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5 Aprile 2022Emil Cioran: un maestro o uno dei tanti intellettuali confusi del XX secolo? Qual è la sua lezione? Che cosa ha da insegnare agli uomini d’oggi e all’uomo di sempre? Perché questo si domanda, da che mondo è mondo, a un vero maestro: che indichi la strada; che sappia mostrare agli uomini stanchi e disorientati la giusta direzione da seguire, e soprattutto una meta verso la quale valga la pena di avanzare. Ci eravamo già confrontati più volte con questo saggista e aforista che passa per un acuto filosofo (vedi i nostri articoli: Santità e rifiuto di procreare nella riflessione tendenziosa di E. M. Cioran, sul sito di Arianna Editrice il 10/04/13 e su quello dell’Accademia Nuova Italia il 12/01/18; L’odissea del rancore, per Cioran, è l’inferno della storia chiusa in se stessa, rispettivamente l’11/07/08 e il 17/11/17; e Il male oscuro della modernità è la tentazione di non esistere, il 10/01/10 e il 12/08/17).
Recentemente un saggio capitatoci fra le mani, benché non recentissimo, ci ha offerto — sia pure involontariamente, stando alla palese intenzione dell’autore — la giusta chiave di lettura per sistemare in maniera ordinata e coerente le precedenti osservazioni. Ricche di spunti di riflessioni, anche se nella prospettiva di un’ammirazione acritica nei confronti di Cioran, ci sono parse infatti le pagine scritte da Antonio Castronuovo in Ritratti critici di contemporanei. Emil Michel Cioran (su: Belfagor. Rassegna di varia umanità, Firenze, Casa Editrice Leo S. Olschki, n. del 30 settembre 2002, pp. 570-572):
Incomprensibile è Cioran senza abbracciare in un comune sguardo il pensiero e l’insonnia. Sullo stato di malattia egli nutre un’idea decisiva: che solo l’esperienza della sventura conferisce spessore all’esistenza, e che dunque la persona sana delude sempre. Un’idea in certo modo confermata da un assunto di natura fisiologica: «Che cos’è il dolore? Un sensazione che non vuole cancellarsi, una sensazione AMBIZIOSA» ("squartamento", 93); e da uno di natura ontologica: «Non è Dio, è il Dolore a godere dei vantaggi dell’ubiquità» ("Sillogismo del amarezza", 82). Dove appunto il dolore è trattato con una maiuscola, perché fiutato come forza generativa: ogni uomo ha un punto debole, e da quello soprattutto trae le residue energie Sappiamo che Cioran soffriva sin dalla giovane età di una forma ribelle di insonnia: l’esistenza gli aveva fatto dono di un disturbo che lo accompagnò gentilmente fino alla morte. E ben più che energie residue, dall’insonnia egli trasse un mondo di smisurata irruenza: si trasfigurò, grazie alla malattia, in una creatura i cui attribuiti difficilmente si potrebbero elencare meglio di quanto fa lui stesso: «Una idolatria del dubbio, un dubitatore in ebollizione, un dubitatore in "trance", un fanatico senza culto, un eroe dell’ondeggiamento» ("Squartamento", 96).
L’esperienza della malattia fu qualcosa di immane: «Prima di conoscere l’insonnia ero una persona quasi normale. Per me è stata una rivelazione… Quando ho perduto il sonno mi sono reso conto di come esso sia una cosa straordinaria. Perché la vita è sopportabile solo grazie al sonno. Ogni mattina inizi una nuova avventura o la stessa avventura, ma con un’interruzione. L’insonnia è una rivelazione straordinaria perché sopprime l’incoscienza. Passi ventiquattro ore al giorno in uno stato di lucidità, cosa che eccede la capacità di sopportazione dell’essere umano […]. Ora, questo esige sia un sacrificio sia una forza aggressiva, perché sei in conflitto con tutto il mondo, con tutto il mondo che dorme. E non puoi più considerarti come un uomo, dal momento che gli altri vivono nell’incoscienza. E da qui l’orgoglio, l’orgoglio della catastrofe: non avere il destino degli altri ("Luoghi ritrovati", 4-5).
L’orgoglio della lotta perduta sul nascere e tutto l’immenso carico della catastrofe annunciata: ecco ciò che l’insonnia gli donò; e se un dono può riempire di sé l’esistenza di un uomo, alla fine non lascia tanto spazio ai tentativi di felicità e fa di lui uno scettico radicale, di quelli in cui il vuoto e il nulla si palpano come fossero creta molle. Soffrire seriamente d’insonnia equivale all’obbligo di passare un’intera giornata di lucidità ininterrotta, e ciò si riflette inevitabilmente sulle pagine di Cioran, nelle quali non si trova via di scampo dalla furia. Il doversi inesorabilmente porre di continuo domande è infatti un buon modo per conquistare — dopo quello assoluto di se stessi — il disprezzo di tutto il resto.
