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14 Settembre 2016In uno dei suoi libri più importanti, più profondi e, probabilmente, più sofferti, Timore e tremore, Sören Kierkegaard delinea due caratteristici tipi umani che lui stesso, nel proprio movimento esistenziale, stava sperimentando: il cavaliere della fede e il cavaliere dell’infinito. Il protagonista del libro è Abramo, e precisamente l’Abramo che, ormai vecchio, ed essendo ormai vecchia anche Sara, sua moglie, ha visto compiersi la promessa di Dio con la nascita del sospirato figlio Isacco, garanzia della sua futura discendenza, ma riceve ancora da Dio il comando di recarsi sul monte Moria, per sacrificargli proprio Isacco. Abramo, pur sconvolto sino in fondo all’anima, obbedisce: ancora non sa che Dio vuole solo metterlo alla prova, non sa esattamente cosa succederà, anzi, lo ignora del tutto; eppure sa che Dio non fa nulla per il male, non si rimangia le Sue promesse, non gode dell’ingiustizia e del dolore degli uomini, e quindi spera. Spera, pur obbedendo; spera, pur tenendosi pronto ad eseguire l’ordine: spera contro ogni speranza, spera ciò che è assurdo sperare: che, da quella giornata memorabile, verrà un gran bene, una felicità mai provata. E sperare una cosa simile, in quelle circostanze, sembra pura follia.
Kierkegaard parla di Abramo, ma pensa a se stesso. Quando pubblica Timore e tremore, nel 1843, la sua storia d’amore con Regina Olsen, il suo fidanzamento, il suo progetto di matrimonio, sono finiti da un paio d’anni: non solo egli ha rotto il fidanzamento, attirandosi il risentimento del padre di lei e di tutta la sua famiglia, ma ha anche fatto di tutto per apparire cinico e spregevole, in modo da estinguere in Regina qualunque rimpianto nei suoi confronti, e renderle più facile il distacco. È difficile immaginare che un uomo possa essersi inflitto una sofferenza più grande di questa, una più dolorosa auto-umiliazione, allo scopo di proteggere colei che amava dalla sofferenza derivante dalla sua decisione di lasciarla. Sembra una vicenda uscita dalle pagine di un libro antico, di un dramma greco o, magari, shakespeariano, e non una storia moderna, avvenuta quasi sotto i riflettori delle "gazzette" (cioè della stampa malignamente pettegola), per usare l’espressione dello stesso Kierkegaard.
Per tutta la vita egli avrebbe portato con sé sia il rimorso di aver fatto soffrire Regina, sia il rimpianto di aver rinunciato al suo amore. Per tutta la vita, ostinatamente, assurdamente — o, almeno, quasi sino alla fine — egli avrebbe continuato a sperare nel miracolo, nell’assurdo, come il cavaliere della fede: il quale spera contro ogni speranza, come Mosè; spera che Dio gli renderà merito della sua giustizia, della sua fedeltà, e lo renderà felice non solo nell’altra vita, ma anche in questa. Solo negli ultimi anni, come pare, Kierkegaard si rese conto che non sarebbe andata così, che aveva perduto regina per sempre. Lei, dopo qualche tempo, si era fidanzata e sposata con un altro, il quale venne poi nominato governatore delle Indie Occidentali danesi. Allorché, nel marzo del 1855, si apprestava a partire con la moglie, questa volle rivedere il suo ex fidanzato per l’ultima volta: donna sposata, sfidò le convenzioni e i pettegolezzi per incontrarlo in mezzo alla via, e per sussurrargli: Dio ti benedica! Che ti possa andare tutto bene! Non si sarebbero mai più rivisti in questa vita: lei sarebbe partita e lui sarebbe morto pochi mesi dopo, prima della fine dell’anno, dopo essere crollato per la strada e aver speso quasi tutto il suo piccolo patrimonio per finanziare la sua battaglia editoriale contro il filisteismo e l’ipocrisia della Chiesa luterana danese, da lui accusata di aver tradito il Vangelo.
Negli ultimi anni, dunque, Kierkegaard aveva elaborato una nuova figura di uomo religioso, il cavaliere dell’infinito: colui che ha compreso che la rinuncia alla felicità terrena è definitiva, e che ciò a cui si rinuncia in questa vita, per offrirlo a Dio, non viene ritrovato se non nell’altra. Kierkegaard aveva compreso che Regina non gli sarebbe stata restituita e che la sua decisione di lasciarla — per ragioni misteriose e mai chiarite del tutto, ma certo non banalmente egoistiche — era irrevocabile. Per dirla con il vecchio Plauto: factum infectum fieri nequit, ciò che è avvenuto, è immodificabile, e i suoi effetti non si possono rimuovere.
