
Il cavaliere della fede e il cavaliere dell’infinito
14 Settembre 2016
Sperare in Dio è sperare contro la speranza umana
15 Settembre 2016Chi ha paura dello scrittore Karl May, nato in Sassonia nel 1842 e ivi deceduto nel 1912?
Può darsi che questo nome, oggi, dica poco o nulla al lettore medio, anche di discreta cultura, fuori della Germania; eppure i suoi libri furono venduti a milioni di copie in tutto il mondo, tradotti in più di venti lingue, e appassionarono, entusiasmarono, fecero sognare milioni e milioni di ragazzi, con le avventure esotiche e avvincenti di eroi come Winnetou, il prode e nobile pellirossa, o come il suo amico Old Shatterand, o, spostandoci dalle praterie del Far West nelle terre del misterioso Oriente, Kara Ber Nemsi.
I suoi romanzi per la gioventù sono almeno 70, dei quali una trentina sono stato tradotti anche in italiano; per cui, fino a quando si regalavano libri ai ragazzi, e non computer o telefoni cellulari, lo scrittore tedesco era ben conosciuto e apprezzato anche presso il pubblico del nostro Paese, e riscuoteva notevoli consensi, se non presso la critica, certo presso i librai ed i giovani lettori. Letteratura di consumo, di evasione, letteratura del disimpegno? Per quel che valgono simili distinzioni (quanta parte di evasione anche in autori osannati dalla critica; e quanta indulgenza verso le mode più corrive del consumismo, con l’aggravante della immoralità e della pornografia, in scrittori a suo tempo tanto lodati, come, ad esempio, Alberto Moravia!), possiamo anche rispondere di sì, ma sempre dentro i limiti del buon gusto e senza mai tralasciare una certa vena didattica, una sincera aspirazione al bene e alla giustizia, nonché un costante richiamo verso Dio e i valori della fede e della dimensione religiosa.
Sta di fatto che, mentre era ancora in vita, ma ormai anziano, e press’a poco quando toccava il culmine del successo e della popolarità, Karl May subì una serie di attacchi pesantissimi dal mondo della carta stampata e dal sistema dell’informazione: una vera e propria campagna di fango, di denigrazione e di diffamazione, dalla quale il vecchio scrittore uscì quasi distrutto, screditato, umiliato e amareggiato. E la campagna, forse, non può dirsi conclusa nemmeno oggi, se è vero, com’è vero, che una sottile e malcelata acrimonia, un sottinteso malanimo ha sempre accompagnato il nome di questo scrittore, riuscendo infine a ottenere che, nonostante i numeri strabilianti dei suoi lettori, egli sia stato pressoché dimenticato, e relegato, nella sua stessa patria, ad un ruolo di terza o quarta fila, una specie di macchietta o di curiosità; una di quelle figure che, come la nostra Liala, o, prima di lei, Carolina Invernizio, riescono ad irritare profondamente quella congrega di professori altezzosi e di giornalisti saccenti, che forma la benemerita congrega dei critici letterari, una istituzione perfettamente inutile, che, come altre simili, lotta quotidianamente per evitare che il pubblico si chieda a quale scopo essa esiste, e lo fa ergendosi a tribunale inappellabile e spostando l’attenzione dei lettori sul clamore e sulla petulanza dei processi che istruisce.
