
Una società può sopravvivere solo se si mantiene fertile, cioè se ama la vita
31 Ottobre 2016
Silenzio, meraviglia e splendore del bosco
1 Novembre 2016Crediamo di vedere, ma forse siamo ciechi.
Forse il nostro modo di pensare e di vivere, orgoglioso della nostra scienza e incapace di vedere le cose se non come mezzi per il nostro piacere, è il risultato di un lungo ottenebramento che noi, sbagliando in pieno, chiamiamo luce.
Forse la modernità stessa è tenebra: la tenebra dell’anti-civiltà; perché una civiltà interamente fondata sull’avere, sulla brama illimitata, sull’orgoglio e sull’amor di sé, sul disprezzo dello spirito e sull’ignoranza delle cose divine, non merita di essere considerata tale, ma è la negazione del concetto di civiltà e della stessa umanità.
Brancoliamo nelle tenebre che noi stessi abbiamo evocato, e crediamo di vedere perfettamente; andiamo a sbattere contro gli effetti della nostra cecità, ma non ce ne rendiamo conto, proseguiamo come nulla fosse, seguitiamo a magnificare i portenti della nostra vista d’aquila, del nostro occhio di lince, che ci consentono di scorgere quel che i nostri antenati non videro, di riconoscere quel che essi non conobbero.
Come siamo bravi! Nessuna civiltà è mai stata al pari della nostra; nessuna generazione è stata più intelligente della nostra. Possiamo ben gonfiare il petto e andare per la strada a testa alta: i nostri nonni non erano che dei poveri sciocchi, e i nostri progenitori, dei bruti privi del lume della ragione, della scintilla dell’intelligenza; noi, e noi soltanto, abbiamo compreso cosa sia la realtà, che senso abbiano il vivere e il morire, quale sia il segreto ultimo dell’universo.
Ma se siamo immersi nelle tenebre, mentre crediamo di essere nella luce, come mai non ce ne accorgiamo? Cos’è che ci rende doppiamente ciechi: sul fatto di essere in piena luce, mentre siamo al buio, e sul fatto di deridere e compartire chi ci vede assai meglio di noi, mentre a noi appare come se fosse cieco?
Per rispondere a questa domanda, non è possibile limitarsi al piano puramente razionale; vi è dell’altro, evidentemente: ed è l’indurimento del cuore, provocato da un eccesso di sicurezza di sé, da una superbia e da un orgoglio demoniaci. Chi si crede perfetto, non può certo ammettere, e neanche prendere in considerazione la sia pur vaga possibilità, di essere al buio e di muoversi a tentoni, come fosse cieco. No: per il superbo, nessuno è più in alto di lui; e chi sta in alto, gode della luce più intensa di tutti gli altri. Sono loro, gli altri, che stanno in basso, a muoversi nella penombra; non lui. Lui è nella luce: e se qualcosa non gli è chiara, ciò non dipende da lui, da un difetto della sua vista, ma dal fatto che la sua vista, pur essendo perfetta, non arriva a scorgere tutto. Però egli si sta attrezzando: sta costruendo telescopi, sta mettendo a punto dei radar ultrapotenti; e verrà il giorno in cui egli potrà vedere tutto quel che c’è da vedere, sempre, anche al buio: in ogni caso, egli potrà vedere tutto ciò che è umanamente visibile. E, se se pure rimarrà qualche cosa che sfuggirà ancora alla sua vita, non potrà essere certo alcunché d’importante, perché le cose importanti non sfuggono al suo sguardo.
Il cuore dell’uomo moderno si è indurito e la sua intelligenza è diventata arrogante, disumana; ha deciso di fare senza Dio, di essere il dio di se stesso: e così si trova a vagare a tentoni nelle tenebre, ma, pazzo d’orgoglio com’è, non se ne rende neppure conto. La sua psicologia assomiglia a quella del faraone al tempo delle dieci piaghe d’Egitto: i segni ci sono, sono sotto i suoi occhi, sono palesi, ma lui non li vede, perché non rientrano nei suoi schemi mentali. Vale la pena di rileggersi un brano del Libro della Sapienza (17, 1-20), che pare scritto per descrivere la nostra situazione:
I tuoi giudizi sono difficili da spiegare,
per questo le anime grossolane furono tratte in errore.
Gli iniqui credendo di dominare il popolo santo,
incatenati nelle tenebre e prigionieri di una lunga notte,
chiusi nelle case, giacevano esclusi dalla provvidenza eterna.
Credendo di restar nascosti con i loro peccati segreti,
sotto il velo opaco dell’oblio,
furono dispersi, colpiti da spavento terribile
e tutti agitati da fantasmi.
Neppure il nascondiglio in cui si trovavano
li preservò dal timore, ma suoni spaventosi rimbombavano intorno a loro,
fantasmi lugubri dai volti tristi apparivano.
