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Il mistero dell’amore e della croce

In uno dei suoi libri più importanti, più profondi e, probabilmente, più sofferti, Timore e tremore, Sören Kierkegaard delinea due caratteristici tipi umani che lui stesso, nel proprio movimento esistenziale, stava sperimentando: il cavaliere della fede e il cavaliere dell’infinito. Il protagonista del libro è Abramo, e precisamente l’Abramo che, ormai vecchio, ed essendo ormai vecchia anche Sara, sua moglie, ha visto compiersi la promessa di Dio con la nascita del sospirato figlio Isacco, garanzia della sua futura discendenza, ma riceve ancora da Dio il comando di recarsi sul monte Moria, per sacrificargli proprio Isacco. Abramo, pur sconvolto sino in fondo all’anima, obbedisce: ancora non sa che Dio vuole solo metterlo alla prova, non sa esattamente cosa succederà, anzi, lo ignora del tutto; eppure sa che Dio non fa nulla per il male, non si rimangia le Sue promesse, non gode dell’ingiustizia e del dolore degli uomini, e quindi spera. Spera, pur obbedendo; spera, pur tenendosi pronto ad eseguire l’ordine: spera contro ogni speranza, spera ciò che è assurdo sperare: che, da quella giornata memorabile, verrà un gran bene, una felicità mai provata. E sperare una cosa simile, in quelle circostanze, sembra pura follia.

Kierkegaard parla di Abramo, ma pensa a se stesso. Quando pubblica Timore e tremore, nel 1843, la sua storia d’amore con Regina Olsen, il suo fidanzamento, il suo progetto di matrimonio, sono finiti da un paio d’anni: non solo egli ha rotto il fidanzamento, attirandosi il risentimento del padre di lei e di tutta la sua famiglia, ma ha anche fatto di tutto per apparire cinico e spregevole, in modo da estinguere in Regina qualunque rimpianto nei suoi confronti, e renderle più facile il distacco. È difficile immaginare che un uomo possa essersi inflitto una sofferenza più grande di questa, una più dolorosa auto-umiliazione, allo scopo di proteggere colei che amava dalla sofferenza derivante dalla sua decisione di lasciarla. Sembra una vicenda uscita dalle pagine di un libro antico, di un dramma greco o, magari, shakespeariano, e non una storia moderna, avvenuta quasi sotto i riflettori delle "gazzette" (cioè della stampa malignamente pettegola), per usare l’espressione dello stesso Kierkegaard.

Per tutta la vita egli avrebbe portato con sé sia il rimorso di aver fatto soffrire Regina, sia il rimpianto di aver rinunciato al suo amore. Per tutta la vita, ostinatamente, assurdamente — o, almeno, quasi sino alla fine — egli avrebbe continuato a sperare nel miracolo, nell’assurdo, come il cavaliere della fede: il quale spera contro ogni speranza, come Mosè; spera che Dio gli renderà merito della sua giustizia, della sua fedeltà, e lo renderà felice non solo nell’altra vita, ma anche in questa. Solo negli ultimi anni, come pare, Kierkegaard si rese conto che non sarebbe andata così, che aveva perduto regina per sempre. Lei, dopo qualche tempo, si era fidanzata e sposata con un altro, il quale venne poi nominato governatore delle Indie Occidentali danesi. Allorché, nel marzo del 1855, si apprestava a partire con la moglie, questa volle rivedere il suo ex fidanzato per l’ultima volta: donna sposata, sfidò le convenzioni e i pettegolezzi per incontrarlo in mezzo alla via, e per sussurrargli: Dio ti benedica! Che ti possa andare tutto bene! Non si sarebbero mai più rivisti in questa vita: lei sarebbe partita e lui sarebbe morto pochi mesi dopo, prima della fine dell’anno, dopo essere crollato per la strada e aver speso quasi tutto il suo piccolo patrimonio per finanziare la sua battaglia editoriale contro il filisteismo e l’ipocrisia della Chiesa luterana danese, da lui accusata di aver tradito il Vangelo.

Negli ultimi anni, dunque, Kierkegaard aveva elaborato una nuova figura di uomo religioso, il cavaliere dell’infinito: colui che ha compreso che la rinuncia alla felicità terrena è definitiva, e che ciò a cui si rinuncia in questa vita, per offrirlo a Dio, non viene ritrovato se non nell’altra. Kierkegaard aveva compreso che Regina non gli sarebbe stata restituita e che la sua decisione di lasciarla — per ragioni misteriose e mai chiarite del tutto, ma certo non banalmente egoistiche — era irrevocabile. Per dirla con il vecchio Plauto: factum infectum fieri nequit, ciò che è avvenuto, è immodificabile, e i suoi effetti non si possono rimuovere.