Che cosa gli si rimproverava, in buona sostanza? Egli fu oggetto di un miscuglio di accuse sul piano personale, della sua vita privata, e di tipo letterario, per la pretesa banalità e perfino l’ipocrisia dei suoi romanzi. Sul piano personale fu facile ai suoi nemici rispolverare alcuni episodi poco edificanti della sua gioventù, quantunque, in se stessi, di modestissima entità: dopo una infanzia durissima e infelice (era figlio di poveri tessitori della Sassonia, lo stesso ambiente sociale descritto da Gerhart Hauptmann nel suo dramma I tessitori), aveva rubato — pare — un orologio e commesso alcuni altri reati minori, o minimi, che gli erano costati, però, stante l’estrema durezza della legislazione tedesca dell’epoca, diversi anni di prigione, oltre all’esclusione perpetua dall’insegnamento, posizione raggiunta dopo duri sacrifici e persa nello spazio d’un mattino per una semplice bravata o per una leggerezza giovanile. Paragonati ai reati finanziari di tanti uomini potenti dei nostri giorni, banchieri, industriali, politici, i furtarelli e i piccoli imbrogli assicurativi del giovane e disadattato Karl May fanno veramente sorridere; del resto, bisogna tener conto che la Germania non scherza in fatto d’irreprensibilità dei funzionari pubblici, e che qualche anno fa un ministro della Repubblica dovette rassegnare le dimissioni quando venne in luce che, quand’era studente universitario, aveva copiato alcune pagine della sua tesi di laurea. Ad ogni modo, le "rivelazioni" sul passato poco limpido e sulla fedina penale non immacolata di Karl May furono più che sufficienti a infliggergli un colpo basso sul piano morale, dal quale non si sarebbe più ripreso, pur intentando, e vincendo, alcune cause penale nei confronti dei suoi più disonesti a aggressivi accusatori.
Sul piano letterario, le accuse rivolte alla qualità appaiono, ad un esame sereno, decisamente infondate o pretestuose. Certo, Karl May scriveva in fretta, molto in fretta (come il nostro Salgari, che di romanzi ne scrisse ancora più di lui: circa 80, oltre a più di 100 racconti) e non si curava molto né della forma, né della qualità e dello spessore letterario; peraltro, e a rischio di far sobbalzare qualcuno sulla sedia, occorre rammentare a chi avesse poca memoria, o scarsa equanimità, che anche un sommo autore come Dostoevskij scriveva con una frenesia disperata, anzi, faceva stenografare i suoi romanzi mentre li dettava, e che molti di essi, anche i migliori, anche i capolavori, sono scritti, in realtà, in modo piuttosto approssimativo? E ciò sia detto senza nulla togliere al genio del russo, ma al solo scopo di mostrare quanto una simile accusa sia, di per se stessa, poco onesta e poco pertinente. Sul piano dei contenuti, poi: come si fa ad accusare May di insincerità, di bigottismo, d’ipocrisia? Nei suoi romanzi vi è sempre una lotta fra il bene e il male, e il bene, alla fine, vince: dov’è l’ipocrisia, in questo? Dov’è il bigottismo? Ci sembra, semmai, che simili critiche nascano da un pregiudizio ideologico: un pregiudizio antireligioso e anticristiano, e, nello specifico, anticattolico. May, non si è capito bene se fosse cattolico o protestante; cercava di barcamenarsi — e questa, senza dubbio, è stata un piccola furbizia — in un Paese che era per due terzi luterano e per un terzo cattolico, ma i cui lettori, effettivi e potenziali, provenivano da entrambe le confessioni. Forse propendeva di più per il cattolicesimo, se è vero che a dargli la spinta decisiva verso la religione fu il rapporto con un sacerdote cattolico che prestava la sua opera presso uno dei penitenziari ove, da giovane, si trovò a scontare la sua pena.
