone già un’interpretazione. È così che le riproduce Jean Paul Richter come primo documento della sezione della sua antologia leonardiana che raccoglie «Letters. Personal Records. Dated notes», dedicando loro gran parte dell’introduzione a questo capitolo.
Richter difende l’autenticità documentaria di queste note come prova di un viaggio di Leonardo in medio oriente e Armenia, dove sarebbe realmente stato al servizio del sultano egiziano o di uno dei suoi governatori locali, il «Diodario» intestatario della lettera. Fondamentali a tale argomento sono però da un lato proprio la mancanza, nel momento in cui Richter raccoglie le sue note, di documenti sulle attività di Leonardo tra 1482-1486 e dall’altro il potere documentario del disegno, in realtà problematico come vedremo. Richter respinge l’opinione espressa dal leonardista italiano Gilberto Govi, secondo cui Leonardo doveva aver ricavato notizia del monte Tauro da testi geografici a sua disposizione o dalla testimonianza di qualche viaggiatore contemporaneo e avrebbe inteso scrivere una sorta di romanzo epistolare ambientato nell’Asia Minore (…). Richter è convinto che questa sia una vera lettera scritta tra 1484-1486, ben prima della datazione di questi frammenti che ora vengono comunemente assegnati ai primi anni del 1500 o addirittura al 1508. Le prove che adduce sono in realtà solo indizi circostanziali, come la notizia di un terremoto avvenuto ad Aleppo nel 1484, secondo una lista di terremoti dello studioso egiziano Jalal al-Din al-Suyuti (1445-1505), e che sarebbe stato l’ovvia causa della «Ruina del monte» elencata nell’indice a margine del primo frammento di lettera. In realtà, il termine ‘ruina’ indica un crollo o frana senza causa specifica e, nel contesto della «Divisione del libro», si potrebbe anche intendere causata dalla ‘subita inondazione’ menzionata poco prima.
Altri elementi addotti da Richter a prova della sua interpretazione sono i disegni di montagne che affiancano la nota su entrambe le facce del foglio e che ritiene tracciati dal vero, tanto che lamenta di non averli conosciuti all’epoca di una spedizione archeologica in Armenia nel 1876 quando avrebbe potuto constatarne l’autenticità. Ciò che più convince Richter della sua ipotesi è sopratutto il fatto che uno dei disegni sul retro della lettera include i nomi di tre picchi ed è affiancato da una mappa della regione circostante. In realtà, già nel 1872 Gustavo Uzielli aveva indicato che i nomi inclusi da Leonardo non sono quelli comunemente usati dai suoi contemporanei, ma derivano almeno in parte dalla «»Geographia o «Cosmographia» di Tolomeo, che ora sappiamo presente nella biblioteca di Leonardo. La forma epistolare di queste note e l’accostamento di un disegno tecnico (la mappa) agli schizzi naturalistici di montagne ripetutamente disegnate con dettagli simili — tutti elementi retorici della pro-biografia di Leonardo, investigatore di una realtà visiva di cui trasmette visivamente la conoscenza — in un’era di positivismo hanno convinto Richter dell’assoluta autenticità di un Leonardo precorritore della scienza moderna, e di note strettamente derivate dall’esperienza diretta. In posizione diametralmente opposta troviamo invece il breve romanzo di Robert Payne, «The Deluge» («Il diluvio»), non un lavoro accademico ma esemplare di una certa interpretazione di Leonardo non inaudita negli scritti di alcuni suoi studiosi e ancora dominante nella cultura popolare del Da Vinci Code di Dan Brown. Diversamente da Richter, Payne sembra essere stato diretto nella sua interpretazione della «Lettera al Diodario» e del personaggio di Leonardo principalmente dalla marginale «Divisione del libro», che diventa l’indice del suo romanzo. (…) Piú che sulle informazioni scientifiche presenti nella lettera, ha diretto la propria attenzione alle «Profetie» scritte nell’altra faccia del foglio, accanto alla mappa che aveva tanto valore obiettivo per Richter, e presumibilmente messe lì da Leonardo per semplice associazione con il profeta dell’indice. Inoltre, Payne ha attinto anche dalle note di Leonardo su come dipingere alluvioni e tempeste e dai Viaggi di Sir John Mandeville (presenti nella biblioteca dello scienziato). Il risultato è un romanzo fantasy-scientifico, pubblicizzato nel risvolto di copertina con notevole sensazionalismo (…). La storia raccontata da Payne non è in realtà tanto violenta e sentimentale e, alla fine, si rivela nient’altro che un brutto sogno di Leonardo. In conclusione, queste due diverse interpretazioni delle note raccolte in «Lettera al Diodario» ben mostrano quanto sia difficile navigare i quaderni di Leonardo e quanto sia facile, per la loro natura frammentaria e la pratica editoriale, trarne un’immagine arbitraria dell’autore. Ma qual è allora il significato di questa lettera nel contesto della pro-biografia di Leonardo? È reale o finzione letteraria? Alla luce dei documenti esistenti, si può dire che Leonardo non visitò mai il Medio Oriente e questa lettera deve essere quindi riconosciuta come finzione letteraria. Nel corso di oltre un secolo di studi, da quello già menzionato di Gilberto Govi fino al recente articolo di Carlo Vecce su Leonardo e l’India, le fonti di Leonardo per le informazioni sul Mediterraneo orientale e l’Asia sono state identificate con libri che possedeva o a cui aveva facile accesso. Per quanto riguarda specificamente la lettera al Diodario, Francesco Di Teodoro ha osservato come la curiosità scientifica porti Leonardo a introdurre dettagli eruditi in un racconto immaginario per renderlo più spettacolare e ricco. Io credo però che la lettera non documenti solo l’interesse di Leonardo per la geografia asiatica e la meteorologia ad ornamento di un’invenzione letteraria presentata come verosimile. Leggo piuttosto questi frammenti nel contesto della sua polemica contro un sapere meramente libresco e la superstizione religiosa, come esempio dell’uso anche della scrittura creativa per promuovere una scienza basata sull’osservazione e la sperimentazione, reale o immaginata tramite disegni che rendono la finzione scientificamente plausibile e fanno di un «omo sanza lettere» un vero scrittore.
In altre parole, Leonardo con la lettera al Diodario (alcuni dicono "le lettere", al plurale, perché si tratta di tre distinti frammenti) avrebbe voluto, sì, concedesi una specie di divertissement, uno scherzo, un gioco della fantasia (homo ludens, direbbe Huizinga), come era nel suo animo ironico e come già aveva fatto in altre occasioni; ma avrebbe voluto anche dimostrare che è possibile, restandosene presso il caminetto di casa propria, stendere un resoconto "di viaggio" che ha tutte le caratteristiche della precisione e della verosimiglianza, semplicemente utilizzando il materiale documentario ed epistolografico esistente, ossia che si può fare "scienza" osservando e sperimentando in maniera tale che a nessun osservatore esterno sia possibile distinguere fra ciò che è immaginazione e ciò che invece appartiene alla realtà. E tuttavia, anche in questo caso, risorge l’inevitabile interrogativo: perché mai lo avrebbe fatto? L’autrice sopra citata risponde: per polemica contro un sapere meramente libresco e la superstizione religiosa. Possiamo convenirne? Sì, la cosa è possibile; ma francamente non ci sembra che ella, pur con tutta la sua encomiabile acribia filologica, abbia portato a sostegno della propria tesi elementi tali da farli risultare assolutamente decisivi. Ci ha convinti, ma solo a metà. E perché? Perché il testo leonardesco si presta, effettivamente, ad una simile interpretazione; ma si presta anche ad altre interpretazioni. A quella più tradizionale, del semplice scherzo o gioco della fantasia, come Giovanni Battista Piranesi si divertirà a mettere in scena, con le sue incisioni, dei paesaggi architettonici estremamente complessi ed elaborati, sovente raffigurati in rovina, ma come semplice esercitazione fantastica, sia pure descritta con l’esattezza impeccabile dello scienziato. O a quella che ha intravisto il Richter, di un resoconto di viaggio autentico, effettuato da Leonardo nella cornice temporale dei quattro "anni mancanti". Della sua biografia. Ipotesi dalla quale eravamo partiti, e con la quale ritorniamo al punto di partenza.
Leonardo sa custodire bene i suoi segreti. E chi crede di averglieli strappati, a forza di l’erudizione e di accuratezza filologica, rischia di andare incontro a delle brutte sorprese: a stringere in mano un pugno di mosche, mentre era certo di aver conquistato un ricco bottino.
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