Con l’impareggiabile finezza, non solo filosofica, ma anche psicologica, che lo caratterizza, Kierkegaard scandaglia la differenza essenziale tra il cavaliere della fede e il cavaliere dell’infinito: il primo non ancora rassegnato all’infelicità in questa vita, perché sostenuto dalla sua fede nell’assurdo (nel senso dato da Tertulliano all’espressione: credo quia absurdum), il secondo, invece, consapevole, e perciò rassegnato, ormai totalmente proiettato verso il compimento della promessa ultraterrena di Dio. La differenza consiste nel fatto che il cavaliere della fede compie un doppio movimento, prima verso Dio, poi verso il mondo, pensando che Dio manterrà la sua promessa di felicità anche in questa vita; il cavaliere dell’infinito ha sciolto i legami e respinto le ultime illusioni, o tentazioni, e non si aggrappa più alle cose del mondo, ma è rivolto unicamente a Dio, pertanto il suo movimento è semplice e diretto, è un’ascesa verso l’Assoluto.

Ora, la domanda che ci poniamo è la seguente: aveva ragione Kierkegaard? Aveva ragione a pensare che, se ci si vuol mettere al servizio della verità, bisogna rinunciare per sempre a ogni speranza di essere felici in questa vita? Non esiste alcuna mediazione possibile fra la felicità in questa vita e la pienezza che sarà riservata nell’altra, a coloro che hanno rinunciato a tutto, anche alle cose più care, anche a se stessi, per testimoniare la verità? Il filosofo danese parlava della "via della croce" e della "via della gloria" e vedeva in Abramo l’uomo che, compiendo il doppio movimento dal mondo a Dio e da Dio al mondo, aveva realizzato in se stesso la promessa di felicità fattagli da Dio, e ciò contro tutte le speranze. Ma il caso di Abramo è stato unico e irripetibile? Oppure dobbiamo rinunciare a qualunque idea di penetrare i disegni di Dio, e di riuscire a comprendere perché alcuni uomini, che a Lui hanno donato tutto, soffrono e paiono soccombere in questa vita, come del resto è accaduto al Cristo, mentre altri vengono ricompensati fin da ora, e ritrovano le cose alle quali avevano rinunciato? Che cosa può aspettarsi che gli accada, colui che si mette a disposizione della chiamata, e rinuncia alle gioie terrene, anche le più legittime — sposarsi, avere dei figli – per fare di sé uno strumento del disegno di Dio?

Questo è un mistero, e un mistero, per certi versi, terribile. Riempie di timore e di angoscia: non solo appare incomprensibile, ma riveste anche una sfumatura d’ingiustizia. Sembra che i conti non tornino; sembra, pertanto, che Dio non sia presente in tutto questo, oppure che sia ingiusto. Sono dubbi tremendi. Eppure, a ben considerare la questione — e sempre tenendo conto che la mente dell’uomo non può neppure sognarsi di penetrare i misteri di Dio — esiste il modo, se non di capire, almeno di accettare un così pauroso mistero, e anche di disperdere le ombre che paiono avvolgere la stessa divina Provvidenza. Dio non dorme e non è ingiusto: come potrebbe essere altrimenti? Egli è, per definizione, la somma sapienza, il sommo amore e la somma giustizia; la sapienza umana, l’amore umano e la giustizia umana non sono che un pallido riflesso delle Sue, così come la luce tremolante di una candela non è che un pallido riflesso della luce sfolgorante del Sole.

Il fatto è che le aspettative umane, pur quando sono legittime, sono comunque gravate dal peso della nostra umanità: sono il riflesso del nostro vedere, che è un corto vedere, e del nostro comprendere, che è un comprende limitato. In base alla corta vista e alla limitata comprensione di cui disponiamo – sempre e comunque, anche i migliori fra noi, anche i santi -, noi speriamo e desideriamo una certa cosa. Supponiamo che la desideriamo con cuore assolutamente puro — cosa che, umanamente parlando, è impossibile, perché sempre, anche nei sentimenti e nei pensieri più nobili e altruistici, in noi s’insinua il retaggio di Adamo e di Eva, il retaggio dell’egoismo e della superbia; supponiamo, tuttavia, di desiderarla con cuore assolutamente puro, per quanto ciò sia umanamente possibile, e che sia una cosa in sé lecita e perfino buona, una cosa che potremmo mostrare al mondo e a Dio nella sua perfetta innocenza — il che, ripetiamo, è molto improbabile. Tuttavia, supponiamolo. Ebbene: il fatto di desiderare con cuore puro una cosa lecita e buona, non rende automatico e quasi scontato il buon esito del nostro desiderio; e, se esso poi non si realizza, non bisogna saltare immediatamente alla conclusione che Dio non ci si curi di noi, o, peggio ancora, che Egli sia ingiusto. Questa sarebbe una conclusione assai più grande della premessa (che Dio è amore e che il mondo è governato da Lui): cioè sarebbe un errore filosofico, prima ancora che morale.

