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21 Ottobre 2016Il relativismo ambisce a presentarsi sotto una veste mite, dimessa, quasi umile: come una forma di tolleranza e di rispetto verso tutte le fedi e le opinioni, come una forma di accoglienza e di non giudizio verso tutte le credenze e le convinzioni; ma la verità è che la sua intima natura, e la ragione stessa della sua nascita e della sua esistenza, è profondamente aggressiva, maligna e intollerante: invocando la tolleranza, esso mira a scalzare le basi stesse della società, la possibilità stessa di una convivenza pacifica e ordinata fra soggetti diversi.
Il relativismo, infatti, non si limita ad accogliere e ad accettare le diversità: proclama la norma della loro reciproca insignificanza e l’impossibilità di giungere ad una certezza, di trovare la verità; non sopporta che qualcuno la cerchi e, soprattutto, che qualcuno la trovi: lo considera un intollerabile atto di sopraffazione e mobilita le forze del mondo intero in una crociata globale contro un siffatto temerario, che esso giudica mortalmente pericoloso, perché portatore di una visione del reale diametralmente opposta alla sua. In ultima analisi, è per proteggere se stesso che il relativista parla tanto di comprensione e tolleranza; quello che gli sta a cuore, tuttavia, non sono la comprensione e la tolleranza, ma la possibilità di seguitare all’infinito a proclamare che nessuna verità esiste, che nessuna certezza è valida, che nessuna fede è assoluta.
La cultura relativista, tipica della civiltà moderna, si presenta, pertanto, come una "gioiosa macchina da guerra" il cui scopo è stroncare, possibilmente sul nascere, qualsiasi pretesa di verità certa e definitiva; e questo non perché abbia una sua verità da sostenere e da difendere, ma perché non ne ha alcuna, o, almeno, così dichiara (vedremo poi se ciò sia proprio vero) e ritiene che averla, o pretendere di averla, sia, oltre che un atto di arroganza, una vera e propria minaccia alla sicurezza e alla pace altrui. Oggi la cultura del relativismo si configura sempre più come una sorta di dittatura onnipresente; una dittatura paradossale, che, per difendere gli uomini dai rischi del fanatismo, si arma di uno scetticismo fanatico, e si auto-proclama il solo gendarme autorizzato a proteggere il bene dell’armonia e della convivenza sociale.
E magari fosse solo questo; in realtà, c’è dell’altro. Il relativismo, di per sé, si limita a negare l’esistenza di qualunque verità assoluta; ma esso, nel contesto attuale, è diventato qualcosa d’altro: è diventato lo strumento di cui si servono, senza dichiararlo apertamente, coloro i quali vogliono distruggere la nostra civiltà, vogliono seminare il caos e l’anarchia, vogliono creare le condizioni per una generale disperazione e un totale assoggettamento delle persone a chiunque vorrà assumere la signoria di un mondo prostrato, umiliato e in rovina. Il relativismo, nelle mani di questi tenebrosi cavalieri dell’Apocalisse, è il cavallo di Troia per introdurre, in maniera abile e senza suscitare un allarme eccessivo, gli elementi della dissoluzione, che è i il loro vero obiettivo finale, ancorché non dichiarato.
Non si può pensare che la maggioranza di costoro sia pienamente consapevole di quel che sta facendo. La forza di questa congiura mondiale risiede nel fatto che pochissimi ne sono a conoscenza e manovrano le pedine con perfetta cognizione di causa; la maggior parte delle truppe vanno avanti senza sapere perché, oppure animate da meschine ragioni d’interesse personale, prima fra tutte l’ambizione. Prendiamo il caso degli intellettuali, che sono coloro i quali, purtroppo, conferiscono una particolare tonalità psicologica e morale alla società intera: la maggior parte degli scrittori, dei pensatori, degli artisti e dei giornalisti del secolo appena trascorso, si è adoperata in ogni modo per diffondere una visione relativista del mondo, per demolire ogni residuo di certezza e per bollare come crimine o come follia la pretesa di parlare ancora di verità. Siccome non possiamo immaginare che siano tutti a parte di una congiura mondiale per distruggere la nostra civiltà e per gettare le persone nell’angoscia, nello sconforto e nella disperazione, resta l’altra possibilità: che siano stati gli utili imbecilli nelle mani di un disegno ben più grande di loro, e che si siano adoperati nel modo che sappiamo allo scopo do ottenere visibilità, fama, riconoscimenti. Sta di fatto che i poteri occulti, se hanno svolto bene il loro compitino, alla fine li premiano: il Nobel per la letteratura a Dario Fo, prima, e a Bob Dylan, poi, ad esempio, così incongrui sotto il profilo della logica, si spiegano perfettamente in questa chiave: l’uno non ha fatto altro, con il suo teatro, che sbeffeggiare le verità più sacre (si pensi solo al Mistero buffo, parodia del cristianesimo), il secondo, con le sue canzoni, predica la non verità esclusiva di tutte le fedi, e si adopera in favore di una specie di sincretismo religioso, nel quale cristianesimo, giudaismo, islamismo, buddismo, possano convivere allegramente, all’ombra di un vago deismo che è, poi, la maschera della vera religione che costoro hanno in mente: l’auto-glorificazione dell’uomo.
