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La lettura di un libro nell’infanzia può rivelarsi un’esperienza decisiva

È incalcolabile l’influenza che può esercitare nel corso della vita umana un’esperienza – che, vista dell’esterno, può apparire modestissima e quasi insignificante – come la lettura di un libro, e magari di una sola pagina d’un libro, specialmente quando sia stata vissuta negli anni favolosi e irripetibili dell’infanzia.

Oggi il libro non svolge più un ruolo importante nella vita del fanciullo, o, comunque, non così importante come lo era due o tre generazioni fa, quando, pur essendo, di solito, un oggetto piuttosto raro nella camera di un bambino, era però anche un oggetto ambito, rispettato, carico di un fascino inesprimibile: se non altro perché non c’erano i videogiochi e i computer a fargli concorrenza, tanto meno i telefonini cellulari, sempre più moderni e sofisticati, e perciò era proprio esso, il libro, uno dei principali veicoli della fantasia. Perciò, in quella cameretta, di libri, se pure ce n’erano, ce n’erano pochi; e tuttavia essi formavano una minuscola biblioteca circondata da un’aura quasi sacrale, che rappresentava un angoletto addirittura magico, al quale attingere, dopo aver fatto i compiti, nei pomeriggi di pioggia o, magari, nelle lunghe sere al principio dell’estate, quando pare che il sole abbia deciso di non tramontare più e c’è ancora abbastanza luce da poter leggere, e sognare, senza dover accendere la lampada, ma solo stando seduti davanti alla finestra, con le rondini che disegnano i loro ampi e rapidissimi cerchi nel cielo.

Nelle feste di compleanno, o alla prima Comunione, o in occasione della Cresima, un libro, o due, in mezzo agli altri regali, ai soldatini e alle macchinette, alle bambole e alle matite colorate, era sempre un dono gradito; i bambini lo sfogliavano quasi con avidità, alla ricerca delle tavole a colori (che, talvolta, erano firmate da autentici artisti): ma già la copertina illustrata era una festa per l’occhio e una promessa di voli strepitosi nei regni incantati della fantasia, popolati da indiani e cow-boys, da pirati e velieri carichi di tesori, oppure da bambini coraggiosi che lottano in situazioni di pericolo, o anche, semplicemente, da bambini e bambine allegri, sorridenti, felici, che giocano in un prato, o da orsacchiotti e leoncini antropomorfi che strizzano l’occhio al giovane lettore, da buffe scimmiette che meditano qualche scherzo, da vivaci topolini che si apprestano a rubare il formaggio sotto gli occhi (e i baffi) del gatto di casa. La sorellina rapita di Mayne Reid, L’isola del tesoro di Stevenson, Il mago di Oz di Frank Baum, Alice allo specchio di Lewis Carroll, Cuore di De Amicis (coi suoi affascinanti, commoventi racconti mensili), Pinocchio di Collodi, Ventimila leghe sotto i mari di Verne, Sandokan alla riscossa di Salgari, Il giornalino di Gian Burrasca di Vamba, Piccole donne di Louisa May Alcott, L’ultimo dei Mohicani di James Fenimore Cooper, Il libro della giungla di Rudyard Kipling, Huckleberry Finn di Mark Twain, Il richiamo della foresta di Jack London, Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome, Il giardino segreto di Frances Burnett, e Racconto di Natale di Charles Dickens: solo per ricordare alcuni dei più famosi. Che festa per gli occhi e per lo spirito; che lauto banchetto per un bambino di dieci, dodici anni, che ha tutto il mondo da scoprire innanzi a sé, e che arde dal desiderio di slanciarsi sui mari dell’immaginazione con l’audacia e la spericolatezza, ma anche con la gioia trepidante, di uno specialista di surf sulle onde gigantesche dell’oceano!

