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Quand’è che una società può essere considerata "giusta"?
Questa domanda potrebbe sembrare un po’ strana, o, comunque, molto astratta, dal momento che la cultura moderna ci ha immersi in un pragmatismo sempre più esasperato, sempre più miope, e in un individualismo sempre più feroce, sempre più asfittico, con il bel risultato che non riusciamo più a vedere se non le cose immediate, né riusciamo più a pensare se non in termini di corto respiro. La durata, la distanza, la profondità delle questioni, ci sfuggono ormai completamente: siamo diventati uomini piccoli, che pensano — se pure si prendono, talvolta, il lusso di pensare davvero — sempre più in piccolo. Infatti, quella domanda non è né strana, né, tanto meno, astratta: è, anzi, terribilmente concreta; potremmo anche formularla in questo modo: Potrebbe sopravvivere una società, la quale si dissociasse completamente dalla giustizia? Oppure ancora: È pensabile, il fatto del vivere sociale, al di fuori delle fondamenta della giustizia? Qualcuno potrebbe obiettare: dipende da che cosa si intende per "giustizia". Ebbene: intendiamo per giustizia, in senso sociale, la stessa cosa che intendiamo in senso individuale: quella qualità per cui ciascuno riceve quel che gli spetta, e fa quel che ha da fare. Giusta, pertanto, si può considerare una società nella quale ciascuno (s’intende, qui sì, teoricamente: perché è fisiologico che alcuni individui, per una ragione o per un’altra, rappresentino dei casi a sé) svolge il proprio compito, nella maniera migliore possibile.
Quando si parla della società, si pensa subito allo stato. Ma lo stato è una forma particolare di società, evolutasi nel corso dei secoli e dei millenni. Per rendere più semplice e chiaro il nostro discorso, pensiamo, invece, alla società più elementare, a quella che tutti conoscono per esperienza diretta: la famiglia. La famiglia è una società in miniatura ed è la base, il fondamento e il modello di tutte le altre società. Se funziona la famiglia come gruppo sociale, allora non c’è motivo di pensare che non possano funzionare anche delle società molto più grandi, purché si ispirino ai medesimi principi e purché rispettino le stesse competenze e si dividano i ruoli secondo gli stessi criteri. Precisiamo subito che per "famiglia" intendiamo la famiglia naturale, formata dall’uomo e dalla donna, che si uniscono stabilmente, con un contratto irrevocabile — preso davanti a Dio e davanti agli uomini — e che si pongono in una posizione di apertura rispetto alla possibilità di avere una prole. Non consideriamo affatto "famiglia" né una unione instabile e precaria, priva di qualunque impegno debitamente contratto e formalizzato, né, tanto meno, le cosiddette "famiglie arcobaleno", formate da due persone dello stesso sesso, sia che si adoperino in vario modo per avere dei bambini da crescere, sia che non lo facciano. Spiegare perché, ci porterebbe troppo lontano dal nostro assunto; ci limitiamo ad osservare che la famiglia è stata quella da noi definita, per unanime consenso, in tutte le società e le culture del mondo, poiché essa è ispirata ad una legge naturale, basata sulla fecondità della donna e sull’istinto di procreazione degli sposi: non esistono in natura, né sono mai esiste, altre forme di famiglia, neppure nel regno animale.