Ci sono scrittori di successo, che hanno veduto milioni di copie dei loro libri, i quali non hanno fatto altro, per decenni, che battere e ribattere, in maniera ripetitiva, monotona, noiosa, sempre sullo stesso tasto: la relatività di tutte le certezze e l’impossibilità di giungere al vero; valga per tutti — e sono legione — il caso di Umberto Eco, uno scrittore che non aveva assolutamente niente da dire, se non ripetere, fino all’esasperazione, che le cose non sono come sembrano, ma che, scavando, si finisce per scoprire che non sono in alcun modo, perché esse sono semplicemente incomprensibili nella loro radicale casualità e inconsistenza. Nei suoi romanzi pletorici, ridondanti, sempre più seriali, non si coglie mai il barlume di un’idea costruttiva, né di un pensiero positivo, né di un qualunque sforzo di originalità: mutatis mutandis, che si tratti di un’isola persa in mezzo al mare o di una cupa abbazia medievale, o del cimitero di Praga o del regno improbabile della regina Loana, sempre la stessa minestra è stata servita al fedele lettore: un gioco degli specchi che vorrebbe essere spiritoso, un narcisistico compiacimento nel fare sfoggio d’ironia erudita, un prendersi anche il lusso di scherzare sui poteri occulti (come ne Il pendolo di Foucault) per far vedere che non esistono, tranne che nella testa di qualche pazzoide; e il tutto sempre con la stessa tecnica, ossia creando un pastiche formato da tanti pezzi di opere, generi e stili diversi, e cucendo poi il tutto come il vestito d’Arlecchino, in modo da poter gigioneggiare dall’uno all’altro, senza mai impegnarsi in un discorso serio, senza mai dover sostenere la fatica di portare avanti una tesi coerente e ben definita. Eh già, ciò sarebbe contrario alle premesse ideologiche dell’autore, che non c’è alcuna verità "vera": comodo, no? Questo dà il diritto di scherzare su tutto, di sbeffeggiare tutto, di affermare e di negare, subito dopo, qualsiasi cosa, senza mai lasciarsi cogliere in fallo, senza mai farsi accusare di contraddizione: perché, in un mondo privo di verità, la coerenza diventa un grave difetto, e la ricerca della verità, una pretesa stramba e inquietante, quasi quanto quella di Don Chisciotte di andare in giro per il mondo come un cavaliere errante, in cerca di avventure. Comodo, molto comodo: sarebbe, più o meno, come darsi da se stessi la licenza di tirar sassi a chiunque, ma senza che alcuno sia autorizzato a renderci la pariglia. Sia detto fra parentesi, questo è precisamente il vizio del tipico intellettuale moderno, e l’amo con il quale è tanto facile, per il potere, catturare tutti questi pseudo rivoluzionari e questi finti critici del sistema: il piacere di parlar male di tutto e di tutti, senza alcun rischio di ricevere un uguale trattamento.
