L’attacco alla famiglia inizia dalla donna e ha come obiettivo l’intera società
23 Settembre 2016
Cosa devono fare i semplici credenti se un papa tradisce il suo mandato?
24 Settembre 2016
L’attacco alla famiglia inizia dalla donna e ha come obiettivo l’intera società
23 Settembre 2016
Cosa devono fare i semplici credenti se un papa tradisce il suo mandato?
24 Settembre 2016
Mostra tutto

Mane, tekel, fares

Mane, tekel, fares: una mano misteriosa, uscita da chissà dove, traccia queste oscure parole sul muro, come una indecifrabile minaccia, nella sala del banchetto, a Babilonia; e il re Baldassarre, figlio di Nabucodonosor, appena salito al trono, trasecola e impallidisce. Di colpo, l’atmosfera di festa si è fatta pesante, si tramuta in un senso di oppressione, di angoscia; i convitati non hanno più alcuna voglia di brindare e di scherzare; i musici e le danzatrici interrompono le loro esibizioni. È sceso il silenzio: tutti sentono che si sta avvicinando una grave minaccia; del resto, è difficile dimenticare che un potente esercito nemico, l’esercito del re persiano Ciro, è accampato davanti alle mura della capitale, a brevissima distanza. Il re, per primo, sembra paralizzato dal terrore, e vorrebbe che gli indovini e gli astrologhi spiegassero il fatto; nessuno, però, sa rendere ragione di quel prodigio, tanto meno decifrare le parole. Allora interviene la regina, che ricorda al figlio come, a Babilonia, vi sia un uomo che saprà forse sciogliere l’arcano.

Pare che quelle parole sibilline abbiano a che fare con il numerare, il pesare, il dividere. Il Libro di Daniele è scritto in ebraico, ma contiene una sezione, della quale fa parte l’episodio in questione, redatta in aramaico; secondo lo storico e studioso polacco Stefan Zawadzki, nato nel 1946, che si è occupato dell’argomento in una specifica monografia, il significato sarebbe riconducibile a un gioco di parole e si potrebbe rendere con: Numerato, pesato, diviso; oppure: Numerato, pesato, separato (da qualcosa). Il profeta ebreo Daniele, chiamato per interpretare l’oscuro messaggio, dietro suggerimento della regina madre, nella sua spiegazione tiene conto delle esperienze fatte durante il regno di Nabucodonosor: gli sembra che quelle strane parole siano riconducibili alla mancata riflessione e alla mancata correzione degli errori nel sistema di governo dell’impero neo-babilonese, da parte del figlio del defunto sovrano, Baldassarre.

Ecco come il Libro di Daniele narra questo suggestivo episodio (5, 1-30):

Il re Baldassàr imbandì un gran banchetto a mille dei suoi dignitari e insieme con loro si diede a bere vino. Quando Baldassàr ebbe molto bevuto comandò che fossero portati i vasi d’oro e d’argento che Nabucodònosor suo padre aveva asportati dal tempio, che era in Gerusalemme, perché vi bevessero il re e i suoi grandi, le sue mogli e le sue concubine. Furono quindi portati i vasi d’oro, che erano stati asportati dal tempio di Gerusalemme, e il re, i suoi grandi, le sue mogli e le sue concubine li usarono per bere; mentre bevevano il vino, lodavano gli dèi d’oro, d’argento, di bronzo, di ferro, di legno e di pietra. In quel momento apparvero le dita di una mano d’uomo, le quali scrivevano sulla parete della sala reale, di fronte al candelabro. Nel vedere quelle dita che scrivevano, il re cambiò d’aspetto: spaventosi pensieri lo assalirono, le giunture dei suoi fianchi si allentarono, i ginocchi gli battevano l’uno contro l’altro. Allora il re si mise a gridare, ordinando che si convocassero gli astrologi, i caldei e gli indovini. Appena vennero, il re disse ai saggi di Babilonia: «Chiunque leggerà quella scrittura e me ne darà la spiegazione sarà vestito di porpora, porterà una collana d’oro al collo e sarà il terzo signore del regno».