Nessun fuoco, per quanto intenso, riusciva a far luce,
neppure le luci splendenti degli astri
riuscivano a rischiarare quella cupa notte.
Appariva loro solo una massa di fuoco,
improvvisa, spaventosa;
atterriti da quella fugace visione,
credevamo ancora peggiori le cose viste.
Fallivano i ritrovati della magia, e la loro baldanzosa pretesa di sapienza.
Promettevano di cacciare timori e inquietudini
dall’anima malata,
e cadevano malati per uno spavento ridicolo.
Anche se nulla di spaventoso li atterriva,
spaventati la passare delle bestiole e ai sibili dei rettili,
morivano di tremore,
rifiutando perfino di guardare l’aria,
a cui nessuno può sottrarsi.
La malvagità condannata dalla propria testimonianza
è qualcosa di vile
e oppressa dalla coscienza presume sempre il peggio.
Il timore infatti non è altro che rinunzia agli aiuti della ragione;
quanto meno nell’intimo ci si aspetta da essi,
tanto più grave si stima l’ignoranza
della causa che produce il tormento.
Ma essi durante tale notte davvero impotente,
uscita dai recessi impenetrabili degli inferi senza potere,
intorpiditi da un medesimo sonno,
ora erano agitati da fantasmi mostruosi,
ora paralizzati per l’abbattimento dell’anima;
poiché un terrore improvviso e inaspettato
si era riversato su di loro.
Così chiunque, cadendo là dove si trovava,
era custodito chiuso in un carcere senza serrami,
fosse un agricoltore o un pastore
o un operaio impegnato in lavori in luoghi solitari,
sorpreso cadeva sotto la necessità ineluttabile,
perché tutti erano legati dalla stessa catena di tenebre.
Il sibilare del vento,
il canto melodioso di uccelli tra folti rami,
il mormorio di impetuosa acqua corrente,
il cupo fragore di rocce cadenti,
la corsa invisibile di animali imbizzarriti,
le urla di crudelissime belve ruggenti,
l’eco ripercossa delle cavità dei monti,
tutto li paralizzava e li riempiva di terrore.
Tutto il mondo era illuminato di luce splendente
Ed ognuno era dedito ai suoi lavori senza impedimento.
Soltanto su di essi si stendeva una notte profonda,
Immagine della tenebra che li avrebbe avvolti;
ma erano a se stessi più gravosi della tenebra.
La notte in cui siamo immersi ai nostri giorni è la notte della modernità; la tenebra che ci avvolge, e che ci rende estranei a noi stessi, come fantasmi stralunati, è la tenebra dell’arroganza intellettuale, che ci ha resi come folli. Per questo ogni cosa ci spaventa e ci è motivo di orrore, ci strappa fremiti di turbamento: ovunque posiamo lo sguardo, perfino nelle misteriose profondità dei sogni, non vediamo immagini rasserenanti e non possiamo abbandonarci ad un senso di pace o di riposo, perché il mondo ci è divenuto estraneo, e, per questo, ostile. Noi crediamo, nella nostra profonda ignoranza, che il problema stia nelle cose, nella realtà esterna, e pertanto farnetichiamo di acquisire un grado ancor maggiore di dominio sulle cose, di poter manipolare ancor di più la natura; ma il vero problema siamo noi, a noi stessi. Come dice bene lo scrittore sacro: ma erano a se stessi più gravosi della tenebra. Proprio così: noi, uomini moderni, siamo divenuti gravosi a noi stessi; tutto quel che pensiamo e che facciamo, è divenuto motivo di pena e di sospetto; tutto quel che progettiamo, che eseguiamo, si trasforma in qualcosa di sconosciuto, che è diverso da come l’avevamo immaginato: non siamo più d’aiuto ai nostri casi, siamo divenuti di peso perfino a noi stessi. Quel che dovrebbe allietarci, ci preoccupa; e ciò che dovrebbe rasserenarci, getta su di noi le ombre dell’inquietudine e dell’angoscia.
Stentiamo a riconoscerci. Se ci guardiamo allo specchio, non riusciamo a vedere le nostre fattezze: dove sono finiti i nostri sogni, e nostre speranze, le nostre aspettative? Perché quella piega amara si è disegnata sulla nostra bocca, e perché il nostro sguardo si è fatto duro, e, nello stesso tempo, vuoto? È come se ci fossimo spenti; come se non sperassimo più nulla e fossimo in sospetto contro tutto: ma una vita da cui è scomparsa la speranza, non è più vita; e una vita in cui bisogna sempre stare in guardia contro qualcosa, non è che un lento stillicidio, un anticipo quotidiano dell’inferno. Il fatto è che non siamo più amici di noi stessi: abbiamo smesso di volerci bene, perché una parte di noi intuisce la verità, quella verità che non si può dire a voce alta: che abbiamo tradito l’altra parte, quella migliore, di noi stessi; e che, inseguendo un sogno distruttivo di potenza, ci siamo alienati da noi stessi, ci siamo disumanizzati, ci siamo smarriti. E ora vaghiamo come dei ciechi, come dementi che non vedono, che non comprendono.
