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8 Novembre 2016I racconti del mistero e del terrore di Algernon Blackwood (Shooter’s Hill, Londra, 14 marzo 1869-10 dicembre 1951), non troppo conosciuto in Italia, ma assai popolare, fin da subito, nei Paesi di lingua inglese, sono innanzitutto dei racconti d’atmosfera: nel senso che la vera protagonista di ciascuno di essi è l’atmosfera, impalpabile e quasi elusiva, almeno all’inizio, e poi, via, via, sempre più oscura e minacciosa, sempre più maligna e spaventevole. Non di rado incominciano con una atmosfera ingannevolmente serena e perfino idilliaca: Blackwood è un maestro nel cogliere tutte le sfumature del paesaggio, specialmente dei paesaggi naturali vasti e misteriosi, e, parallelamente, le sfumature dell’animo dei protagonisti, che evolve gradualmente dalla spensieratezza, a un vago senso di disagio, quindi ad un malessere spirituale sempre più accentuato, fino ad essere afferrato, e quasi stritolato, nella morsa del terrore più agghiacciante.
Frequentatore di società esoteriche, Blackwood, nel corso della sua vita errabonda (viaggiò in vari paesi e tentò numerose carriere e professioni, con spirito avventuroso e pionieristico, prima di tornare in Inghilterra, poco più che trentenne, e scoprire la sua intima vocazione letteraria), egli trasfuse nei suoi racconti delle precise conoscenze iniziatiche, ma senza che la dottrina delle arti occulte prenda mai il sopravvento e giunga a soffocare l’autentica ispirazione poetica che li rende strani, unici, e quasi senza paragone nel pur vasto panorama della moderna letteratura "gotica". Più raffinati di quelli della maggior parte dei suoi colleghi; altrettanto terrorizzanti, ma forse più curati, anche letterariamente, di quelli del tanto celebrato H. P. Lovecraft (che ad essi si ispirò largamente); meno crudamente realistici e un po’ prevedibili di quelli di Arthur Machen, si possono semmai accostare, per raffinatezza di tratto ed eleganza di stile, oltre che per quella inconfondibile vaghezza ed elusività di atmosfere, ai racconti di Joseph Sheridan Le Fanu, il grande scrittore irlandese della generazione precedente (morto nel 1873, e, pertanto, pochi anni dopo la nascita di Blackwood, al quale pare aver consegnato il testimone di una ideale staffetta). In comune, i due scrittori hanno il gusto per lo studio degli stato d’animo dei personaggi, per la loro capacità di scende in profondità negli abissi tenebrosi dell’anima umana; oltre a un saggio riserbo nel mostrare l’oggetto del terrore, ben consci che, una volta mostrato, anche l’oggetto più terribile comincia già a fare meno paura di quel che possa fare un pericolo invisibile, una presenza indefinita.
Di solito, nei racconti di Blackwood – molti dei quali incentrati sulla figura del dottor John Silence, l’investigatore dell’occulto, così come quelli di Le Fanu ruotavano intorno alla figura del dottor Martin Hesselius — si parte da un viaggio in qualche luogo remoto, per un campeggio o una vacanza; o da un nostalgico ritorno sui luoghi dell’adolescenza o della giovinezza, da parte di uomini maturi; o, ancora, da una situazione banale e quotidiana, per poi giungere, il più delle volte per tappe graduali, ad un vero e proprio incubo ad occhi aperti, dove la realtà di tutti i giorni improvvisamente s’incrina, si deforma, si apre, come si aprono le quinte d’un palcoscenico: ed ecco fare irruzione una dimensione "altra", popolata di spettri mostruosi e di creature delle tenebre, di fantasmi, di elementali, di licantropi, di adoratori del Demonio, di antichissimi riti che si credevano scomparsi nella notte dei secoli. A volte sono le creature stesse della natura a congiurare inaspettatamente contro i protagonisti umani, per esempio gli alberi di una foresta. Nell’affascinante racconto I salici, Blackwood immagina che la vegetazione di un isolotto nell’alveo del Danubio, a valle di Presburgo, ad un certo punto si animi d’una vita incredibile, minacciosa, terrificante, e cospiri per stringere d’assedio due giovani escursionisti che stavano percorrendo il grande fiume, a bordo di una canoa, per svago e per il gusto della vita libera e avventurosa.