Il relativismo consente di introdurre, in maniera silenziosa e quasi dolce, un totale rovesciamento di valori. Se non esistono più né il vero, né il giusto, né il buono, né il bello, ma tutto può essere, a seconda di come lo si guarda, vero, giusto, buono o bello, allora ne consegue che è possibile proclamare che il male è bene e che il bene è male; che il falso è vero e che il vero è falso; che l’ingiusto è giusto, e il giusto è ingiusto; e che il brutto è bello, e il bello è brutto. In base a questo rovesciamento, è possibile scardinare letteralmente l’intera società, distruggere l’etica, l’estetica, la filosofia e la religione; e ritornare all’Atene dei sofisti, nella quale è indifferente quel che si sostiene e la causa che si vuol patrocinare, l’importante è possedere delle buone doti dialettiche, e il gioco è fatto. In tal modo, i criminali possono venire celebrati come benefattori dell’umanità, e i benefattori, trattati da criminali; le nullità possono essere acclamate come dei geni, e i geni possono rimanere ignorati e disprezzati; le cose più ingiuste, aberranti, disgustose, possono venire presentate e riconosciute come un contributo alla causa della giustizia e della civiltà; e via delirando. È chiaro che una società nella quale si diffondesse un tale relativismo assoluto, sprofonderebbe nel caos entro brevissimo tempo; nel caso della nostra civiltà, c’è da chiedersi come mai essa non si sia ancora auto-distrutta, visto che da molto tempo i profeti e i maestri del relativismo vanno spargendo la loro pessima seminagione. Evidentemente, le radici della nostra civiltà — o, per dir meglio, non della nostra civiltà, ossia della civiltà moderna, ma di quella che l’aveva preceduta, e che solo da un cinquantennio è definitivamente uscita di scena: la civiltà pre-moderna di origine contadina — erano più profonde, più sane e vigorose, di quanto noi stessi non abbiamo creduto.
Ammoniva, nei suoi lontani tempi, il profeta Isaia (5, 18-23):
Guai a coloro che si tirano addosso il castigo
con corde da buoi
e il peccato con funi da carro,
che dicono: "Faccia presto,
acceleri pure l’opera sua,
perché la vediamo;
si facciano più vicini e si compiano
i progetti del Santo di Israele,
perché li conosciamo".
Guai a coloro che chiamano
bene il male e male il bene,
che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro.
Guai a coloro che si credono sapienti
e si reputano intelligenti.
Guai a coloro che sono gagliardi nel bere vino,
valorosi nel mescere bevande inebrianti
a coloro che assolvono per regali un colpevole
e privano del suo diritto l’innocente.
Gesù si sarebbe ricordato di queste parole, in particolare quando eruppe in un inno di lode a Dio, perché Egli nasconde la sua verità ai sapienti e agli intelligenti e la rivela ai piccoli (cfr. Matteo, 11, 25). Gli Umberto Eco, i Dario Fo, i Bob Dylan, e cento e cento altri simili a loro, i cui nomi riempirebbero una intera enciclopedia, questo hanno fatto: hanno affermato che il bene, a volte, è male, e il male è bene; che il vero può essere falso, e il falso, vero, e così via: sono stati degli zelanti operai del caos, degli infaticabili diffusori della confusione e del disorientamento intellettuale, spirituale e morale. Il fatto che la nostra società non riconosca come male, ad esempio, l’aborto volontario o l’eutanasia, e che non veda quanto è sbagliato, grottesco, infamante, il cosiddetto matrimonio omosessuale, ci offre degli esempi di quanto sia facile, per una cultura che ha coltivato in se stessa, scaldandoseli come serpi in seno, i propagandisti del relativismo, arrivare a non riconoscere più, neppure sul terreno pratico immediato, il bene dal male, il vero dal falso, e arrivare a capovolgerli.
Questo è un pensiero che non dovrebbe lasciarci dormire la notte, finché non avremo fatto qualcosa per tentar di rimediare. Abbiamo lasciato che i piromani appiccassero l’incendio ai quattro angoli della nostra casa, senza neppure sognarci di fermarli: e perfino adesso, che la casa sta bruciando e il fuoco divampa sempre più alto, stentiamo a riconoscere che quello è un incendio, e che periremo tutti nel fuoco, se non proveremo a spegnerlo. I nostri sofisti hanno a tal punto manipolato le nostre intelligenze e la nostra sensibilità, perfino il nostro buon senso più elementare, che neanche adesso, nell’ora dell’estremo pericolo, vorremmo riconoscere che l’incendio è un incendio reale, e non un esercizio letterario, e che, se non facciamo qualcosa, periremo per opera delle nostre stesse mani…
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