E qui, forse, ci avviciniamo al nodo della questione. In una Europa che, investita in pieno dal vento della modernità — lo storico Emilio Gentile direbbe: dall’apocalisse della modernità, perché di una vera apocalisse si è trattato — l’attaccamento al sentimento religioso di Karl May, che aveva una così vasta presa sui giovani lettori, e quindi l’influenza che egli esercitava su di essi in termini di morale cristiana, dovevano dare parecchio fastidio agli esponenti della cultura modernista e progressista, sia positivista che nietzschiana, entrambe protese, per ragioni diverse, alla distruzione della tradizione e all’affermazione definitiva del dogma laico relativo alla morte di Dio. Come si permetteva quel vecchio scrittore, quell’uomo ambiguo, dal passato poco encomiabile, di parlare di Dio, del bene e del dovere da compiere, in una società che voleva venerare unicamente le nuove divinità del Progresso, della Scienza e del Benessere? Bisognava zittirlo, ridurlo all’impotenza: aveva troppi lettori per fare finta che non esistesse, per snobbarlo semplicemente con l’arma del silenzio. Bisognava colpire al cuore la sua reputazione, e, attraverso di essa, la sua credibilità, oltre che la sua onorabilità. Né si dimentichi che la Germania, da poco unificata, aveva conosciuto, a partire dal 1873, la veemente campagna bismarckiana detta Kulturkampf (battaglia per la civiltà), con la quale il "Cancelliere di ferro" aveva cercato di distruggere l’influenza della cultura cattolica nel Sud e nell’Ovest del Paese.
Un’altra accusa che venne mossa a Karl May fu quella di barare al gioco, vantandosi di aver vistato Paesi lontani nei quali non era mai stato, e costruendo i suoi romanzi su esperienze di viaggio che non aveva fatto. E questa sarebbe una colpa? Ebbene, se essa è tale, Emilio Salgari la commise in misura ancor maggiore, avendo scritto i suoi ottanta romanzi esotici senza mai essere uscito dalla sua stanza, ed essendosi vantato di aver compiuto, in gioventù, chi sa quali viaggi per mare, mentre è certo che non uscì mai dall’Adriatico. A noi, però, non solo pare che questa non sia una colpa, ma pensiamo, semmai, che sia una qualità: significa che egli possedeva una immaginazione così potente, così viva, e che si era documentato sui libri e sugli atlanti geografici con tale scrupolo di esattezza, da poter descrivere i luoghi dei suoi romanzi con la stessa precisione che se vi fosse stato. Bravo, quindi, e non impostore, uno scrittore che sa fare una cosa del genere!
Osservava colui che è stato, probabilmente, il più grande germanista dei tempi moderni, Italo Alighiero Chiusano (Breslavia, 10 giugno 1926-Frascati, 15 febbraio 1995), nel suo ampio, limpido e illuminante saggio introduttivo scritto per una casa editrice che, negli anni Settanta, si è resa benemerita per aver riproposto al pubblico italiano diversi romanzi dello scrittore tedesco (da: Karl May, Il fantasma della macchia; titolo originale: Das Buschgespenst, Bamberg, Karl May Verlag; traduzione dal tedesco di Carlo Danna, con saggio di I. A. Chiusano: Karl May, ovvero: sogni avventurosi con morale, Roma, Edizioni Paoline, 1978, pp. 10-12):
May sognava, da qualche anno [cioè, a partire dai primi del Novecento], di cominciare a far sul serio, considerava cioè tutta la produzione che gli aveva dato la gloria un meri studio preparatorio alle grandi opere piene di poesia e di messaggi religiosi di cui il "Leone d’argento" avrebbe dovuto essere il preludio. Non poté avanzare molto su questa strada, che forse gli avrebbe allontanato i fedeli lettori di ieri, ma certo lo avrebbe imposto anche ai distratti come una delle grandi forze della narrativa tedesca tra Ottocento e Novecento. Ebbe ancora la soddisfazione di vedersi festeggiato da una massa di fedeli a Vienna durante una conferenza a cui pare che assistesse anche Hitler. Ma certamente vi assistette Bertha von Suttner, l’autrice di "Giù le armi!" e premio Nobel per la pace, che in questo ormai fragile vecchio aveva riconosciuto un compagno di lotte umanitarie e che scrisse parole di profonda pietà e ammirazione quando apprese che, tornato a Radebeul, May vi si era spento il 30 marzo 1912, mandando al mondo, nel delirio delle ultime ore, parole come: "Vittoria! Grande vittoria!" e "Rose…".