Allora entrarono nella sala tutti i saggi del re, ma non poterono leggere quella scrittura né darne al re la spiegazione. Il re Baldassàr rimase molto turbato e cambiò colore; anche i suoi grandi restarono sconcertati. La regina, alle parole del re e dei suoi grandi, entrò nella sala del banchetto e, rivolta al re, gli disse: «Re, vivi per sempre! I tuoi pensieri non ti spaventino né si cambi il colore del tuo volto.  C’è nel tuo regno un uomo, in cui è lo spirito degli dèi santi. Al tempo di tuo padre si trovò in lui luce, intelligenza e sapienza pari alla sapienza degli dèi. Il re Nabucodònosor tuo padre lo aveva fatto capo dei maghi, degli astrologi, dei caldei e degli indovini. Fu riscontrato in questo Daniele, che il re aveva chiamato Baltazzàr, uno spirito superiore e tanto accorgimento da interpretare sogni, spiegare detti oscuri, sciogliere enigmi. Si convochi dunque Daniele ed egli darà la spiegazione». 

Fu quindi introdotto Daniele alla presenza del re ed egli gli disse: «Sei tu Daniele un deportato dei Giudei, che il re mio padre ha condotto qua dalla Giudea? Ho inteso dire che tu possiedi lo spirito degli dèi santi e che si trova in te luce, intelligenza e sapienza straordinaria. Poco fa sono stati condotti alla mia presenza i saggi e gli astrologi per leggere questa scrittura e darmene la spiegazione, ma non sono stati capaci. Ora, mi è stato detto che tu sei esperto nel dare spiegazioni e sciogliere enigmi. Se quindi potrai leggermi questa scrittura e darmene la spiegazione, tu sarai vestito di porpora, porterai al collo una collana d’oro e sarai il terzo signore del regno».
Allora Daniele rispose al re: «Tieni pure i tuoi doni per te e da’ ad altri i tuoi regali: tuttavia io leggerò la scrittura al re e gliene darò la spiegazione. O re, il Dio altissimo aveva dato a Nabucodònosor tuo padre regno, grandezza, gloria e magnificenza. Per questa grandezza che aveva ricevuto, tutti i popoli, nazioni e lingue lo temevano e tremavano davanti a lui: egli uccideva chi voleva, innalzava chi gli piaceva e abbassava chi gli pareva. Ma, quando il suo cuore si insuperbì e il suo spirito si ostinò nell’alterigia, fu deposto dal trono e gli fu tolta la sua gloria. Fu cacciato dal consorzio umano e il suo cuore divenne simile a quello delle bestie; la sua dimora fu con gli onagri e mangiò l’erba come i buoi; il suo corpo fu bagnato dalla rugiada del cielo, finché riconobbe che il Dio altissimo domina sul regno degli uomini, sul quale innalza chi gli piace. Tu, Baldassàr suo figlio, non hai umiliato il tuo cuore, sebbene tu fossi a conoscenza di tutto questo. Anzi tu hai insolentito contro il Signore del cielo e sono stati portati davanti a te i vasi del suo tempio e in essi avete bevuto tu, i tuoi dignitari, le tue mogli, le tue concubine: tu hai reso lode agli dèi d’oro, d’argento, di bronzo, di ferro, di legno, di pietra, i quali non vedono, non odono e non comprendono e non hai glorificato Dio, nelle cui mani è la tua vita e a cui appartengono tutte le tue vie. Da lui fu allora mandata quella mano che ha tracciato quello scritto, di cui questa è la lettura: mene, tekel, fares, e questa ne è l’interpretazione: Mene: Dio ha computato il tuo regno e gli ha posto fine. Tekel: tu sei stato pesato sulle bilance e sei stato trovato mancante. Fares: il tuo regno è diviso e dato ai Medi e ai Persiani».