Con l’impareggiabile finezza, non solo filosofica, ma anche psicologica, che lo caratterizza, Kierkegaard scandaglia la differenza essenziale tra il cavaliere della fede e il cavaliere dell’infinito: il primo non ancora rassegnato all’infelicità in questa vita, perché sostenuto dalla sua fede nell’assurdo (nel senso dato da Tertulliano all’espressione: credo quia absurdum), il secondo, invece, consapevole, e perciò rassegnato, ormai totalmente proiettato verso il compimento della promessa ultraterrena di Dio. La differenza consiste nel fatto che il cavaliere della fede compie un doppio movimento, prima verso Dio, poi verso il mondo, pensando che Dio manterrà la sua promessa di felicità anche in questa vita; il cavaliere dell’infinito ha sciolto i legami e respinto le ultime illusioni, o tentazioni, e non si aggrappa più alle cose del mondo, ma è rivolto unicamente a Dio, pertanto il suo movimento è semplice e diretto, è un’ascesa verso l’Assoluto.
Ora, la domanda che ci poniamo è la seguente: aveva ragione Kierkegaard? Aveva ragione a pensare che, se ci si vuol mettere al servizio della verità, bisogna rinunciare per sempre a ogni speranza di essere felici in questa vita? Non esiste alcuna mediazione possibile fra la felicità in questa vita e la pienezza che sarà riservata nell’altra, a coloro che hanno rinunciato a tutto, anche alle cose più care, anche a se stessi, per testimoniare la verità? Il filosofo danese parlava della "via della croce" e della "via della gloria" e vedeva in Abramo l’uomo che, compiendo il doppio movimento dal mondo a Dio e da Dio al mondo, aveva realizzato in se stesso la promessa di felicità fattagli da Dio, e ciò contro tutte le speranze. Ma il caso di Abramo è stato unico e irripetibile? Oppure dobbiamo rinunciare a qualunque idea di penetrare i disegni di Dio, e di riuscire a comprendere perché alcuni uomini, che a Lui hanno donato tutto, soffrono e paiono soccombere in questa vita, come del resto è accaduto al Cristo, mentre altri vengono ricompensati fin da ora, e ritrovano le cose alle quali avevano rinunciato? Che cosa può aspettarsi che gli accada, colui che si mette a disposizione della chiamata, e rinuncia alle gioie terrene, anche le più legittime — sposarsi, avere dei figli – per fare di sé uno strumento del disegno di Dio?
Abbiamo conosciuto personalmente un ragazzo che pareva il cavaliere della fede descritto da Kierkegaard. La sua fede era grande, non solo in Dio, ma nella verità e nella giustizia; senza assumere pose e senza darsi arie, anzi, sempre con semplicità e modestia, egli era fedele alla propria chiamata: non accettava mai compromessi, rifiutava tutte le facili occasioni, mondane e professionali, e coltivava in silenzio i doni ricevuti da Dio — l’intelligenza, la sensibilità, la volontà — per essere sempre al servizio della verità. Era incapace di dire una bugia, di recitare una parte, di indossare una maschera; aveva perso molte amicizie e alcune ghiotte occasioni di avanzamento per rimanere fedele a se stesso, per non sporcarsi con azioni meno che trasparenti. La sua sincerità lo aveva portato a una serie di incomprensioni; il suo candore non gli aveva risparmiato delle grosse delusioni. Era diventato un amante della solitudine, ma non si era inasprito, non ancora. Sapeva guardare agli altri con simpatia, non provava invidia per il successo o la felicità altrui, né rimpiangeva le scelte fatte, o recriminava sulle occasioni perdute.
Un giorno incontrò una ragazza e sentì, quasi subito, che quella era la donna che gli era stata riservata da sempre, l’unica che avrebbe potuto amare senza riserve, e alla quale avrebbe potuto e voluto donarsi interamente. Le sue intenzioni erano pure, della purezza immacolata dei cavalieri antichi: rispettando il pudore di lei, avrebbe voluto sposarla e creare una famiglia fondata sull’amore e sulla fedeltà. A quel sogno rimase tenacemente attaccato, per diversi anni, affrontando difficoltà sempre maggiori, perché lei, pur amandolo e pur dichiarando che non avrebbe mai accettato l’amore di alcun altro, non si sentiva capace di affrontare le responsabilità dell’essere sposa e madre, e, dopo lunghe sofferenze di entrambi, decise che non vi era alcun futuro per loro, e volle lasciarlo libero. I casi della vita, poi, li divisero; si persero di vista e non ebbero più alcun contatto, nemmeno indiretto; persino le fotografie erano state restituite, e nulla, tranne poche lettere, restava a testimoniare che un grande amore era sorto fra loro, che esso aveva lottato strenuamente per sopravvivere, e che infine era stato lentamente soffocato, con rammarico di entrambi, lasciando un vuoto enorme dietro di sé.
Quasi trenta anni dopo, abbiamo incontrato di nuovo quel ragazzo, diventato frattanto un uomo, e un uomo non più giovane. Strano a dirsi, fisicamente è cambiato poco, benché la sua vita sia stata tutt’altro che facile. Inutile dire quel che era accaduto in tutto quel tempo; diremo solo che egli non ha mai scordato colei che avrebbe dovuto essere la sua sposa. Benché provato da numerose esperienze dolorose, rese ancor più acute dalla sua indole estremamente sensibile, e benché avesse visto sfumare la cosa umanamente per lui più preziosa, non si è avvilito: solo, un velo di profonda malinconia gli è sceso sullo sguardo, e, nei suoi gesti, si può percepire talvolta un che di faticoso, come se trascinasse sulle spalle un’intima pena di cui non parla con alcuno. Non siamo riusciti a capire se egli appartiene al genere dei cavalieri della fede o a quello dei cavalieri dell’infinito: se abbia serbato una qualche, folle speranza, in fondo all’anima, di ritrovare la donna amata, di cui nel frattempo ha peso completamente le tracce, o se vi abbia rinunciato per sempre, almeno in questa vita. Parlando con lui, ci siamo resi conto che, per certi aspetti, è assai cambiato, ma tuttavia, nel profondo, è rimasto lo stesso di allora: uguali la sua purezza, la sua ricerca di assoluto, la sua semplicità, il suo rifiuto dei compromessi, la sua intransigenza a livello morale, la fedeltà ai valori nei quali crede con fede immutata. È una delle poche persone che, riviste a distanza di moltissimo tempo, trasmettono l’idea di una notevole evoluzione interiore, ma, contemporaneamente, di una fondamentale fedeltà al proprio progetto esistenziale.
Il destino ha voluto che si verificasse un fatto strano: circa nello stesso periodo, ci è accaduto d’incontrare anche lei, la quale, nel frattempo, era andata a vivere in un’altra città; e questo duplice incontro, del quale essi non sanno niente, in due luoghi diversi, ci è parso quasi un segno del cielo. Forse noi, che eravamo stati testimoni di quella delicata storia d’amore, nella quale due anime pure avevano posto tutte se stesse, senza riuscire a realizzare il loro desiderio di una vita felice insieme, siamo stati chiamati a giocare un qualche ruolo nella vita futura di quelle due persone, per le quali avevamo sempre provato una forte, istintiva simpatia. La loro delicatezza d’animo, diciamo pure la loro bontà, che pure si esplicava in maniera diversa, ce li aveva resi subito familiari, colpendoci piacevolmente, specie per il vivo contrato con la mediocrità o con l’egoismo sempre più diffusi nelle relazioni umane, al punto da sembrare quasi la normalità. Avendo visto con quanta premura e con quanta nobiltà si erano voluti bene, e assai rattristati dal mancato lieto fine della loro relazione, ci domandiamo adesso se abbiamo il diritto, o magari il dovere, d’informarli che noi sappiamo, ora, per averli incontrati separatamente, quanto siano rimasti immutati i loro profondi sentimenti l’uno verso l’altra, pur dopo tanti anni, e dopo che le loro vite hanno preso strade completamente differenti. Non abbiamo il diritto di parlare del loro stato personale; diciamo solo che esistono altre persone le quali verrebbero coinvolte, in qualche modo, dai possibili effetti della nostra rivelazione. Perciò siamo rimasti a lungo incerti sul da farsi, ponderando i pro e i contro, sia di quel che potremmo dire, sia del nostro eventuale silenzio; il che ci ricorda una convinzione già da lungo tempo maturata: che non esiste una maniera di essere neutrali di fronte alla vita, perché sia l’agire, sia l’astenersi dall’agire, sono entrambe scelte gravide di conseguenze.
Ebbene, in quell’imbarazzo siamo ancora adesso, e non ci siamo risolti a fare nulla. L’affetto verso quelle due care persone ci spingerebbe a dire loro quel che sappiamo, favorendo, così, un loro incontro; ma ci trattiene il timore delle possibili conseguenze. I romanzieri e i drammaturghi non hanno tali scrupoli: quando mettono in scena le vicende dei loro eroi, al contrario, si compiacciono di colpi di scena, separazioni, agnizioni: ma ciò avviene perché hanno nelle loro mani la vita e la morte, il veleno e l’antidoto, e possono, volendolo, raddrizzare le vie storte e premiare gli afflitti quando meno essi lo sperano. In fondo, uno scrittore è come un piccolo dio. Qui, però, ci troviamo di fronte a una storia vera, non a un romanzo. Per sciogliere il dilemma, dovremmo avere la fede perfetta di Abramo, il quale non esitò a prendere con sé il giovinetto Isacco e a salire con lui lungo i ripidi sentieri del monte Moria. Abramo non esitò: egli seppe cosa doveva fare: fidarsi totalmente dei progetti di Dio e della Sua promessa, anche se le due cose parevano in contrasto. Quando, però, si conserva un certo grado di attaccamento alle realtà terrene, non si può fare a meno di chiedersi se i buoni non abbiano diritto a un poco di felicità anche in questa vita. Ancora più difficile rispondere per gli altri. Come si può esser certi di fare ciò ch’è giusto, se lo sguardo non è perfettamente terso?
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