Così se ne andava, insieme disperato e sereno, uno scrittore che aveva dato e che continua a dare gioia, passione, il gusto vorace della lettura a un numero incredibile di ragazzi. (Ma non solo di ragazzi: piace apprendere che hanno scritto di lui con ammirazione e rispetto uomini come Heinrich Mann e Karl Zuckmayer, Hermann Hesse ed Ernst Bloch). Ogni schedina editoriale, oggi, c’informa che May è l’autore di 70 romanzi tradotti in 22 lingue e divorati da decine di milioni di lettori. Anche chi non li tenga in gran conto come fatto letterario o concentri il suo interesse solo sui pochi titoli degli ultimi anni in cui si assiste a un imprevedibile "salto di qualità", dovrà pur sempre ammettere che un tal risultato non si spiega se non con doti eccezionali. C’è chi dice "eccezionali nel peggio", e tira fuori i soliti addebiti sull’ipocrita moralità guglielmina e borghese, sull’evasione nel grossolanamente fantastico della parte più rozza di una società priva di più seri ideali, sulla circostanza che di Karl May furono lettori appassionati Guglielmo II e Hitler (come se May non lo avessero letto tutti i ragazzi tedeschi, compresi quelli che combatterono quei due o magari morirono a causa loro), sulla violenza che ci sarebbe nei suoi libri, e via di questo passo, adducendo anche cose del tutto campate in aria.
No vorremmo passare per avvocato di questo povero morto, ma dobbiamo dire che quasi nulla di tutto questo regge a un esame un po’ approfondito. Abbiamo già detto, intanto, che la religiosità di May, che a molti pare bigotta, a noi sembra in gran parte sincera e di buona lega. L’autore avrà giocato di furbizia tra cattolici e protestanti, avrà alternato dichiarazioni di stretta ortodossia a confessioni di teismo aconfessionale, d’accordo: non era certo né un rigoroso teologo né un pensatore degno di questo nome. Ma l’assillo di Dio, dell’amore tra gli uomini, dell’aspirazione fattiva a un futuro di riconciliazione universale, la certezza incrollabile nell’aldilà fino alle sue forme più spicciole (May, in casa, cedeva spesso alla pratica dello spiritismo), tutto questo non può esser negato, o può dare fastidio solo a chi, quando rifiuta May, rifiuta insieme anche l’idea religiosa, protestante o cattolica, in quanto tale: cioè a chi, su quest’argomento, non può dirci nulla di davvero interessante.
Quanto alla violenza, stupisce che gli si muova tale rimprovero proprio in un’età che della violenza, nei libri e al cinema, nei fumetti e nella vita quotidiana, ha fatto un ingrediente continuo, esasperato, coi colori più accesi di un sadomasochismo da trivio e da Lager,. In May non c’è mai, in nessuna pagina, il gusto della descrizione di una scena violenta, e meno che mai di una violenza fine a se stessa. è anzi una pratica costante quella dei suoi eroi esemplari (Winnetou, Old Shatterand, Kara Ben Nemsi), quella di ferire o uccidere l’avversario solo in caso estremo, per urgente legittima difesa, dopo che ‘avvertimento a parole o un primo tiro di intimidazione sono risultati inutili. Che cosa ci dà di simile, oggi, la letteratura o il cinema per ragazzi o per adulti?