Le ragioni per cui un umano desiderio, anche se buono in sé, e rettamente perseguito, può non realizzarsi felicemente, possono essere molte e perfettamente spiegabili. Possono frapporsi degli ostacoli umani, innanzitutto; poi, possono frapporsi degli ostacoli naturali una malattia, ad esempio, o la morte stessa; oppure una calamità naturale. Che colpa avevano quei viaggiatori che morirono quando, d’improvviso, crollò sotto di essi il ponte di San Luis Rey?, si domanda lo scrittore americano Thornton Wilder. E, nel Vangelo, che colpa avevano quei diciotto Giudei che morirono schiacciati sotto il crollo della torre di Siloe? È lo stesso Gesù a chiederlo ai suoi discepoli; e risponde: nessuna; essi non erano più colpevoli, cioè più peccatori, di chiunque altro. Dunque, se il cavaliere della fede non vede realizzato il suo sogno di felicità in questa vita, ciò non significa che Dio ne sia responsabile: non sempre la pedagogia di Dio consiste nel premiare o nel punire immediatamente gli uomini, come pure si vede in alcuni episodio della Bibbia; quella è la sua pedagogia straordinaria, riservata a noi, uomini di dura cervice; ma la sua pedagogia ordinaria è un’altra. Ordinariamente, egli lascia che ce la sbrighiamo da soli; ci assiste, eccome, se noi domandiamo il Suo aiuto: ma, ecco il punto, non come vorremmo noi, perché le Sue vie non sono le nostre vie, e i Suoi disegni non sono i nostri disegni.

Dio non lascia mai soli coloro che confidano in Lui; anzi, prende Egli stesso la loro croce, e li aiuta a portarla, affinché il suo peso diventi sopportabile; però non la toglie dalle spalle di alcuno. Non l’ha tolta dalle spalle del Suo Figlio unigenito: e tanto dovrebbe bastare a farci riflettere. Il Vangelo non promette di togliere la croce; al contrario, Gesù ribadisce più volte che non vi è altra via, per giungere a Lui, e al Padre Suo, che quella della croce; però, nello stesso tempo, ha promesso solennemente che saremo aiutati, consolati, e, infine, premiati. Questo è il Vangelo di Gesù; e se qualcuno predica un Vangelo senza la croce — cosa che, a nostro avviso, purtroppo sta avvenendo — ebbene quello non è il Vangelo di Gesù, ma un’altra cosa; è un’altra religione, che parla di un altro Dio — se pure si tratta di una religione, e se pure un Dio di quel genere, che toglie la croce dal cammino degli uomini, sarebbe ancora il vero Dio. Sì, lo sappiamo: oggi va di moda predicare il Vangelo con ben altri toni, con ben altra impostazione; oggi va di moda presentare il cristianesimo come un prato fiorito dove il credente incontra solo cose belle e gratificanti, e dove il premio della fede si raccoglie senz’altro già in questa vita. Ma ciò è falso: perché il premio, sì, lo si può raccogliere già a partire da questa vita: ma, ordinariamente, non nella maniera che vorremmo noi, che è pur sempre, per quanto bene intenzionata, una maniera grossolanamente materiale, e che risponde pur sempre, anche nei migliori fra noi, ad una logica meramente umana, cioè limitata e imperfetta.

La verità è che la croce resta un mistero: ma un mistero che fonda il Vangelo. Pretendere di toglierla, è come voler abolire il Vangelo e vanificare l’Incarnazione, la Passione e la Resurrezione. Dio, per mezzo di Suo Figlio, Gesù Cristo, non ha voluto mostrarci in che modo sia possibile eludere la croce, ma in che modo si possa e di debba prenderla su di sé; e ci ha promesso che, con il Suo aiuto, il peso di essa diverrà leggero, e che poi — non in questa vita, ma nell’altra — riceveremo il premio per aver accolto e messo in pratica il Vangelo. Questo Egli ha promesso, e non altro. Non è venuto a risolvere tutti i nostri problemi; se lo avesse fatto, fatalmente avrebbe tolto agli uomini il bene più prezioso, quello che li rende figli e non schiavi di Lui: la libertà di scegliere. Del resto, Gesù stesso, nella sua vita terrena, ha dovuto affrontare una simile tentazione, veramente satanica: quella di abolire la croce e di offrire una ricompensa automatica agli uomini di buona volontà. L’ha vissuta nella sua persona, fin da quando si era ritirato nel deserto per pregare, ma anche in seguito, e fino all’ultimo istante, allorché venne issato, materialmente, sulla croce: e l’ha respinta.

Ma, infine — obietterà qualcuno — se nemmeno desiderando sempre il bene, e cercandolo con cuore puro, si è certi di trovare la felicità in questa vita, non se ne dovrà concludere che la vecchia accusa contro il cristianesimo, di essere una religione triste e pessimistica, è, tutto sommato, fondata? Non rimane un senso di amaro in bocca, vedendo il giusto soffrire e l’ingiusto godere? Giova, a questo punto, ricordare il severo monito di Dante (Par., XIX): Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d’una spanna? […] Oh terreni animali! oh menti grosse! / La prima volontà, ch’è da sé buona, da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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