E poi, ancora, Tartarino di Tarascona di Alphonse Daudet; Lisa-Betta di Giuseppe Fanciulli; Rosa di Tannenburg del canonico Schmid; La fiaccola dei desideri di Guido Gozzano; I ragazzi della via Pàl di Frenc Molnar; Le avventure di Mano di Ferro di Karl May; Peter Pan nei giardini di Kensington, di James Matthew Barrie, e, naturalmente, le Fiabe di Hans Christian Andersen. Qualche volta c’erano anche dei classici per adulti, ma in versione ridotta, che le case editrici presentavano, assurdamente, come capolavori dell’umorismo o come romanzi per l’infanzia: dal Don Chisciotte di Cervantes a I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift; da Moby Dick di Herman Melville (magari sulla scia del celebre film interpretato da Gregory Peck nei panni del terribile capitano Achab) a Tarass Bul’ba di Nikolaj Gogol’; da La figlia del capitano di Aleksandr S. Puškin a I lavoratori del mare di Victor Hugo; e qualche versione adattata delle commedie o dei drammi di Shakespeare, come quella di Charles e May Lamb. Né mancavano i libri di edificazione morale e religiosa, le vite dei santi, in particolare dei santi fanciulli, o la storia dei tre pastorelli di Fatima, o una versione adattata dei Fioretti di san Francesco; ma soprattutto la Bibbia, e specialmente il Vangelo, in edizioni pensate per i giovanissimi lettori, riccamente e superbamente illustrate, come, ad esempio, la Bibbia dei piccoli dell’olandese Piet Worm, che fece furore negli anni ’60 del secolo scorso, con le sue figure dai tratti decisi e spigliati e dalle tinte brillanti e vivacissime, simili a delle vere e proprie esplosioni di colore.

Un libro bene illustrato, un romanzo d’avventura, per esempio, era suscettibile di accendere un entusiasmo addirittura febbrile nei confronti dell’argomento trattato, perché immensa era la sua risonanza nell’anima del bambino; non distratto da cento stimoli diversi al giorno, come avviene oggi; non disperso fra innumerevoli impegni quotidiani, dal nuoto al corso di lingua inglese, come un precoce adulto; non catturato e fatto ostaggio, per ore ed ore, dello schermo televisivo e da quello del computer, il bambino rimaneva dolcemente e poeticamente stregato dal fascino che scaturiva da quelle pagine, da quelle illustrazioni, da quelle storie, che ne stimolavano la fantasia e lo spronavano a sognare. Addormentandosi, la sera, dopo aver letto, o dopo aver sentito leggere (nel caso dei più piccoli), l’ultimo capitolo d’un libro che lo aveva conquistato, il bambino continuava, nel mondo dei sogni, a rivivere quelle avventure, a proiettarsi nei regni incantati della fantasia, dove tutto diventa possibile, anche raggiungere Baghdad stando seduti sopra un tappeto volante, o vedere tutto il mondo dall’alto di un grande uccello migratore, come nel Viaggio meraviglioso di Nils Holgersson di Selma Lagerlöf. E non ci si venga a dire che il bambino, in questo modo, si distaccava dalla "realtà": perché la realtà del bambino è, per primissima cosa, il mondo della fantasia, attraverso il quale egli scopre il mondo e diventa se stesso; mentre oggi, che stiamo uccidendo, in lui, quella facoltà, e spegnendo quella luce, ciò che ci resta fra le mani non è più un vero bambino, ma un disincantato e malinconico vecchietto di otto o dieci anni, che non si stupisce più di nulla, che non è curioso di nulla, ma che, in compenso, è divenuto patologicamente dipendente dal computer e dal telefonino cellulare.

Far rivivere in lui la magia del libro, oggi, è — vogliamo credere – ancora possibile, specialmente se lo sviluppo del bambino è accompagnato dalla presenza discreta e intelligente degli adulti, a cominciare dai genitori, che gli rendano familiare quel mondo, magari con il rito della lettura serale, da parte loro, di una fiaba, di una favola, di una paginetta di qualche romanzo, scelto con buon gusto e con finezza; tuttavia, ripetiamo, le dinamiche sociali e culturali complessive sono talmente cambiate — e, checché ne dicano i cantori del "progresso", non in meglio — da rendere assai difficile, per un bambino dei nostri giorni, avere con il libro e con l’attività del leggere un rapporto simile a quello che abbiamo avuto noi, che eravamo bambini quando i bambini di oggi non erano ancora nati. L’attenzione del bambino è stata erosa, distratta e dispersa da una molteplicità eccessiva, frenetica, di stimoli, i più disparati e, a volte, i meno adatti alla sua psicologia e al suo sviluppo; la sua capacità di concentrazione è stata menomata da un eccesso di "offerte" intellettuali (o sedicenti tali) e dal continuo bombardamento di notizie di cronaca; la facoltà della memoria è stata indebolita dall’uso e dall’abuso di strumenti tecnologici (calcolatrici elettroniche, internet, registratori) che, in teoria, dovrebbero risparmiargli la fatica di una gran quantità di lavoro mentale, mentre hanno finito, come sempre avviene quando si ha a che fare con le macchine, per ridurre i suoi spazi di autonomia e per esercitare su di lui una specie di tirannia appena velata.