Furia e lucidità: da cosa possono scaturire in una prosa questi caratteri se non da una personale "epopea dell’insonne"? Insonnia equivale a perenne coscienza, a veglia senza fine, nella quale le cose scorrono come sul filo di un rasoio e inevitabilmente si dissanguano. È imbarazzante notare che in Cioran è una precisa patologia a condurre alla massima lucidità, e — una volta intriso di cultura francese — come egli abbia coltivato l’illuminazione nel suo pertinente significato: qualcosa che rischiara la mente e nel contempo la devasta, proprio come per i Lumi di settecentesca memoria, idonei a scatenare sogni e malumori. Le sue preferenze sono dichiarate: l’età delle caverne e il secolo dei Lumi, la prima sfociata nella storia e il secondo nella ghigliottina. La lucidità donata dall’insonnia è solo il primo gradino di una serie ascendente, che sale all’ironia, allo scetticismo e infine all’anatema: ecco a cosa può giungere una condizione di chiarezza. Come anche può giungere a far emergere una contraddizione insanabile: sebbene l’opera di Cioran sia una frenetica requisitoria contro la forma della civiltà di quella forma egli accoglie l’irrimediabilità: è inevitabile che l’uomo — lucidamente – convenga sulla bassezza sua e del mondo in cui vive.
Ora, se in assoluto non è imputabile a un uomo la colpa di non amare il mondo così com’è, a Cioran lo è ancor meno, data la necessità di contemplarlo sotto il punto di vista della persona che soffre. Chi a suo modo è fisicamente limitato ha infatti un vantaggio rispetto a chi è sano: possiede un diritto di ascolto. E il modello dell’umanesimo di Cioran – nutrire una repulsione ed esprimerla — diventa così qualcosa di tetragono. Non basta: nella lucidità dell’insonne è implicita l’inutilità di guarire, per cui Cioran applica un’arte della diagnosi più che della terapia. Ma l’insonnia fa ancor di più ed egli, nell’eccesso di coscienza, giunge ad affermare che anche la condizione di essere nati è revocabile in dubbio. L’insonnia gli dona la qualità di rilevare il nulla, e di accorgersi che è nulla anche la coscienza del nulla. E se ciò è vero, allora nemmeno vale la pena che qualcosa sia pensato: Cioran è nel vicolo cieco di dover per forza vedere il nulla, averne coscienza e moltiplicarne in questo modo l’evidenza.
Ancora qualcosa deriva dalla pratica della lucidità: il rovesciamento della diffusa idea che la follia contenga un sapere arcano. Cioran dimostra invece che a dare la vera vertigine è la massima lucidità, la pratica costante dell’attenzione, l’assenza di follia, la chiarezza dello sguardo. Tutto questo solamente se al fondo c’è l’ironia, la costante disgregazione dei dogmi, della loro apologia, la dimostrazione della loro inconsistenza mediante una parola negativa che ne sveli la fragilità. L’enfasi si allontana dalla frase di Cioran quando se ne coglie la sottostante ironia, grazie alla quale viene svelato anche un altro timbro: la certezza che dalle sue pagine non ci si salva, che bisogna entrarvi con la duplice disposizione del discepolo che desidera apprendere e di colui che sa di uscirne contuso.
Questo brano di prosa ci è parso utilissimo per penetrare nel mondo di Cioran con la giusta chiave di lettura, a condizione che si capovolga la prospettiva e si considerino le cose dal punto di vista diametralmente opposto a quello adottato da Castronuovo, il quale evidentemente considera Cioran un maestro, di più, un vate il cui merito superlativo consiste nell’aver gettato uno sguardo lucido e disincantato sul nulla della condizione umana. Il che è tipico della prospettiva gnostica, per la quale il mondo è cattivo, e delle sue inevitabili conclusioni nichiliste: meglio sarebbe non esser mai nati (Leopardi e Schopenhauer), ma, posto che ci si trovi in mezzo, meglio affidarsi a una guida che ce ne mostri tutta la vacuità, distruggendo ogni residua illusione. Ma — questa è la domanda che importa – davvero noi abbiamo bisogno di simili maestri? Davvero l’uomo contemporaneo, già confuso, angosciato e disperato, ha bisogno di farsi indicare la strada da codesti rabdomanti del nulla, da codesti acrobati e funamboli dell’assurdo, come lo è anche Jean-Paul Sartre e come lo sono tutti gli esistenzialisti?