Ecco la descrizione delle rive del Danubio (da: A. Blackwood, I salici; in: H. P. Lovecraft, I miei orrori preferiti, a cura di G. Pilo e Sebastiano Fusco, Roma, Newton Compton, 1994, pp. 350-351):
Proseguendo a dodici chilometri l’ora, fummo ben presto dentro all’Ungheria, e le acque fangose, segno certo di una piena, ci mandarono ad arenarci su molte barene di ghiaia e ci fecero girare come un turacciolo in parecchi, improvvisi, rumorosi vortici, prima che le torri di Pressburg (in ungherese Poszóny) si mostrassero contro il ciel; quindi la canoa, saltando come un cavallo imbizzarrito, volò ad incredibile velocità sotto le mura cineree, schivò senza danni la catena immersa del traghetto di Fliegende Brüche, superò la curva verso sinistra, e s’immerse nella schiuma gialla di quella solitudine di isole, argini e paludi: la terra dei salici.
Il cambiamento d’orizzonte sopravvenne improvviso, come quando una serie di immagini del bioscopi si chiude con le vie di una città e si riapre, inaspettatamente, su panorami di laghi e foreste. Entrammo in quella terra desolata quasi su un paio d’ali e in meno di mezz’ora, non c’era più né una barca, né una capanna di pescatori, né un tetto rosso, né un solo segno di abitazione umana o di civiltà, sin dove giungeva lo sguardo.
Il senso di lontananza dal genere umano, il completo isolamento, il fascino di quel singolare mondo di salici, venti e acque, fece d’un tratto cadere la sua magia su entrambi, tanto che ammettemmo scherzosamente che avremmo dovuto possedere, a voler essere in regola, un tipo particolare di passaporto per penetrare in quella regione, e che eravamo entrati, con una certa audacia, senza chiedere permesso, in un piccolo, isolato regno di meraviglie incantate… un regno riservato ad altri che ne avevano diritto, e che recava dovunque invisibili cartelli di divieto d’accesso per coloro che avessero immaginazione sufficiente per scoprirli.
Pur essendo ancora primo pomeriggio, gli schiaffi incessanti di un vento alquanto impetuoso ci avevano reo esausto, e cominciammo subito a guardarci intorno per trovare un posto adatto ad accamparci per la notte. Ma lo strano carattere di quelle isole rendeva difficile l’approdo: la piena turbinante ci portava a contatto delle isole e ci spingeva di nuovo al largo; i rami dei salici ci laceravano le mani quando li afferravamo per fermare la canoa, e trascinammo nell’acqua diversi tratti di riva sabbiosa, prima di finire, per un grosso colpo obliquo di vento, in un risucchio e di riuscire a mettere a terra la prua in una nuvola di spuma. Ci stendemmo, ansanti e ridenti, dopo quegli sforzi, su una sabbia calda e dorata, riparati dal vento, nel pieno splendore d’un sole bruciante, con un limpido cielo azzurro su di noi, e un immenso esercito di macchie di salici danzanti e urlanti che ci circondava da ogni lato, lucidi di spruzzi, e battevano le loro piccole mani come ad applaudire il successo della nostra impresa.
Vale la pena, anche per un confronto, rileggersi la descrizione di un’isola boscosa del Mar Baltico, nell’arcipelago posto al largo di Stoccolma, in una limpida notte stellata di luglio, nell’altrettanto celebre racconto Il campo del cane, nel quale non sono i salici, ma gli abeti, colti nella diafana luce lunare, ad essere i silenziosi e pur vivi e palpitanti protagonisti della scena (da: A. Blackwood, John Silence, il detective dell’occulto, Roma, Fanucci Editore, 1977, p. 266):
Facemmo il giro dell’isola, senza parlare: era tropo bello per sciuparlo con le parole. Gli abeti si affollavano sulla spiaggia per sentirci passare. Vedevamo le loro splendide chiome scure, piegate con solenne dignità come per guardarci, dimenticando per un momento le stelle impigliate nella rete dei loro aghi. Contro il cielo ad occidente, dove indugiava ancora l’oro del tramonto, vedevamo agitarsi l’orizzonte, irto di foreste e di precipizi; quello spettacolo prendeva il cuore come il motivo di una sinfonia, e faceva fremere la mente di fronte a quella bellezza: le isole circostanti stavano sull’acqua come nubi basse, e parevano schierarsi in silenzio nell’attesa della notte. Udivamo lo sgocciolio musicale della pagaia, lo sciacquio sommesso delle onde sulla spiaggia; poi all’improvviso ci ritrovammo all’imboccatura della laguna, dopo aver completato il periplo.
Come abbiamo accennato, Blackwood è un maestro nel tracciare gradualmente il passaggio dal quotidiano all’invisibile, dalla normalità all’incubo, e nell’esplorare le delicate sfumature con cui entrambi i paesaggi — sia quello esteriore che quello interiore — mutano in maniera pressoché impercettibile, fino a condurre il lettore nel pieno d’una situazione terrificante: terrificante non perché si mostri apertamente un nemico fisico, ma per l’approssimarsi di un pericolo indistinto, comunque di natura ultraterrena, portatore di ancestrali terrori e di brividi arcani e sconosciuti, nei quali lo spirito, quasi trascinato da un piacere perverso, si smarrisce e fa naufragio, abbandonandosi agl’inconfessabili godimenti di un terrore senza nome e senza volto.
