
Quella cosa chiamata onestà intellettuale
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Pregate sempre, senza stancarvi mai
3 Ottobre 2016In una società che sia fondamentalmente sana esiste un forte legame fra i singoli individui e il principio di realtà: le persone, cioè, non sopravvalutano le proprie percezioni soggettive e non fanno di esse la chiave di lettura del reale, ma, pur essendo consapevoli che esiste un certo grado di soggettività nel conoscere, e quindi nell’agire, conservano ben chiara la distinzione fra le due cose: il proprio mondo interiore, che può anche essere fatto di sogni bellissimi (o bruttissimi, a seconda dei casi) e il mondo esterno, che è quello che è, indipendentemente da noi, sia che ci piaccia, sia che non ci piaccia.
La società moderna è una società essenzialmente malata e lo si vede sin dal suo sorgere, vale a dire al principio del XVII secolo: il suo primo eroe letterario, infatti, è quel Don Chisciotte della Mancia che non riesce a tenere distinto il mondo dei propri sogni, dei propri ideali e delle proprie aspirazioni, dal mondo esterno, concreto e reale; che non riesce, insomma, a conservare un rapporto sano con il principio di realtà, e finisce, pertanto, per scivolare in un mondo tutto suo, carico di situazioni equivoche, penose, sgradevoli, che sono il frutto del suo obnubilamento: uno scollamento fra l’io e il mondo che, agli occhi degli altri, è puramente e semplicemente una forma di pazzia. Seguiranno altri eroi tragici del medesimo tipo, dal Re di Spagna del Diario di un pazzo, di Nikolaj Gogol’, a Ivan Karamazov, che impazzisce appunto perché non riesce a sopportare le conseguenze dello scollamento, che lui stesso ha creato, fra il proprio mondo interiore e il mondo esterno: ma Dostoevskij, più preveggente di Cervantes e più acuto di Gogol’, vede anche dove sia la radice di codesta "pazzia" moderno: nell’ipertrofia dell’ego e nel conseguente abbandono di Dio. Voltando le spalle a Dio, negandolo, e pretendendo di farsi il dio di se stesso, l’uomo moderno impazzisce e si condanna a una vita infernale, si consegna ad un futuro intollerabile. L’individuo, dunque, è malato quando non riconosce il principio di realtà: vede le cose, ma non le accetta così come sono, rifiuta di riconoscerle: non è che non le veda, ma non le vuole accogliere secondo la loro realtà; pretende di sovrapporre alla loro realtà un’altra realtà, la sua. L’uomo moderno è malato di solipsismo, il che lo conduce inevitabilmente verso il nichilismo. Intanto, la malattia dilaga e tutta la società si ammala: è una società popolata di malati che non sanno rassegnarsi alla realtà, perché la realtà che hanno creato è anti-umana. In fondo, si tratta di una reazione difensiva non solo comprensibile, ma, in un certo senso, perfino positiva: in qualche modo, testimonia che l’uomo moderno non è contento della società che egli stesso ha creato, che la trova orribile, e che vorrebbe sottrarsi alla schiavitù che si è forgiato con le sue stesse mani. Ma non vede alcuna via d’uscita, alcuna possibilità di reazione o di fuga: non gli resta che impazzire, covare la sua malattia, e, quando è arrivato al limite, esplodere, in maniera più o meno distruttiva, per se stesso e per gli altri.
Vale la pena di chiedersi quale sia stata e quale tuttora sia la radice di quella malattia che è la modernità. Lo scientismo e il tecnicismo esasperati, il produttivismo e l’efficientismo spietati, l’urbanesimo selvaggio, lo sradicamento dai luoghi natali e la perdita dei legami con la tradizione, perfino l’allontanamento da Dio, sono tutti sintomi e, nello stesso tempo, effetti, ma non sono le cause. La causa ultima va cercata nell’ipertrofia dell’ego, diabolicamente coltivata dai meccanismi economici miranti a trasformare gli esseri umani in altrettanti consumatori passivi di una quantità sempre maggiore di beni, sostanzialmente inutili, quando non decisamente dannosi. L’uomo moderno vuole troppo, vuole tutto: è una creatura perennemente desiderante (come aveva ben visto Ludovico Ariosto, fin dal XVI secolo). La sua malattia è qui: infatti, se è abbastanza normale desiderare, inconsciamente, ogni cosa, non è normale pretendere di trasformare tali desideri in altrettanti possessi. Non c’è niente di male nel desiderare, istintivamente, tutte le cose belle, o utili, o preziose, che si vedono, o delle quali si sente parlare, o che ci vengono offerte dietro i cristalli di vetrine invitanti e seducenti; ma è folle volerle possedere tutte realmente, e ancora più folle è porsi in un tale atteggiamento nei confronti del successo, del potere, e degli altri esseri umani. Il miliardario che continua ad accumulare tesori, che non sa più come spendere; che continua a collezionare mogli e amanti, passando da un matrimonio all’altro, da una relazione all’altra; che va fiero dei suoi molti figli e dei suoi numerosissimi nipoti, non perché li ami o perché gl’importi qualcosa di essi, ma semplicemente perché rappresentano un prolungamento ed un segno visibile della sua "potenza" e della sua vitalità, è il classico esempio dell’uomo moderno ammalato di ipertrofia dell’ego. Va da sé che un tale orientamento esistenziale conduce alla conflittualità cronica, al bellum omnium contra omnes di hobbesiana memoria; e va da sé che molti, moltissimi individui, finiscono per soccombere, o, il che è lo stesso — per lo scollamento dal principio di realtà di cui parlavamo prima — si sentono dei perdenti, degli sconfitti, dei falliti: una società malata di questo genere, insomma, lascia ogni giorno migliaia e migliaia di cadaveri dietro di sé, fatti di sogni infranti, di speranze deluse, di amarezze immedicabili. Se quel che conta è solo e unicamente la propria percezione soggettiva delle cose, è inevitabile che moltissime persone si sentano frustrate e sconfitte anche senza esserlo realmente: perché, in una società follemente competitiva, ci s’imbatte continuamente in qualcuno che è più giovane di noi, più bello, più ricco, più ammirato, più potente, e così via: e, e a causa della mancanza di spirito realistico, si gonfiano a dismisura tali confronti tra gli altri e se stessi, e si sprofonda inesorabilmente nel baratro della auto-svalutazione e della disistima di sé, anticamera della depressione cronica. Non solo: in una società malata, popolata di frustrati e di perdenti, la disistima di sé dell’individuo si estende a tutto ciò che lo circonda, e ne deriva il disprezzo del proprio mondo, a cominciare dalla famiglia e finendo con la patria: tutto ciò che la civiltà ha prodotto, anche le cose valide, la tradizione, la cultura, l’arte, il pensiero, tutto diviene oggetto di disaffezione, rancore, rifiuto. La società modera odia se stessa; e, così, prepara il terreno per essere conquistata da pare dei figli di altre culture che non soffrono d’un tale complesso.
Ha scritto, a questo proposito, Giuseppe Colombero nel suo libro Cammino di guarigione interiore. Per abitare meglio se stessi (Cinisello Balsamo, Milano, Edizioni San Paolo, 1996, pp. 193-195):
Nel secolo scorso [cioè nel XIX, n. b. ] le malattie dominanti in campo psichiatrico erano l’isteria e la schizofrenia, le quali monopolizzarono a lungo la ricerca e la letteratura medica. Oggi le patologie più diffuse, sempre di competenza psichiatrica, sono quelle che hanno origine dal disadattamento sociale, le malattie psicosociali e psicosomatiche: la depressione, la nevrosi ansiosa, fobica, ossessiva, le varie forme di paranoia o caratteriali, i disturbi dell’umore e del comportamento; come pure le innumerevoli e sfumate forme di malcontento e malessere.
Stati morbosi difficili da definire e da curare, spesso privi di base organica, ma penosamente reali la cui origine di chiara matrice sociale. La nostra società è tagliata su misura per produrre dei frustrati. I miti che costruisce nei vari settori della vita e che sbandiera su tutti i canali comunicativi, cin una enfatizzazione tra il grottesco e il furbesco, il confronto che viene istintivo fare con coloro che, più abili o più fortunati, camminano al di là dei desideri, insinuano fatalmente la SINDROME DELLA SCONFITTA: senso di inferiorità, di inadeguatezza, di emarginazione,m di vuoto esistenziale, sensazione di camminare in coda a un corteo di gente privilegiata e di cibarsi solo delle briciole che cadono dalla loro tavola.
Elementi che configurano la PERSONALITÀ MARGINALE, l’individuo che ha l’impressione di vivere ai bordi della società e della vita vera. Di qui a entrare in conflitto con la società il passo è breve. Il ricorso alla droga, la delinquenza, il disorientamento e il disagio giovanili, la devianza di vario genere, i suicidi, ne sono le conseguenze palesi. Come nel matrimonio così nella vita sociale, il CONFRONTO CON GLI ALTRI, per molti, è fonte di frustrazione. Bisogna disporre di un solido equilibrio interiore per saper perdere, per capire che la vita è una scacchiera sulla quale si giocano varie partite: mole si vincono, altre si perdono. Si vince e si perde, su molti fronti e mai una volta per tutte.
Vi è nell’uomo una tale fame di esistere che lo spinge a desiderare di possedere tutta la creazione. Come il bambino che afferra TUTTO ciò che è nel suo raggio d’azione per portarlo alla bocca e consumarlo, così ciascuno di noi, nel suo intimo, desidera possedere tutto, conoscere tutto, provare tutte le emozioni, partecipare a tutte e esperienze, consumare tutto l’essere. Occorre imparare a contemplare le cose belle che si incontrano lungo la strada, godere della loro bellezza, senza desiderare di portarle a casa.
Chi segue questa verità evita di identificarsi col successo o la ricchezza o il potere a ogni costo; pone il suo obiettivo nell’ESSERE SE STESSO. È il segreto per amare la propria casa e abitarla con soddisfazione. Molte persone soffrono senza avere una vera malattia. LA LORO ESISTENZA È MALATA, dal momento che lo è il loro rapporto con se stessi e con la vita.
L’esistenza è una serie ininterrotta di passaggi da una situazione a un’altra, da un equilibrio a un altro, dovuti alla crescita, all’ampliamento dell’esperienza o alle vicende della vita. Può capitare che in qualcuno di questi passaggi non si riesca a trovare un congruo adattamento al nuovo e a dare la risposta necessaria per ricuperare il normale equilibrio affettivo. Allora qualcosa si inceppa o si spezza; la crisi, comprensibilissima, si acutizza, si cronicizza e si tramuta in nevrosi. Per C. G. Jung, la sofferenza in una nevrosi può essere definita UN TENTATIVO FALLITO DI ADATTAMENTO.
Le prime conseguenze sono un senso fallimentare di sé e un giudizio svalutativo sulla propria identità, con la conseguente impossibilità di vivere in armonia con se stessi. E se non si è in amicizia con se stessi non lo si è con nessuno. Il più delle volte non si è esclusi, CI SI AUTOESCLUDE, non si è soli, CI SI SENTE SOLI. E neppure si è sconfitti: CI SI SENTE SCONFITTI.
C’è una categoria di sconfitte e di vittorie che avvengono sul campo, nel contesto di circostanze e avvenimenti che non dipendono da noi. Ce ne sono altre che si decidono dentro di noi. Sono le più importanti perché concorrono, in misura preponderante, a costituir el’esperienza, il nostro sentire e il nostro sentirci.
Evidentemente, per spezzare il circolo stregato della auto-svalutazione e dell’amarezza radicale, che conducono verso la palude della depressione cronica, bisogna impostare il proprio progetto di vita in una direzione completamente differente da quella suggerita e favorita, per non dire quasi imposta, dai meccanismi spietati e impersonali della società consumista: bisogna risalire alle pure sorgenti dell’essere, là dove è importante non quel che si appare, ma quel che si è; e dove i primi giudici dell’essere, e non dell’apparire, siamo proprio noi, nei confronti di noi stessi, del nostro corpo, della nostra intelligenza, della nostra sensibilità, del nostro lavoro, della nostra casa, dei nostri amici, e, in definitiva, della nostra vita. Se non impariamo a volerci bene e ad impostare la nostra vita sulla realizzazione dei veri bisogni della nostra persona, e non su quelli fasulli dell’apparire, saremo sempre in pericolo di perdere il contatto con il principio di realtà e, pertanto, di scivolare nei gorghi della auto-svalutazione, della disistima di noi stessi, e della depressione.
Ma chi ci farà da garante, quando noi vorremo essere giusti giudici di noi stessi, evitando i due estremi della presunzione ingiustificata e della svalutazione sistematica? Gli altri, evidentemente, no. Noi stessi, allora: ma dove troveremo, non solo la forza, ma anche l’obiettività e la serenità necessarie? Digerire una sconfitta; elaborare un lutto; metabolizzare una perdita: si fa presto a dire cose simili; ma, nella realtà della vita, sappiamo bene quanto tali cose siamo difficili. Eppure, a ben guardare, la leva di Archimede esiste; esiste il modo di ritrovare un giusto giudice e, nello stesso tempo, un potentissimo alleato, per ritrovare l’armonia di noi con noi stessi, e di noi con il mondo degli altri: e tale alleato è Dio. Come dice san Paolo: se Dio è con noi, chi sarà contro di noi? Quale ostacolo, quale avversario oserà resisterci, se Dio combatterà al nostri fianco, se sarà Lui a sostenerci, a consigliarci, a incoraggiarci, nei passi più pericolosi o difficili?
Ed ecco, allora, che siamo tornati, in un certo senso, al punto di partenza. Se la malattia della modernità incomincia con l’allontanamento dell’uomo da Dio, il principio della guarigione consiste nel ritornare a Lui. L’uomo moderno, però, è troppo gonfio di superbia per farlo: gli sembra che si abbasserebbe, si umilierebbe troppo. Come se non si fosse umiliato, con le proprie opere, già abbastanza; come se non si fosse già fatto tutto il male possibile. Due guerre mondiali; alcuni genocidi; la bomba atomica: tutto in pochi anni. Se vuole risollevarsi, non gli resta che una cosa: tornare a Dio, come il figlio prodigo, dicendo: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te…
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