Il perfetto compendio del pensiero di Cioran e l’analisi delle sue motivazioni ci permettono di entrare subito in medias res. Si parte da una duplice affermazione, per metà vera e per metà falsa: solo l’esperienza della sventura conferisce spessore all’esistenza, e dunque la persona sana delude sempre. Il primo enunciato è vero e condivisibile: chi non soffre non ha capito nulla della vita (ma si dovrebbe aggiungere: poiché tutti soffrono, il vero discrimine non è fra chi soffre e chi non soffre, ma fra chi mediante la sofferenza ha maturato l’autocoscienza e chi no). Per cui sarebbe più esatto dire: chi ha capito qualcosa della vita è passato attraverso la matura esperienza del soffrire; ma ciò non implica che tutti quelli che soffrono ne hanno tratto un valido insegnamento e hanno capito più cose degli altri. Il secondo enunciato invece è decisamente falso: che la persona sana delude sempre. Bisogna vedere cosa s’intende per ‘sano’ e cosa s’intende per ‘delusione’. Abbiamo l’impressione che Cioran, da cattivo filosofo, tenda effettivamente a far confusione fra salute (fisica) e sanità (mentale e spirituale). La persona sana, nel senso di esser capace di vivere nella giusta relazione con se stessa, con il prossimo e con Dio, non delude affatto, anzi incontrarla è, per gli altri, una benedizione. Qui c’è un residuo del mito romantico del grande infelice come grande iniziato al mistero del reale. La persona malata, che non sa uscire dalla propria malattia né sa trovare un equilibrio a dispetto, o appunto grazie, alla sofferenza, cosa che evidentemente non è la stessa cosa di ‘malattia’, non è una persona che ha capito più cose degli altri e che pertanto può insegnare un sapere superiore: è un poveraccio che non ha saputo neppure servirsi della propria esperienza per innalzarsi al di sopra della sofferenza/malattia e almeno sforzarsi d’intravedere il cielo azzurro che si spalanca al di sopra delle nuvole basse. La malattia è l’equivalente di un cielo chiuso, basso e nuvoloso: il passare attraverso di essa e vincere la sfida che ci pone è l’equivalente d’innalzarsi sopra le nubi e scorgere il sole.
È un movimento che perfino Nietzsche, con tutti suoi pregiudizi illuministi e antimetafisici, ha saputo vedere ben chiaro; ragion per cui Nietzsche sì, se usato con intelligenza, è un maestro che ha molto da insegnare, anche al di là di quelle che sono le sue intenzioni; mentre Cioran non si eleva d’un millimetro al i sopra dell’umanità comune, che giace al fondo della propria malattia e recita l’eterna parte del malato incurabile e inconsolabile. Sì, c’è molta enfasi, molto melodramma e molto vittimismo nell’atteggiamento di Cioran; è come se dicesse: vedete? Io che ho molto sofferto, e soffro costantemente, ho imparato; e ora voi mi dovete ascoltare. Proprio così: mi dovete ascoltare. E dice benissimo Castronuovo, allorché scrive testualmente: Chi a suo modo è fisicamente limitato ha infatti un vantaggio rispetto a chi è sano: possiede un diritto di ascolto. Chiaro, no? Chi soffre, ha diritto a una tribuna privilegiata, e gli altri devono considerarsi suoi devoti e fortunatissimi discepoli: cosa sarebbero mai, senza di lui? Ciò ricorda qualcosa: ricorda chi, nella storia, rivendica una posizione privilegiata, uno speciale diritto di tribuna, in virtù del fatto che lui stesso, o i suoi genitori, o i suoi avi, o il suo gruppo, o i suoi correligionari, hanno sofferto. Gli altri, le persone comuni, sono colpevoli: quanto meno di non aver sofferto in egual misura, e forse di qualcosa di ancor peggiore: di essere arcanamente responsabili della sofferenza delle vittime, se non altro per la loro indifferenza (vera o presunta) verso di essa. Ed ecco il perfetto rovesciamento del normale stato di cose: il sofferente, carico di rancore verso il mondo, pretende un posto sul pulpito dal quale ammaestrare l’umanità; i sani, invece, vile plebe inconsapevole, se non glielo riconoscono senz’altro e non si prostrano dinanzi alle sue ‘verità’, sono degl’ingrati, degl’imbecilli e, forse, dei colpevoli veri e propri.