Così i sogni d’evasione. Si pecca di moralismo astratto quando si vuol bandire il sogno d’evasione dalla letteratura. In ogni secolo, dall’"Odissea" al "Robinson Crusoe", i grandi poeti hanno dato all’umanità questo dono; né ci pare che si trovi un solo capolavoro poetico, i più alti e rivoluzionari ampiamente compresi, in cui non sia presente, spesso in misura fortissima, questa nota ludica ed evasiva, fantastica e fiabesca. Chi non la vuole, non si rivolga all’arte ma ai giornali politici, ai manifesti di partito, ai trattati di sociologia, ai saggi filosofici. (E anche qui, andiamoci con cautela: quanto sogno, quanta bellezza fantastica c’è in certe pagine di Platone, di sant’Agostino, di Nietzsche, di Teilhard!). L’importante è che l’evasione non sia vile, che non ci si stranii dalla nostra realtà, dai nostri compiti di uomini. Ma di Karl May questo non si può dire. Nel sogno Karl May porta sempre il problema morale, l’impegno religioso, il ricordo delle ingiustizie da riparare, del bene da realizzare. Quando, come in "Das Buschgesdpenst" ["il fantasma della macchia", 1884], May ci rivela, attraverso una storia tutta sensazioni magari un po’ rozze e colpi di sena taglia fiato, la condizione sociale disumana in cui erano tenuti i tessitori slesiani nel secondo Ottocento; o quando, come in "Old Surehand" ["Manosicura", 1894], riesce a rendere "thrilling", anche per un ragazzo di dieci anni (parliamo per esperienza personale) la conversione in extremis la dannazione eterna di un vecchio ateo e peccatore, Old Wabble, dando poi un senso di liberazione e di felicità profonda al piccolo lettore che vede realizzarsi la rima alternativa: ebbene, parlare di un Karl May solo evasivo ci pare che non abbia molto senso, o che sia addirittura un addebito buffo, se si pensa a quanti poeti e scrittori, in quegli ani, si rifugiavano nell’evasività totale — magari ad alto livello letterario — di un decadentismo tutto sensazioni, di un solipsismo lirico tanto squisito quanto privo di agganci col reale.
Ci sembra, dunque, che Chiusano abbia messo proprio il dito sulla piaga: è stata soprattutto la tensione religiosa e morale, presente nelle opere di Karl May, a irritare la critica progressista e politically correct, ieri come oggi: quella critica che preferisce il sadismo, il nichilismo e la pornografia di libri come Il profumo di Patrick Süskind, o La pianista di Elfiede Jelinek, però rigorosamente laici e "moderni", a opere dalle quali traspaia un afflato spirituale, specialmente se si tratta di opere per la gioventù, perché questo contrasta con il sogno della cultura dominante, di sradicare, una volta per tute, qualunque spiritualità e qualsiasi sentimento religioso dalla società moderna, per sostituirli con il relativismo, l’indifferentismo e, tutt’al più, con una sorta di mistico e vago panteismo spacciato per "trascendenza", ma che tale non è, perché del senso della trascendenza gli manca il requisito essenziale: la coscienza della piccolezza dell’uomo e, quindi, la sua umiltà davanti al mistero del reale, il suo stupore, la gratitudine e la lode verso Dio.
A questa antipatia originaria, si aggiungono, nel caso di Karl May, i pregiudizi della critica ufficiale nei confronti di un genere come la letteratura per ragazzi, da sempre guardata con sufficienza e, ultimamente, sostituita da una letteratura giovanilistica che non solo ha completamente archiviato l’idea di educare i giovani tramite la letteratura, ma che, al contrario, scende ammiccando verso i gusti più banali e spersonalizzati di una certa fascia adolescenziale letteralmente incretinita da pubblicità, televisione, consumismo, tecnologia informatica, e del tutto inconsapevole di sé e del mondo, ma, in compenso, resa straordinariamente presuntuosa e arrogante dall’illusione di aver capito tutto, di sapere ogni cosa e di non aver più nulla da imparare, specialmente dagli adulti. La narrativa di Karl May, al contrario, non ha mai perso di vista la necessità di educare i giovani attraverso le forme del romanzo d’avventura; cioè, come avrebbe detto il Manzoni, di avere l’utile per scopo, il vero per soggetto — o, in questo caso, diciamo il verosimile, quando non il fantastico — e l’interessante per mezzo. E magari ce ne fossero ancora, oggi, di scrittori per ragazzi come lui…!
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels