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Il disconoscimento del merito come problema etico

Si dice che l’etica è quel ramo  della filosofia che si occupa del bene e del male. Ciò è abbastanza esatto, ma la definizione è incompleta: non contempla un aspetto altrettanto importante, che è quello della giustizia. La filosofia classica considerava la giustizia come di pertinenza della "politica", e, in fondo, aveva ragione, perché essa si dispiega nel contesto del vivere sociale, mentre la distinzione e la scelta fra il bene e il male può essere, sì, anche un atto sociale, ma solo come riflesso di orientamenti e decisioni che sono, in primo luogo, di carattere strettamente individuale: poche cose vi sono di più personali della decisione se una certa cosa, o una certa azione, siano "buone" o "cattive". In pratica, tuttavia, separare la politica, nel senso più ampio del termine, dall’etica, è cosa evidentemente impossibile, perché ogni atto o decisione etica implicano degli effetti che si traducono nelle relazioni fra soggetti diversi, o direttamente, o anche indirettamente. Infatti, persino un eremita, che decida di trascorrere tutta la sua vita in perfetta solitudine, esercita una influenza sugli altri esseri umani (per non parlare dei non umani, come gli abitanti del bosco o della montagna dove ha scelto di stabilirsi), se non altro in termini di privazione e di assenza. Quell’uomo avrà pur avuto una famiglia, dalla quale si è staccato; e, se non l’aveva, avrà avuto degli amici, o almeno dei conoscenti: essi noteranno, in qualche misura, la sua assenza, e quindi la sua decisione di andare a vivere in solitudine avrà un effetto su di essi, per quanto impercettibile possa apparire (ma forse non così insignificante: perché, delle cose significative che sono o non sono più accanto a noi, non è detto che ci accorgiamo per tempo). Quindi, non si può tracciare una linea di separazione rigorosa fra la ricerca del bene e del male, e la vita pratica fra gli altri esseri viventi; e non si può evitare che il nostro senso di giustizia, per quanto vago e poco esigente possa essere, ma che, crediamo, giace comunque al fondo di ogni creatura umana, non si senta sollecitato e interpellato dall’avvenuto, o dal mancato, riconoscimento del bene, del merito e della giustizia stessa.

In altre parole, noi siamo fatti in modo tale che sentiamo un richiamo istintivo verso la giustizia; e, anche se molti non vi prestano attenzione, o non lo ascoltano, esso, nondimeno, è presente nelle profondità dell’anima, e può bastare una lieve occasione per ridestarlo in tutto il suo vigore, e costringere la coscienza a diventarne consapevole. Definiamo la giustizia come la capacità di riconoscere ciò che spetta a ciascuno, secondo il suo merito; e ingiustizia il contrario, ossia un indebito riconoscimento a ciò che non ha meriti, e, parallelamente, un deplorevole misconoscimento di ciò che ne ha. Ingiusta, quindi, è una società, o una situazione, nella quale il merito non viene riconosciuto; e poiché il merito si accompagna al bene, e il demerito si accompagna al male, una società ingiusta o una situazione ingiusta sono caratterizzate anche da una affermazione di ciò che è male e da una ignoranza, o, peggio, da un vero disprezzo di ciò che è bene. Giusta, invece, sarà una società, o una situazione, nella quale il bene viene riconosciuto, lodato e premiato, e il male viene disprezzato, rifiutato, respinto. Un istinto potente, che abita dentro di noi, ci spinge a desiderare che il bene e il merito vengano riconosciuti e premiati, mentre vorremmo che il male e il demerito vengano rifiutati e respinti. Desideriamo, per esempio, che un bravo lavoratore riceva il premio del suo impegno; che un bravo artista veda riconosciuto il suo genio; che un bravo genitore abbia la soddisfazione di veder crescere nel modo migliore, fisicamente e moralmente, i suoi figli. Allo stesso modo, c’è qualcosa che ci porta a rattristarci se vediamo che un cattivo lavoratore ottiene delle lodi immeritate dai suoi superiori, e magari un avanzamento di carriera; se un bravo artista viene ignorato dal pubblico e snobbato dalla critica, ed è costretto a trascinare un’esistenza oscura e stentata, mendicando anche quel minimo che, secondo noi, gli spetterebbe di diritto; se un bravo genitore ha l’immenso dolore di vedere i suoi figli, ai quali ha donato tanto amore e dedicato tante attenzioni, prendere una cattiva strada e, per giunta, ricambiare con l’ingratitudine più nera, e persino con la malvagità deliberata, il bene che hanno ricevuto. Se si verificano queste situazioni, o, peggio ancora, se ci sembra che l’intera società vada in tale direzione, premiando il male e il demerito, e disprezzando il bene e il merito, abbiamo la sensazione che qualcosa non vada nel modo giusto, che le cose non prendano la piega che avrebbero dovuto prendere: in altre parole, si ribella in noi, istintivamente, e anteriormente a qualsiasi ragionamento, il senso della giustizia offesa. 

A questo punto, si pone una evidente aporia fra il mondo reale e il mondo quale noi lo vorremmo, quale noi sentiamo che dovrebbe essere, se fosse "giusto"; e ciò accade anche se noi, per una ragione o per l’altra, non siamo, o non siamo interamente, delle persone giuste, o se non ci consideriamo tali, perché consapevoli di essere venute meno, più d’una volta, a un qualche dovere di giustizia. Nella scena della crocifissione di Cristo, compaiono due personaggi nuovi: i ladroni che vennero messi al supplizio insieme al Redentore. Ebbene: l’uno perseverò nella sua vita ingiusta, rifiutando di pentirsi del male fatto, anche davanti all’imminenza della morte; l’altro si pentì e si rammaricò, non solo: ebbe un moto di giustizia nel riconoscere che lui e il suo compagno stavano ricevendo, in fondo, il meritato castigo dei loro delitti, mentre quel terzo condannato, che stava soffrendo in mezzo a loro, non solo non si era macchiato di alcuna cattiva azione, ma appariva, e in effetti era, assolutamente innocente da ogni colpa.  Ecco: il moto spontaneo di pentimento per la propria ingiustizia, e di rammarico per il supplizio che era stato riservato a un innocente, si possono considerare come le tipiche, istintive espressioni del sentimento profondo di giustizia che alberga in ogni anima, anche la più peccatrice, e che può, a determinate condizioni, riaffiorare quando meno lo si crederebbe, illuminando di uno splendore ineffabile anche le tenebre più cupe.

Ai fini del nostro discorso, peraltro, non è necessario immaginare una contrapposizione così patente del male e del bene, per comprendere a fondo il vero meccanismo del senso di giustizia: è sufficiente pensare a uno studente ingiustamente bocciato, mentre un suo compagno viene ingiustamente promosso all’esame; oppure a uno scienziato, a un esploratore, a un ricercatore, a un artista, i quali abbiano fatto qualcosa di bello e di grande, nonché di utile, ma non ricevano alcun riconoscimento, anzi, neppure alcuna attenzione, dai loro contemporanei, ma li ricevano, tutt’al più, dopo la loro morte; e, viceversa, a delle persone le quali abbiano ottenuto lodi e premi per dei meriti supposti nel campo dell’arte, della scienza, delle scoperte, della ricerca, mentre, in realtà, esse hanno barato, hanno ingannato, hanno mentito, e o non hanno mai raggiunto i risultati dei quali si vantano, oppure li han rubati a qualcun altro, appropriandosi dei suoi meriti e respingendolo nell’anonimato, per prendere su di sé i riconoscimento che sarebbero spettati a lui. Di fatto, basta guardarsi attorno per rendersi conto che le cose vanno proprio così, se non sempre, certo assai frequentemente; per cui deve esistere una anomalia,  una deformità, una dissonanza strutturale nella condizione umana, dato che così spesso ottengono lodi e gloria quelli che non lo meriterebbero, e rimangono oscuri e ignorati degli autentici giganti. Potremmo anche farcene una ragione, pur provando, davanti a ciò, un intimo dissidio, se non vedessimo, con immenso stupore, che la mala pianta dell’ingiustizia si insinua perfino nell’ambito ove non ce l’aspetteremmo affatto, il solo nel quale saremmo portati a credere che le cose debbano andare diversamente: quello della santità.

Senza alcun dubbio, un’anima santa non si preoccupa affatto di vedere riconosciute le sue opere buone; le fa per un impulso interiore, per una scelta religiosa e per piacere a Dio; nondimeno, siamo portati a immaginare che, nell’ambiente in cui si muovono le anime sante, gli altri, e specialmente i confratelli o le consorelle, dovrebbero capire, apprezzare e gioire per la fortuna di avere accanto a loro una persona di tal genere. La realtà è che, non di rado, i peggiori nemici dei santi, umanamente parlando, sono proprio i loro confratelli e le loro consorelle, e perfino i loro superiori: rosi dall’invidia, tormentati dalla gelosia, essi non tollerano di venir messi in ombra dalla luce della santità, e fanno del loro meglio, o piuttosto del loro peggio, per render dura la vita a quel compagno o a quella compagna troppo zelanti. È noto quanto ebbe a patire san Pio da Pietrelcina da parte del suo vescovo e di alcune persone influenti, che, da vicino e dal lontano, brigavano per metterlo in una pessima luce agli occhi del Vaticano e per ostacolare in ogni modo la sua vita di santità. A un certo punto, oltre ad essere accusato di simulare le stimmate, procurandosi da solo le ferite alle mani, gli venne proibito di officiare la santa messa, di confessare le persone per più di te minuti ciascuna (!), e gli vennero messe delle microspie perfino nel confessionale, perpetrando un autentico sacrilegio, per trovare il modo di coglierlo in fallo.

Meno noto, almeno al grande pubblico, è il caso di Giovanna Jugan (1792-1879), fondatrice delle Piccole Suore dei Poveri, meglio nota come Santa Maria della Croce, che dedicò la sua intera vita all’assistenza delle persone anziane e indigenti, e che, dopo essere stata priora per due volte a Saint-Servan, e aver contribuito in maniera decisiva all’espansione dell’Opera, mediante la creazione di altre case di assistenza, venne messa in disparte e poté rimanere nel convento, quasi tollerata, solo come semplice suora questuante, restando per vent’anni fra le novizie, e svolgendo le mansioni più umili, senza mai rivendicare il proprio merito e lasciando che un prete meschino e ambizioso si appropriasse del vanto di aver creato quella iniziativa. Molte delle più giovani, che la vedevano lavorare come una qualsiasi, ignoravano addirittura che fosse stata proprio lei a creare l’istituto delle Piccole Suore dei Poveri; sicché, mente la sua fama volava per la Francia e per il mondo, lei era già come dimenticata e totalmente emarginata, proprio fra i muri della casa-madre. Quante altre persone, al suo posto, non avrebbero ceduto alla tentazione di rivendicare il proprio merito e di pretendere il legittimo riconoscimento dell’immenso lavoro svolto? Per ventisette anni, l’ormai anziana suora visse nel silenzio e nell’oblio: pressoché invisibile, al centro d’un possente organismo che lei, con fede e con grandi sacrifici, aveva creato dal nulla. Allorché morì, nel 1879, ben poche delle stesse suore dell’Opera sapevano chi ella fosse realmente. Seguì un lungo oblio; solo a partire dal 1902 la verità incominciò lentamente ad emergere. Un paio di volte, delle consorelle venute a conoscenza del fatto l’avevano esortata a parlare, ma ella aveva rifiutato e preteso, invece, che non si parlasse più della cosa. E un altro fatto è importante sottolineare: suor Giovanna Jugan era perfettamente serena. In lei non si notava alcun segno di afflizione, o di mortificazione, o di tristezza. Chi pensa che avrebbe dovuto provare tali sentimenti, non ha capito il segreto di quell’anima. Nella sua santità (è stata canonizzata da Benedetto XVI, nel 2009), ella aveva fatto interamente sua la volontà di Gesù, che ha raccomandato: Non sappia la tua destra quel che fa la sinistra; e ancora: Il Figlio del’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire; e inoltre: Gli ultimi saranno i primi e i primi, gli ultimi. Ella si riteneva un’operaia nella vigna del Signore, senza meriti particolari; una serva "inutile", nel senso evangelico del termine.

Che cosa si deve pensare di tutto ciò? Da una parte, si prova una grande ammirazione per la modestia e l’umiltà di quell’anima; dall’altra, è difficile trattenere un sentimento di sdegno per l’ingratitudine, e anche peggio, di chi visse e lavorò accanto a lei, relegandola in quell’anonimato e prendendosi dei meriti che sarebbero spettati a lei più che a chiunque altro. Eppure, indubbiamente, Giovanna Jugan aveva compreso il grande segreto della vera umiltà cristiana: cioè che, se non ci si umilia, si rischia di cadere vittime del veleno sottile dell’orgoglio. Certo, rivendicare il merito del proprio lavoro sarebbe stato umanamente "giusto"; ma ella non si era fatta suora e non aveva deciso di servire i poveri e gli anziani per alcun’altra ragione che per fare la volontà di Dio. In lei non vi era la minima taccia di umana vanità; ma questo, probabilmente, era il frutto di un incessante lavorio su se stessa, perché l’istinto di attendersi il riconoscimento delle buone azioni compiute è, crediamo, connaturato agli esseri umani. Perciò, nella sua modestia e semplicità, bisogna vedere, probabilmente, l’eroica tensione dell’anima che vuol piacere a Dio, per essere come Egli ci vuole, e per superare i limiti umani dovuti all’attaccamento alle cose, una delle cui forme è, senza dubbio, l’aspettativa che i nostri meriti vengano riconosciuti dagli altri.

E ora torniamo all’ambiente profano. Nel film televisivo Cook and Peary. La corsa al Polo, di Robert Day (1983), si vede, nella scena finale, il vero conquistatore del Polo Nord, il dottor Frederick Cook, interpretato dall’attore Richard Chamberlain, assistere, stando nelle ultime file, al clamoroso trionfo del suo più fortunato antagonista, Robert E. Peary (che ha il volto di Rod Steiger), mentre si gode le lodi e le ovazioni del pubblico. Sul volto di Cook vi è un indecifrabile sorriso: tace e osserva la scena, senza farsi avanti, né rivendicare il suo merito. In realtà, vi fu una durissima battaglia mediatica fra i due, che si risolse a favore di Peary, non senza pesanti condizionamenti del mondo finanziario e dell’establishment scientifico; ma ancor oggi non è chiaro chi dei due abbia raggiunto davvero per primo il Polo Nord, e può anche darsi che non vi sia realmente riuscito nessuno dei due. Quel che ci interessa, tuttavia, in questa sede, non è chi dei due abbia avuto ragione, ma il significato di quel sorriso di Frederick Cook. Forse, il segreto è tutto lì…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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