Da dove viene fuori il rancore? Dalla delusione verso la vita. Lo gnostico è un sognatore che è rimasto deluso dalla realtà; il nichilista è un rancoroso che prende il fucile per fare giustizia di chi gli ha sottratto i suoi bellissimi sogni. Non ha capito che i sogni più belli sono quelli che vivono per sempre, che ci accompagnano fino alla tomba e che nessuna forza al mondo ci potrà mai strappare, se noi non vi acconsentiamo. Furia e lucidità: da cosa possono scaturire in una prosa questi caratteri se non da una personale "epopea dell’insonne"?, si chiede il nostro. Se non che la furia non è il marchio del genio che ha compreso tutto, ma il segno dell’uomo debole che ha imparato solamente a odiare la realtà che non gli piace; e quanto all’epopea dell’insonne, non è una definizione un po’ ridicola? Va bene che da Cervantes in poi siamo abituati a vedere l’eroe moderno come una figura ridicola: e Dostoevskij aveva colto benissimo questo aspetto della modernità (si veda L’idiota in particolare, ma anche Il sogno di un uomo ridicolo; e si vedano molti personaggi di Gogol’). E tuttavia, c’è pure un limite a tutto: in cosa consisterebbe l’epos dell’insonne? Nel fatto di non riuscire a dormire? San Paolo, afflitto da un malanno fisico imprecisato, ma di certo non meno grave, si è tenuto la sua spina nella carne e ne ha fatto un trampolino verso le altezze, verso Dio: vedi la Seconda lettera ai Corinzi, 7-10):
7 Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. 8 A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. 9 Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. 10 Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.
Ma san Paolo appartiene alla razza dei giganti, Cioran alla razza dei nani: uomini piccoli che scambiano i loro casi particolari per il centro dell’universo e che giudicano che l’essere fa schifo perché la loro vita li ha delusi. Come Leopardi, come Schopenhauer, come tanti personaggi di Pirandello, di Svevo, di Kafka, di Becket, eccetera.
Ma il passaggio veramente decisivo nella psicologia (o nella pseudo epopea) dell’insonne è quello evidenziato da Cioran in prima persona: Ora, questo esige sia un sacrificio sia una forza aggressiva, perché sei in conflitto con tutto il mondo, con tutto il mondo che dorme. E non puoi più considerarti come un uomo, dal momento che gli altri vivono nell’incoscienza. E da qui l’orgoglio, l’orgoglio della catastrofe: non avere il destino degli altri. Ma perché mai l’insonnia dovrebbe esigere, di per sé, un sacrificio? Come tutte le sofferenze, non esige un bel nulla: offre la possibilità, a colui che la patisce, di maledirla o di servirsene come di una scala per salire verso il cielo, per trascendere se stesso, per giungere a un’autentica empatia con il prossimo. E invece che uso ne fa Cioran? La morale che egli trae dalla sofferenza è che il sofferente non può non essere in confitto con tutto il mondo, "colpevole", quest’ultimo, di dormire la notte, e dunque di non soffrire quanto lui. Qui l’autoreferenzialità tocca il vertice sublime del radicale solipsismo: soffro dunque sono, e il mondo si deve inginocchiare davanti a me. Esito sconcertante, ma in fondo logico e consequenziale, del soggettivismo cartesiano: se la realtà è ordinata a partire dalla mia mente, dalla mia mente che dubita e che soffre nelle angustie del dubbio, allora è logico e necessario che si arrivi ad una tale conclusione. Chi è infatti Cioran, secondo la sua stessa definizione? Un idolatra del dubbio; un dubitatore in ebollizione, un dubitatore in "trance", un fanatico senza culto, un eroe dell’ondeggiamento. Un eroe dell’ondeggiamento? Via, basta coi paradossi e i giochi di parole: colui che ondeggia sempre è un ubriaco, non un eroe. Riportiamo il discorso coi piedi per terra e restituiamo alle cose le loro giuste proporzioni. E finiamola con la retorica della sofferenza che dona automaticamente lucidità e una vista più acuta sul reale. Tutto dipende dalla prospettiva da cui ci si pone. Se la prospettiva è quella del mondo moderno, cioè di un mondo pazzo e malato, allora non c’è dubbio che quelli come Cioran sono dei preziosi maestri. Ma se la prospettiva è quella della salute, o per meglio dire della sanità, vista come la condizione cui l’uomo tende naturalmente e che egli può raggiungere, a meno che non vi siano in lui dei vizi organici del corpo o degli errori reiterati della ragione, la cosa è diversa. L’uomo è fatto per la verità e per la felicità, non per il caos e l’impotenza. È fatto per un fine, e ciò gli viene indicato dalla sana ragione naturale: purché sia disposto ad apprendere qualcosa dall’esperienza e non la usi per affinare armi inutili e nocive a lui stesso, dichiarando che tutto è assurdo, inutile e doloroso. Cioran non è un caso filosofico, ma patologico: uno dei tanti. La cattiva influenza dell’illuminismo francese, col mito di una bontà e di una felicità originarie, cui l’uomo ha ‘diritto’, ha fatto il resto. Non lo seguite: vi porterà fuori strada.
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