Così – per fare un esempio — nel romanzo per la gioventù Fulmine Nero, viene descritta l’influenza che esercitò su un ragazzino americano, amante dei cavalli, all’indomani di una caduta di sella che avrebbe potuto costargli molto cara, la lettura della Vita di Alessandro di Plutarco di Cheronea, e precisamente dell’episodio che si potrebbe intitolare Alessandro Magno e Bucefalo, e del ruolo che essa ebbe nella sua successiva decisione di dedicarsi interamente alla passione per l’equitazione (da: Dana Faralla, Fulmine Nero; titolo originale: Black Renegade, Lippincott, 1954; traduzione italiana: Milano, Editrice La Sorgente, 1958, 1964, pp. 42-48):

«Le imposte delle finestre, sfuggite alla chiusura metallica, oscillavano e stridevano sui cardini arrugginiti e con un dondolio monotono andavano a sbattere contro il muro, con un colpo di grancassa… o erano le percosse degli zoccoli degli stalloni contro la porta dietro la quale si era nascosto.

"Certo che ti ha lasciato il segno," disse Ivor mentre gli applicava un altro impacco, ed era a Fulmine Nero che si riferiva.

"Lui non mi ha toccato per niente," disse Kevin. "È stato contro il terreno che mi sono ammaccato.

"Ah sì, se il cavallo ti avesse toccato, a quest’ora non saresti qui a raccontare le tue avventure," disse Nora.

"Avrai una spalla nera, domani," disse Ivor. "Nera, blu, verde e anche rossastra, arrossata. Insomma, tutto l’arcobaleno."

"Sei stato fortunato, Kevin," disse Nora. "Potevi romperti l’osso del collo…"

"E la fortuna d’aver ancora il tuo naso tutto d’un pezzo," disse Ivor. "Ho dovuto dare sette punti a bel muso di Pie’ Veloce. Credo che per qualche tempo non vorrà rispecchiarsi nemmeno nell’acqua."

"Le cicatrici si vedranno?" domandò Kevin.

"Non posso ancora dirtelo. Ho fatto del mio meglio, un bel lavoro, ma è una cosa ben diversa dal cucire uno strappo sulla manica d’una camicia."

"Se a Kevin occorrono degli altri impacchi, questa notte, certo che non importa che noi ci muoviamo," disse Nora. "Basterà che mettiamo fin d’ora il letto sotto la fessura dell’acqua piovana, e il problema è risolto."

Kevin rise e diede un’occhiata alla macchia scura d’umidità sopra di lui.

"Sì," disse Ivor. "Il ragazzo l’abbiamo medicato, ma rischia di rimanere inzuppato, e che giovamento ne avrà?"

"Gli porterò un campanello d’argento," disse Nora, "e tu potrai suonarlo, se avrai bisogno di qualcosa, Kevin."

"E chi lo sentirebbe in mezzo a questa bufera?" disse Ivor. "Neanche se fosse il campanaccio d’una mucca, si sentirebbe."

"Non penserai di leggere stanotte i tuoi libri di scuola," disse Nora. "Hai bisogno di fare una bella dormita, hai bisogno."

"Non leggerò i miei libri di scuola," disse Kevin. "Vorrei leggere Plutarco."

"Plutarco!" esclamò Ivor, divertito. "Ti porterò il libro ben volentieri. Se fossi un medico prescriverei ai miei clienti dei grossi volumi invece che delle grosse pillole, per dormire. Ed è un peccato che i cavalli non sappiano leggere, altrimenti prescriverei dei libri anche per loro."

"Chissà!" disse Nora. "Certo che io non mi sorprenderei più di niente, stanotte."

Fu Lusmore che portò a Kevin le "Vite" di Plutarco e i suoi scarponi chiodati annunciarono il suo arrivo, sulla scaletta di ferro che non aveva alcun tappeto che attutisse i rumori. Entrò, facendosi precedere dai raggi di una lanterna da scuderia che gli rischiarava il cammino.

"Ecco il sedativo che tuo padre ti manda," disse con una leggera smorfia di malizia e pose il grosso volume sulla rozza cassa di legno di pesco che serviva a Kevin come comodino. "Basterà una pagina, ha detto tuo padre, se il dolore non è forte. Se invece il dolore fosse forte, ci vorranno due pagine e anche più."

"Basterà una pagina," disse Kevin e picchiettò con le dita sopra la rilegatura di tela consumata, impaziente di cominciare la lettura. […]

Lusmore si sollevò lentamente dalla poltrona di paglia, acese un fiammifero sulla superficie del legno di pesco e riaccese la sua lanterna.

"E adesso me ne vado e ti do la buonanotte. E se hai voglia di sognare Fulmine Nero, buon divertimento. Puoi montar sopra quel cavallo, con la fantasia, Kevin, finché vuoi. Ma è una fantasia che non diventerà mai realtà."