Eppure la modernità non è un destino, né una maledizione: noi siamo uomini che hanno avuto in sorte di vivere nella modernità, ma non è detto che dobbiamo appartenerle. Se vogliamo restare noi stessi, dobbiamo imparare a vivere nel modo, come se non fossimo del mondo: perché non lo siamo, in effetti. Non è questo il nostro mondo: un mondo materialista, proteso solo alla ricchezza e al dominio sulle cose; un mondo fasullo, fatto di magnifiche apparenze, ma, dentro, mezzo marcio e roso dai vermi. I vermi che lo rodono sono gli stessi che rodono anche noi: la paura, la vergogna, il senso di colpa: sentiamo di aver tradito la nostra umanità, e, in qualche modo, ce ne vergogniamo; però non siamo disposti ad ammetterlo; è troppo gravoso riconoscere d’aver sbagliato strada ed essersi ostinati a seguirla, nonostante le innumerevoli avvisaglie di pericolo. Preferiamo tenerci in caldo il nostro tumore, piuttosto che andare dal medico e chiedere il suo aiuto. Ci paralizzano l’orgoglio, e più ancora, un senso crescente di fatalismo. Con tutto il nostro apparente decisionismo, con tutto il nostro sbandierato volontarismo, siamo in preda alla sindrome dello scoraggiamento, e lasciamo che le cose vadano come devono andare, anche se vediamo avvicinarsi il disastro.
Siamo come prigionieri di noi stessi: del nostro orgoglio, della nostra superbia e del nostro fatalismo. Tutta la forza della modernità è solo illusoria, e si fonda sopra un ricatto: che questa sia la sola strada verso il Progresso, che non ve ne siano altre; e che abbandonarla equivalga a disertare, a scappare come dei vili. La spiritualità, la religione, la fede: roba da vili, fughe nell’irrazionale; non sono strade degne di veri uomini. Meglio seguitare verso il baratro, allora, sapendo benissimo che si sta percorrendo una strada suicida. Siamo prigionieri delle tenebre che noi stessi abbiamo evocato, e incatenati con le catene invisibili che noi stessi ci siamo forgiati: e siamo più schiavi degli schiavi africani che, un tempo, venivano stipati sulle navi dei negrieri e condotti via, lontanissimo dalla loro terra, per essere venduti e trafficati come cose, non come esseri umani. Anche noi siamo diventati schiavi: non c’è molto di cui possiamo andare fieri, visto che abbiamo creato una civiltà nella quale il buon senso diviene follia, e la ragionevolezza viene fatta passare per diserzione e fuga dalla realtà: siamo sotto l’incantesimo di una falsa idea di ragione, e stretti nei ceppi d’un ricatto intollerabile: non avrai altro dio fuori che me, la civiltà moderna fatta dall’uomo, senza timor di Dio, senza amore per alcuno, tranne che per il proprio ego. Un ego sconfinato, debordante, ipertrofico, che subordina a sé ogni cosa, ogni bene, ogni valore; un ego che tasforma le cose più dolci in assenzio, e i sentimenti più belli, in amarissimo veleno.
Ed eccoci qui, nelle tenebre, a tremare di spavento per ogni soffio di vento, a scambiare le voci del mondo esterno per ruggiti di belve e per scalpitare d’animali imbizzarriti; e ci sembra che l’eco di essi risuoni e si ripercuota dalle giogaie dei monti alle grotte oscure che si aprono sui loro fianchi dirupati. Eppure non vogliamo capire i segnali che Qualcuno ci sta inviando: il nostro cuore è chiuso e sigillato, come quello del faraone; ci siamo induriti, ci siamo resi refrattari all’azione della Grazia. Nulla ci potrà più salvare, se non spezziamo l’incantesimo e non riprendiamo il nostro cuore di carne, capace di sentire, al posto di questo cuore di pietra, che ci rende ciechi e sordi davanti a tutta la meraviglia del creato.
Fino a quando vorremo seguitare questa vita da schiavi che vivono nell’angoscia, tremando ad ogni stormir di fronda, per inseguire la folle ambizione di renderci signori del mondo intero?
Fino a quando faremo torto alla parte migliore di noi stessi, quella che aspira a Dio, al bene, all’infinito?
La sola, vera tristezza dell’uomo moderno – osservava giustamente un profondo conoscitore dell’anima umana, Léon Bloy – è quella di non voler essere santo…
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