Allora, per ordine di Baldassàr, Daniele fu vestito di porpora, ebbe una collana d’oro al collo e con bando pubblico fu dichiarato terzo signore del regno. In quella stessa notte Baldassàr re dei Caldei fu ucciso: Dario il Medo ricevette il regno, all’età di circa sessantadue anni.

Le tre parole misteriose, dunque, erano un monito e una profezia nello stesso tempo: significavano che Dio aveva calcolato la durata del regno di Balsdassarre, e aveva deciso di porvi la parola fine; che il re e le sue opere erano stati pesati sulla bilancia, e che erano stati trovati troppo leggeri; infine, che il regno neobabilonese sarebbe stato invaso, conquistato e diviso fra i suoi nuovi signori, i Medi ed i Persiani. Baldassarre vide le parole, così come le video tutti gli altri cortigiani e i commensali; ma nessuno seppe leggerle e spiegarle, finché non fu chiamato a palazzo il profeta Daniele, uno straniero, un ebreo. Solo lui fu in grado di comprenderne il significato: ma ormai era troppo tardi; Baldassarre non ebbe il tempo di fare alcuna cosa, perché quella notte stessa (il giorno del banchetto o quello in cui avvenne la spiegazione?; non è del tutto chiaro: noi, personalmente, propendiamo per la seconda ipotesi) venne ucciso, i nemici entrarono in città e il suo regno venne diviso fra i conquistatori, secondo la profezia.

Che cosa ha da dire questo misterioso episodio biblico, a noi uomini d’oggi, cittadini dell’inizio del terzo millennio? Molte cose, crediamo. E la prima è questa: anche il nostro impero sta per cadere, insieme alla nostra civiltà; anche noi non siamo stati capaci d’imparare qualcosa dagli errori di chi ci ha preceduto; e anche noi stiamo banchettando e gozzovigliando, mentre le ombre minacciose della fine già si addensano ed incombono sopra le nostre teste. Eppure i segni premonitori della fine del nostro mondo ci sono, eccome, così come erano nitidamente tracciate le parole tracciate dalla mano misteriosa sul muro, nella stanza del banchetto: pare che nessuno di noi, tuttavia, li sappia interpretare. Se pure, fra noi, c’è qualcuno che possiede la saggezza e la lungimiranza di Daniele, se c’è qualcuno che ha la sua acutezza ed il suo discernimento, sta di fatto, però, che nessuno ha voglia di ascoltarlo: le profezie di sventura non piacciono a nessuno, e meno che mai a chi si è ormai abituato a sprofondare sempre di più in un’atmosfera di sfrenato edonismo, di sfrontata dissolutezza e di sconfinata superbia intellettuale.

Mane: i giorni della nostra civiltà sono stati numerati e, forse, sono giunti alla fine. È da un secolo almeno, con Il Declino del’Occidente di Oswald Spengler, che si parla di una prossima fine, di un imminente tracollo della nostra civiltà; e oggi, al principio del terzo millennio, i segni premonitori sembrano essere infinitamente più numerosi che non al principio del XX secolo. Allora l’Europa non stava affatto vivendo una fase di crollo demografico; non si parlava neppure di una questione ambientale; e, se la corsa agli armamenti era un motivo d’inquietudine e di allarme, non esistevano ancora armi così potenti da distruggere l’intera specie umana. Non c’era la minaccia inquietante della manipolazione genetica; non c’erano l’aborto e l’eutanasia legalizzati; non c’era l’incubo quotidiano del terrorismo: l’assassinio di Francesco Ferdinando d’Asburgo, nel 1914, e del re jugoslavo Alessandro I, nel 1934, fecero sensazione, ma rimasero episodi isolati. E non c’era una migrazione/invasione di massa dalla sponda sud del Mediterraneo di tale entità, da mettere in forse la stessa identità occidentale e cristiana del nostro continente: semmai, erano i pochi immigrati africani o mediorientali a sentirsi sradicati e infelici: si pensi alla poesia In memoria di Giuseppe Ungaretti, in cui egli ricorda l’amico egiziano Mohammed Sceab, suicida a Parigi perché "non aveva più patria", anche se aveva cercato d’integrarsi e assunto un nome francese.