Kevin rimase tranquillo, ripensando alle parole del nonno e aspettò che il rumore degli scarponi chiodati si disperdesse in lontananza. Poi riaprì il libro e trovò subito la pagina che cercava.

L’orlo della pagina era ripiegato e i margini ingialliti recavano le impronte di molte dita. Le sue labbra si mossero in silenzio e con l’indice seguì ogni riga.

ALESSANDRO MAGNO E BUCEFALO.

Filonico di Tessaglia condusse il cavallo Bucefalo a Filippo, per venderlo a tredici talenti, ma quando essi scesero in campo per provarlo, lo trovarono difficile a maneggiarsi, insofferente di chi tentasse di cavalcarlo, e tale da non sopportare nemmeno la voce di quelli che erano con Filippo.

Ma Alessandro, che era presente, opponendosi a tutti, mentre Filippo s’irritava e ordinava che fosse condotto via quell’essere feroce e indomabile, disse: "Quale eccellente cavallo pèrdono costoro, che non sanno servirsene, per inesperienza e poco cervello!"

Dapprima Filippo tacque, ma quando vide che Alessandro ripeteva parecchie volte gli stessi rimproveri e s’accorse che gli dispiaceva molto che il cavallo fosse condotto via, soggiunse:

"Tu rimproveri quelli che sono più anziani di te, ma sei poi capace di far meglio di loro?"

"Certamente, saprei servirmene meglio di qualunque altro," gli rispose Alessandro.

"E se tu non sapessi cavalcarlo, quale pegno pagheresti per la tua presunzione?"

"Pagherò"," rispose Alessandro, "l’intero prezzo del cavallo."

Udendo ciò, tutti quanti scoppiarono in una risata, e non appena il riso si fu un poco calmato, Alessandro corse immediatamente vicino al cavallo e, afferrate le briglie, lo rivolse verso il sole avendo osservato che il cavallo si sbizzarriva quando deve il movimento della propria ombra.

Dopo aver fatto trottare il cavallo, senza stancarlo, Alessandro lo accarezzò e quando lo vide pieno di ardore sbuffante, gettò via la clamide, e con un salto vi balzò sopra coraggiosamente.

Rimasto quindi in sella, non trattenne subito le redini ma a poco a poco, e senza battere o altrimenti incitare il cavallo, quando lo trovò docile, e solo impaziente di correre, lo lascò andare a gran velocità, incitandolo ora con voce di comando e percuotendolo col piede.

Filippo e quelli del suo seguito, ch’erano rimasti a guardare in angoscia e in silenzio, quando videro Alessandro tornare alla fine della corsa, fiero della sua prodezza ed esultante, non poterono trattenere le grida di festa e i battimani. Anzi Filippo, a quanto si dice, pianse persino lacrime di gioia e in un impeto di entusiasmo abbracciò il figlio, dicendogli: "Figlio mio, cèrcati un altro regno che sia degno di te, perché ormai la Macedonia è diventata troppo piccola per te."

Kevin chiuse il libro e abbassò lo stoppino della lanterna, e stando così al buio ebbe la chiara visione di un magnifico cavallo nero. Egli poteva rievocare a suo piacimento quella storia, trasportandola tale e quale nel suo ambiente familiare di Pian delle Giumente oppure avrebbe potuto con la fantasia trasformare questo quel particolare. Ma di una cosa era certo, che, nonostante tutti gli avvertimenti e i conigli, il suo sogno non sarebbe rimasto confinato nella fantasia.

Ecco: Fulmine Nero non sarà un capolavoro letterario, però quel che voleva trasmettere, e cioè l’influsso poderoso, decisivo, che la lettura di un buon libro può esercitare sulla vita e sul futuro destino di un bambino o di un adolescente, è riuscito a farlo benissimo. La gioia della lettura, la festa della lettura, che spalanca nuovi orizzonti e prospettive sconfinate davanti ad una giovane mente e d un giovane cuore generosi, ardenti d’impazienza e di entusiasmo! Abbiamo parlato, e non a caso, della lettura di un buon libro, non di un libro qualsiasi. Ci sono, specialmente oggi, dei libri per ragazzi (ma quasi più nessuno per bambini) che vanno per la maggiore, ma che non sono buoni: non solo sono sciatti e banali nello stile letterario, ma, quel che è peggio, meno che dignitosi quanto al contenuto: proni alle mode d’un giovanilismo tanto piatto quanto furbesco e interessato, del tutto dimentichi della funzione che un libro per la gioventù deve svolgere: ridestare l’incanto del mondo con freschezza e disinteresse. Ed è un’altra assenza con la quale il bambino, oggi, deve fare i conti…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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