Ora, la famiglia è una società naturale e "funziona" se si appoggia su alcuni valori essenziali e non negoziabili, quali l’affetto, lo spirito di collaborazione, la prudenza, la temperanza, la disponibilità al sacrificio, il senso del limite, e la fede e l’amore per la vita; oltre ad essi, poi, ce ne vuole uno che sostenga tutti gli altri, che li armonizzi, che li ispiri: e tale è, indubbiamente, la giustizia. Infatti, la giustizia fa sì che, in una famiglia, come in qualunque altra società, ciascuno si impegni per fare bene la propria parte e rispetti la parte che tocca di svolgere agli altri. Tuttavia, appare evidente che, per potersi ispirare alla virtù della giustizia, bisogna innanzitutto applicarla a se stessi, e solo in un secondo momento alle relazioni con l’altro: per prima cosa, infatti, ciascuna persona si deve impegnare per essere quel che ha da essere, per divenire quel che deve divenire. In altre parole, ciascuna persona si deve impegnare per essere perfetta: il che non significa che la maggior parte delle persone diventeranno perfette, ma che tutte, in un certo senso, dovrebbero porsi, almeno come obiettivo ultimo, quello della propria perfezione. D’altra parte, il perfezionamento è un processo, e non un singolo atto: e ciò spiega perché nessuno possa ritenersi mai arrivato al traguardo, perché nessuno possa mai considerarsi realmente perfetto. È importante, nondimeno, che un simile obiettivo sia chiaro alla mente di ciascuno: se non si parte con l’idea e il modello della perfezione possibile, si parte con il piede sbagliato. Nessuno può pensare di costruire dei rapporti sociali durevoli e armoniosi se, prima, non si è impegnato per costruire armoniosamente se stesso, per affinare e portare alla luce la propria parte migliore e per tenere a bada, o incanalare in maniera costruttiva, i propri istinti inferiori. Ogni essere umano è un impasto di bene o di male, e il compito della vita è appunto quello di sviluppare il bene e di contrastare il male. Le società permissive sono quelle che consentono ad ogni individuo di gestire la propria vita in maniera egoistica e irresponsabile, senza mai preoccuparsi di realizzare in sé la giustizia, ma seguendo l’estro e il capriccio del momento. Sono società moribonde, che si condannano all’auto-distruzione: proprio come accade nelle famiglie permissive, che si sfasciano sotto le spinte contrastanti e distruttive degli egoismi individuali, scatenati gli uni contro gli altri.
Affermava Platone, a questo proposito, ne La Repubblica (4, X-XI; edizione a cura di Giuseppe Lozza, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1990, pp. 315-321):
"Ma senti un po’ — ripresi — se le mie parole hanno un senso. Secondo me, la giustizia è ciò che abbiamo stabilito come dovere assoluto quando abbiamo cominciato a fondare la città, o comunque una forma di questo dovere. Abbiamo infatti ripetutamente raccomandato, se te ne ricordi, che nella città ognun debba occuparsi di una sola funzione, ossia di quella conforme alla sua natura".
"Sì, così abbiamo detto."
"E abbiamo aggiunto che la giustizia consiste nel fare il proprio dovere e nel disinteressarsi di quello altrui: questo l’abbiamo sentito da molti altri e l’abbiamo affermato spesso anche noi".
"È vero".
"Dunque, amico — dissi – la giustizia potrebbe, in qualche misura, consistere appunto nell’occuparsi delle proprie cose. Sai da che cosa lo deduco?".
"No — disse — dimmelo tu, piuttosto".
"Credo — continuai che nella città, oltre alle virtù che abbiamo già passato in rassegna (la temperanza, il coraggio e la sapienza) resti quella che garantisce a tutte le altre la possibilità di nascere e di conservarsi, finché rimane in loro. E abbiamo detto appunto che , una volta scoperte le altre virtù, quella rimasta, la quarta, sarebbe stata la giustizia".
"Necessariamente", ammise.
"Però – ripresi — se si dovesse decidere quale sia l’elemento più importante per rendere buona la nostra città sarebbe difficile scegliere fra la comunanza d’intenti dei governanti e dei sudditi, o la conservazione nei soldati della giusta opinione su ciò che è pericoloso e ciò che non lo è, oppure l’accortezza e la vigilanza nei governanti, oppure il fatto che ognuno — i bambini, le donne, i servi, gli uomini liberi, gli artigiani, i governanti e i sudditi — assolva al proprio compito senza occuparsi di quelli altrui".
"Una decisione difficile, certo" disse.
"Dunque, a quanto pare, la capacità di fare il proprio dovere rivaleggia in ciascuno con la saggezza la temperanza e il coraggio perla virtù della città.