Nel racconto Culto segreto, un signore inglese di mezza età si trova a passare vicino ai luoghi ove sorgeva il collegio tedesco nel quale aveva studiato da ragazzo, e decide di farvi una capatina, in omaggio alla nostalgia. Dopo aver cenato alla locanda e aver attraversato il bosco mente scendono le ombre del crepuscolo, si ritrova davanti all’antico edificio e vi entra, trovando, con estrema e piacevole sorpresa, tutto, o quasi tutto, com’era allora. Un insegnante lo invita ad entrare nella sala in cui si sta svolgendo un rinfresco, e l’ex studente si vede festeggiato come un vecchio amico, con una espansività quasi eccessiva, che, poco a poco, lo mette in sospetto e lo fa sentire sempre più a disagio. Poco alla volta, si rende conto che nulla è come sembra; che quelle persone stanno solo fingendo di festeggiarlo; che, in realtà, si stanno preparando a qualche cosa di terribile, e che lui, se volesse andarsene, non sarebbe più in grado di farlo, tanto è vero che essi trovano il modo di trattenerlo ogni qualvolta prova ad accomiatarsi, e ormai è scesa la notte, e un altro ospite, stavolta proveniente dall’Inferno, si capisce che sta per arrivare. La descrizione del graduale passaggio dell’animo del protagonista dalla nostalgia, alla lieta sorpresa, a una vaga inquietudine, e infine a un terrore sempre più netto, anche se (o proprio perché) privo di un oggetto preciso, è estremamente abile: il lettore si sente trasportato in quell’atmosfera ambigua e si accorge, con delizioso raccapriccio, che sta provando gli stessi, contrastanti sentimenti di Harris, il mercante di seta, ritornato dalla lontana Inghilterra solo per andarsi a cacciare in una situazione pericolosissima e quasi disperata, in una orribile riunione di mostri o di demoni, i quali si apprestano a celebrare il Diavolo con un sacrificio umano: il suo.
Una situazione simile fa da introduzione al racconto Antiche stregonerie, dove il protagonista, un ometto insignificante di nome Arthur Vezin, dalla vita del tutto normale, per non dire piatta, si trova, suo malgrado, al centro di una specie di sortilegio: si rende conto che gli abitanti di una misteriosa cittadina del nord della Francia, in cui si è fermato per un puro caso durante il viaggio di ritorno in patria, lo stanno osservando obliquamente, senza averne l’aria; che fingono, con molta abilità, di non curarsi di lui più che di un qualsiasi turista di passaggio, e che si muovono in maniera leggera e furtiva, come dei grossi e tuttavia agili gatti, pronti però a balzargli addosso, in un istante, alla prima occasione favorevole. Il povero Vezin si rende conto di essere caduto in trappola e che ben difficilmente potrà lasciare l’albergo e la cittadina medievale, specialmente dopo che la figlia della padrona, una bella ragazza dai movimenti ancor più felini della madre, è arrivata alla locanda e si è messa a flirtare con lui, proprio con lui, così scialbo e privo di qualsiasi attrattiva, come se avesse qualche sua ragione particolare, ma inconfessabile e tenebrosa.
Nel racconto Una invasione psichica, poi, Blackwood ci mostra il classico caso di una abitazione infestata da una presenza malefica: il soggetto è tutt’altro che originale, però l’autore ci mette la sua magistrale capacità di suscitare brividi sottili mediante un graduale incupirsi dell’atmosfera, fino a raggiungere il culmine della tensione, avvalendosi anche delle singolari conoscenze occultistiche, accumulate quando faceva parte della tanto discussa società Golden Dawn.
Come nel caso di Le Fanu, comunque, a Blackwoood non interesano tanto le storie in se stesse, meno ancora gli intrecci; e anche i personaggi, dopotutto, sono alquanto convenzionali, compreso il dottor Silence, che è il tipico – tipico, per modo di dire – ghost-hunter, cacciatore di fantasmi (una curiosa figura "professionale" che, in quegli anni, esistette veramente: valga per tutti il caso del celeberrimo Harry Price, che, fra le altre cose, tentò di svelare il mistero della casa più infestata d’Inghilterra: Borley Rectory). Quel che gli interessa è trovare e descrivere il segreto accesso alle dimensioni ulteriori della coscienza, a quel regno inafferrabile che non è in un luogo preciso, perché, in realtà, abita dentro di noi, o, quanto meno, ha in noi la strada per arrivarci. Gli altri mostri e fantasmi — quelli di fuori — non ne sono, in fondo, che i riflessi, creati dalla nostra mente…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels