
Ma quante acrobazie per dar ragione Galilei anche quando ha torto marcio
27 Novembre 2016
Ci siamo dimenticati di pregare
27 Novembre 2016È sufficiente conoscere il bene, per farlo? Pare che Socrate ne fosse convinto: e basterebbe ciò, ai nostri occhi, per ridimensionare di molto la sua figura di pensatore e l’importanza dell’influsso da lui esercitato sulla filosofia greca, e, indirettamente, su quella delle epoche successive, fino ai nostri giorni, passando per gli illuministi e per Rousseau.
Il valore di una filosofia si misura sulla sua capacità di porre correttamente la domanda fondamentale sul reale. La domanda fondamentale è: il reale ha un senso? E il modo corretto di porla è: si può indicare un significato complessivo del reale, che includa la dimensione umana, senza assolutizzarla? La domanda fondamentale, Socrate non ha neanche provato a porla; semmai, ha dato la risposta per acquista. Errore. Non c’è niente di acquisito, in filosofia, se prima non si è almeno tentato di dimostrarlo. Socrate parla del dio, parla del suo personale daimon, parla della saggia Diotima, ma non tenta di dimostrare il significato del reale: porta il discorso direttamente sul piano etico, e, per giunta, intellettualizza l’etica, affermando che conoscere il bene è tutt’uno col farlo: cosa palesemente falsa, come sa chiunque possieda un paio d’occhi e un paio di orecchi. I filosofi non dovrebbero mai litigare con i fatti: quando i fatti danno loro torto, essi hanno l’obbligo di rivedere le proprie teorie, non certo il diritto di negarli o d’ignorarli. Ignorare i fatti scomodi è cattiva filosofia; negarli, pessima.
A questa debolezza fondamentale del suo pensiero, se ne aggiunge una seconda: non avendo posto la domanda fondamentale, non ha impostato correttamente la questione del metodo: non si è domandato se il "bene" sia un concetto puramente umano, o, al massimo, implicante la relazione fra l’umano e il divino; non si è chiesto se il bene non includa, per essere tale, il bene di tutti e di tutto, anche degli alberi, degli animali, dell’universo. Ha ristretto arbitrariamente la sua riflessione alla dimensione umana, quindi l’ha assolutizzata. Ma, se pure l’uomo è la creatura privilegiata abitante nell’universo, o, almeno, in quella parte di universo che a noi è dato conoscere e in quella che ci dato immaginar,e non ne consegue che il bene dell’uomo si possa realizzare configgendo con il bene delle altre creature. O esiste un bene assoluto, oppure esiste il bene di alcune creature contrapposto a quello di altre: e, in tal caso, non c’è più il bene, ma ci sarebbero solamente i beni. Estendendo il ragionamento: se non si include nel reale ogni cosa esistente e ogni cosa pensabile, visibile e invisibile, materiale e immateriale, naturale e soprannaturale, non si fa veramente filosofia, perché fare filosofia vuol dire porre il tutto, a trecentosessanta gradi, senza nulla lasciar fuori dalla propria considerazione. Fare filosofia è pensare il tutto; pensare una realtà determinata, è fare un’altra cosa.
E ora torniamo al cosiddetto intellettualismo etico. Che non sia sufficiente conoscere il bene, per farlo, è cosa troppo evidente per volerla dimostrare: chiunque di noi ne ha continuamente l’esperienza. Può darsi che qualcuno lo neghi, e che affermi di aver bisogno di prove di ciò che stiamo dicendo. Benissimo: costui somiglia a chi dica di non aver mai visto un lichene. Evidentemente, costui non ha mai visto un albero, un vecchio muro, una roccia esposta a settentrione. Chi possieda una sia pur minima capacità di guardarsi dentro, non ha neanche bisogno di osservare gli altri per constatare, più e più volte nel corso di una sola giornata, che conoscere il bene e farlo son due cose del tutto diverse. In mezzo, c’è un abisso: l’abisso della volontà insufficiente; l’abisso della concupiscenza; l’abisso di quell’altro "io" che abita in noi, e che alcuni chiamono inconscio, altri istinto, ma che, spesso, è perfettamente consapevole di se stesso, quando dice alla coscienza: So quel che dovrei fare, e tuttavia non lo farò; oppure: So che non lo dovrei fare, e nondimeno lo farò, perché così voglio, così desidero, così bramo, e nessuna forza al mondo potrebbe deviarmi dalla strada che ho scelto. Non nascondiamoci dietro un dito: il male che facciamo, sappiamo che è male; non lo facciamo per ignoranza, ma per volontà deliberata.
L’errore di Socrate è un errore clamoroso e non è scusabile, perché contrasta con l’abito stesso del filosofare. È l’errore di chi non vuol vedere il reale per ciò che è, ma lo vede attraverso lo specchio deformante della propria ideologia, nel significato deteriore della parola, cioè come sovrapposizione dei propri schemi e pregiudizi allo sguardo lucido e spassionato sulle cose. In un certo senso, la filosofia consiste nel togliere il velo che ci nasconde la realtà delle cose, e lasciare che ci si rivelino, intatte; porre quel velo su di esse, più o meno deliberatamente, è l’anti-filosofia.
Ha scritto Fabio Cioffi a proposito del’intellettualismo etico di Socrate (in: Cioffi, Luppi, Vigorelli e altri, I filosofi e le idee. Esperienze filosofiche e storia del pensiero, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 2004, vol. 1, pp. 137-138):
Nel corso dei dialoghi, così come sono narrati negli scritti giovanili di Platone, Socrate discute le virtù elaborate dalla civiltà greca (il coraggio, la temperanza, la pietà, la giustizia, l’areté politica) e pone il problema di quale sia la loro essenza, la loro forma generale (eidos). Nel dialogo "Eutifrone", per esempio, il "ti èsti" socratico viene formulato attraverso la ricerca dell’eidos, ossia dell’idea generale di "santità", in virtù della quale poter distinguere in maniera certa le azioni sante da quelle non sante.
Secondo il racconto di Platone, Socrate tuttavia non dà mai alcuna definizione positiva delle virtù attorno a cui dialoga con i suoi discepoli. Allo sforzo di rendere consapevoli gli altri della loro ignoranza, non fa seguito alcuna risposta circa la sua domanda di definizione. Quello di Socrate p dunque un interrogare senza mai rispondere? Questa è l’accusa che i sofisti lanciano al filosofo di Atene, irritati dall’atteggiamento ironico che egli tiene di fronte ad essi. Per i sofisti, Socrate è u abile e sfuggente oratore, che confuta gli altri, senza tuttavia dare mai risposte. Socrate è un maestro nell’esortare alla vita virtuosa, ma non dice che cosa è la virtù, lasciando i discepoli di fronte a definizioni diverse e contraddittorie. Egli incita alla sapienza e alla giustizia, ma qual è la vera sapienza e quale la vera giustizia? Senza una risposta a queste domande, la dialettica socratica rischia di essere solo una "nobile sofistica", come la chiamerà il suo stesso discepolo Platone, egregia nel preparare l’animo umano alla vita buona, ma vuota di contenuti e quindi debole e disarmata di fronte al relativismo sofistico e alle sue conseguenze sul piano politico ed educativo.
Gli studiosi hanno fornito, su questo aspetto del pensiero socratico, risposte e interpretazioni diverse. Per alcuni, la filosofia socratica non ha contenuti determinati e va intesa soprattutto come esortazione alla vita virtuosa. Per altri, è una filosofia del dubbio, che spinge a guardare nel proprio animo e a superare pregiudizi e false opinioni. Per altri ancora, se è vero che manca nel Socrate presentato da Platone una definizione positiva delle virtù, è anche vero che il filosofo ateniese offre un’indicazione ai suoi seguaci quando invita a vedere nell’anima la componente essenziale dell’uomo: sarà indagando nella propria anima che ciascuno potrà scoprire ciò che è bene.
L’importanza della filosofia socratica sta nel messaggio razionale che il filosofo rivolge al’uomo. Il suo ragionamento si fonda sulla convinzione che la conoscenza del bene sia anche la condizione perché gli uomini agiscano pubblicamente in modo virtuoso. La comprensione della verità, cioè che il bene è il vero fine della vita, motiva necessariamente l’uomo a una esistenza moralmente buona. Questa tesi socratica, che verrà in seguito definita intellettualismo etico, si contrappone all’opinione sostenuta da molti che l’uomo possa invece sapere che cosa sia il bene e tuttavia possa decidere di commettere il male. Per Socrate, nessuno commette il male volontariamente: sapere che cosa è il bene rende impossibile l’azione malvagia. Giacché tutti vogliono il proprio bene si commette il male solo per ignoranza della verità. È dunque attraverso il sapere, la scienza, che l’uomo giunge al bene, e il bene è il contenuto di quella virtù fondamentale che conduce alla "sophrosyne", a una vita misurata e consapevole. Attraverso l’identificazione di virtù e sapere operata da Socrate, il pensiero filosofico pone per la rima volta in stretto rapporto verità e vita, scienza ed esistenza. La filosofia diventa esercizio spirituale, capace di produrre comportamenti virtuosi.
Non avevano affatto torto, i sofisti, allorché accusavano Socrate di porre domande allo scopo di confutare le risposte altrui, ma senza dare mai delle risposte proprie. È una professione troppo facile, e in fondo poco nobile, quella di concentrarsi sugli errori del prossimo, e, nello stesso tempo, astenersi dal proporre una soluzione. Socrate lo fa. Demolisce le verità altrui, le certezze altrui, le sicurezze altrui, ma non fornisce alcuna risposta. Tuttavia, non si dovrebbe spingere il prossimo in acqua, dall’alto di una scogliera, se costui non ha mai nuotato in vita sua. Può darsi che imparerà ora, sbracciandosi disperatamente, per salvare la propria vita; ma può darsi che andrà miseramente a fondo. Socrate si assume una responsabilità tremenda: spinge le persone nel vuoto, e dice: Adesso sbrigatevela un po’ come meglio sapete. Non c’è da meravigliarsi che mezza Atene lo detestasse: tanto più che lui, oltre a demolire implacabilmente ogni certezza altrui, lo faceva con un’ironia che i suoi ammiratori definiscono arguta e brillante, ma che, ai suoi sfortunati interlocutori, incapaci di controbattere la sua diabolica abilità dialettica, doveva apparire, semplicemente, come sprezzante e offensiva. Il danno e la beffa: li lasciava nudi come vermi e si godeva il loro imbarazzo.
Il vero maestro sa che ciascuno deve trovare da sé la verità, ma sa anche che non tutti possono intraprendere un simile cammino, e, soprattutto, che è cosa folle volerli spingere su di esso, se non ne manifestano né l’attitudine, né il desiderio. Socrate è stato un cattivo maestro, perché poneva sulle spalle dei suoi interlocutori un peso molto più gravoso di quel che potessero sopportare. Il vero maestro sa valutare le forze del discepolo, le sue attitudini, la sua disponibilità a intraprendere la ricerca del vero. Ma Socrate non dialogava con dei veri discepoli: prendeva ad interlocutori o dei malcapitati di passaggio, o dei retori meno abili di lui con la parola: li confondeva, li umiliava, e poi li piantava in asso. Aveva dei discepoli, ma solo nel senso che era attorniato da un gruppetto di cagnolini adoranti, che non si staccavano mai dalle falde della sua tunica e che avrebbero giurato che brilla il sole a mezzanotte, se avessero con ciò creduto di fargli piacere, o di rendergli onore. Ecco perché non c’è stata una scuola socratica; e Platone non è un discepolo di Socrate, o meglio, diventa un filosofo nel momento in cui si mette a far filosofia per conto proprio.
Socrate non era un vero maestro anche per un altro motivo: era pieno di ego. Voleva trionfare. Il vero maestro cerca la verità e non il proprio trionfo; anche Socrate diceva di cercare soltanto la verità, ma intanto godeva di umiliare l’interlocutore e di trionfare su di lui, davanti a tutti. C’era sempre un pubblico numeroso che si godeva lo spettacolo. Si dice che san Tommaso d’Aquino, una volta, rimase in silenzio davanti a un giovane teologo che si faceva bello con un mucchio di discorsi vuoti, faceva la ruota come un pavone, come se avesse trionfato sul grande aquinate. Più tardi, un amico chiese a quest’ultimo perché non avesse replicato, lasciando la palma della vittoria a quel giovane presuntuoso e impudente. Tommaso, con perfetta serenità, gli rispose: Perché avrei dovuto farlo? Quel giovane era così contento di ricevere l’ammirazione altrui. A che scopo mortificarlo? E non c’era ombra d’ironia nelle sue parole. Ecco: questa è la vera grandezza; questo è un vero maestro. Il vero maestro ha un cuore sensibile e compassionevole; non è chiuso nel gelo della sua superiorità intellettuale, ed evita di mortificare chicchessia. Socrate si nasconde dietro un dito, quando dice di aver troppo a cuore la verità, per lasciare che sia deturpata: si può amare la verità e denunciare l’errore, senza per questo infliggere all’interlocutore una pubblica umiliazione. Nei dialoghi socratici, invece, c’è sempre un vinto: il suo interlocutore; e un vincitore: lui. E ciò non è bene. Socrate si contraddice. Di certo era abbastanza intelligente da vedere che i suoi interlocutori restavano confusi; che annaspavano, senza trovar le parole; che si sentivano presi nella rete, e fiutavano un trucco, ma non sapevano quale: però nulla faceva per attenuare la loro impressione d’essere stati raggirati, d’essere stati usati per far risplendere la sua ironia. Li faceva soffrire, senza offrir loro la medicina della verità, di cui li aveva privati bruscamente. Vedeva che quel che faceva non era bene — impossibile il contrario -, ma andava avanti per la sua strada: perché era bene per lui, per il suo ego. Così, smentiva il suo intellettualismo etico: vedeva che sarebbe stato bene rispettare il loro amor di sé, e, inoltre, che avrebbe dovuto costruire, dopo aver distrutto: ma non lo fece mai…
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