"Sicuramente" rispose.
"E questa forza che concorre insieme con le altre alla virtù della città non si potrebbe definire giustizia?"
"Senz’altro!"
"Considera il problema anche da un altro punto di vista, per sapere se manterrai la medesima opinione : l’incarico di giudicare i processi nella città lo assegnerai ai governanti?"
"Certo."
"E a quale altro principio essi si atterranno se non che ognuno non tenga le cose altrui e non venga privato delle proprie?"
"Sì, a questo soltanto".
"Perché è giusto?"
"Sì."
"Anche per questo aspetto, dunque, il possesso della propria perfezione e il compimento del proprio dovere si potrebbero definire giustizia."
"È così."
"Vedi un po’ se la penserai come me. Se un falegname si mette a fare il lavoro di un calzolaio, e il calzolaio quello del falegname, se si scambiano gli attrezzi o i salari, oppure anche se la medesima persona teta di fare entrambi i mestieri, insomma se tutti i ruoli si scambiano, credi che la città ne soffri ebbe molto danno?"
"No, non molto", rispose.
"Ma quando, io penso, un artigiano o un qualsiasi individuo per natura dotato per gli affari, inorgoglito dalla ricchezza o dal numero dei sostenuto rio dalla forza o da qualche altra cosa del genere, tenta di entrare nel gruppo dei guerrieri, o qualcuno dei guerrieri nel consiglio che sorveglia la città, pur essendone indegno, e questi si scambiano i loro ruoli e le loro ricompense, oppure quando una stesa persona tenta di fare tutto ciò, allora credo che anche a tuo parere questo scambio di funzioni e questa confusione siano rovinosi per la città.
"Senz’altro."
"Dunque la confusione fra le classi e il loro scambio reciproco arrecano gravissimo danno alla città, e si potrebbero considerare a pieno diritto un crimine."
"Certamente."
"E la colpa più grave nei confronti della propria città non la definirai ingiustizia?"
"Ma certo!"
"Ecco dunque cos’è l’ingiustizia:. E al contrario, può essere giustizia, e contribuisce a rendere giusta la città, la divisione delle funzioni fra gli uomini d’affari, gli ausiliari, gli artigiani, allorché ognuna di queste tre categorie compie il proprio dovere?"
"Non può essere diversamente, a me pare", rispose.
La definizione platonica è mirabile per semplicità e concisione: giustizia è il possesso della propria perfezione e il compimento del proprio dovere. Là dive gli individui puntano alla propria perfezione e là dove essi compiono il loro dovere, si realizza il prodigio di una società salda, che può affrontare le prove e che può reggere alle tensioni più forti; ma se non vi sono queste basi e regna, invece, il disordine, la società poggia sulla sabbia, come un castello costruito dai bambini in riva al mare, e la prima onda in arrivo la farà crollare miseramente, portandola via con sé.
A questo punto, dobbiamo interrogarci se sia stato saggio, e se tuttora lo sia, coltivare con tanto accanimento il perseguimento di fini puramente individualistici, come se il singolo possa realizzarsi nel contesto di una società in piena dissoluzione. L’ideologia dei diritti individuali ad ogni costo e prima di ogni altra cosa porta all’anarchia e, quindi, finisce per ritorcersi contro il singolo, dato che nessuno può vivere bene in una società distrutta. La società non deve pretendere di anteporre i propri fini a quelli dell’individuo, ma neppure l’individuo può illudersi di realizzare i propri fini se non in armonia e in collaborazione con i suoi simili. E tutto questo si chiama giustizia. È giusto che la società rispetti l’individuo, ma anche che questo si sacrifichi, se necessario, per essa. Il figlio deve rispettare il padre e la madre, ma anche il padre e la madre devono accompagnare il figlio alla realizzazione della sua autonomia. Una società che disprezza la propria tradizione è come un figlio che disonora il padre e la madre. E ciò sarebbe una ingiustizia: negare all’altro quanto gli è dovuto…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Tingey Injury Law Firm su Unsplash