La crisi, allora, era ancora confinata prevalentemente nell’ambito morale; solo pochi Paesi, come la Francia, stavano anche vivendo una crisi demografica; politicamente, poi, sebbene in declino dopo la tragedia della Prima guerra mondiale, l’Europa contava molto nello scacchiere mondiale, e non era evidente che presto quella potenza sarebbe stata un ricordo del passato. Il malessere, però, c’era; c’erano le discordie intestine, la lotta di classe, la contrapposizione ideologica dei comunismi e dei fascismi; e c’era una democrazia inefficiente, corrotta, parolaia e velleitaria, che fungeva più che altro da copertura a interessi finanziari ed economici tutt’altro che limpidi.

Tekel: la nostra civiltà, la civiltà del benessere, la civiltà dei consumi, la civiltà della tecnica, è stata pesata, ed è stata trovata scarsa. In fondo, lo abbiamo sempre saputo che, se non fossimo stati capaci di accompagnare il progresso tecnico e scientifico e l’accresciuto benessere materiale con un paragonabile progresso spirituale, con una visione più profonda e più saggia della vita, avremmo finito per danneggiare irreparabilmente noi stessi: ed è appunto quello che sta avvenendo. La forbice fra sviluppo materiale e arretratezza spirituale ha raggiunto una tensione insostenibile: ci troviamo a disporre di strumenti estremamente sofisticati di dominio sulla natura, ma non sappiamo neppure come utilizzarli, e, sovente, li rivolgiamo alla soluzione di problemi futili, alla produzione di sempre nuove merci di consumo sostanzialmente inutili: restiamo prigionieri e sempre più avvinti nel cerchio stregati delle nostre contraddizioni. Stiamo correndo verso il disastro per un eccesso di tecnicismo; per l’illusione funesta che le macchine, semplici strumenti che prolungano gli arti umani, risolveranno, da sole, gran parte dei nostri problemi.

Fares: Il potere e la ricchezza di cui disponiamo ci saranno tolti e diverranno bottino di altri popoli, più giovani, e di altre civiltà, più vitali della nostra. Ci stanno già spogliando di ciò che credevamo nostro; si stanno dividendo le nostre spoglie, mentre noi siamo ancor vivi, benché agonizzanti. Dovremo assistere allo spettacolo della nostra spoliazione, del nostro funerale. A tanto ci hanno condotti l’odio di noi stessi, il disamore o il disprezzo delle nostre radici, il rifiuto della nostra identità. I nichilisti, i relativisti, gli scettici di professione, i cinici per interesse, i disperati per noia e per passatempo, possono andar fieri del loro lavoro: la vitalità della nostra civiltà è stata spezzata, la voglia di vivere è stata incrinata, la fiducia nel domani è stata infranta. Ora noi stiamo andando velocemente alla deriva, come relitti d’un naufragio, portati qua e là dal capriccio del mare.

Esistono ancora margini di speranza, prospettive di salvezza? Probabilmente no. Se pure fossimo realmente consci del destino cui siamo avviati, è molto improbabile che troveremmo in noi le energie morali e spirituali per reagire, tanto più che abbiamo demolito e gettato via tutti i valori — Dio, la famiglia, la patria — che hanno alimentato la nostra passata grandezza. Ci siamo rimpiccioliti e immiseriti; sguazziamo nel cupio dissolvi. Umanamente, è la fine. Ma nulla è impossibile a Dio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Jorgen Hendriksen su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.