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Wedekind e teatro satanico fra vitalismo e nichilismo

L’opera del drammaturgo Frank Wedekind (Hannover, 24 luglio 1864-Monaco di Baviera, 9 marzo 1918), fra naturalismo, decadentismo ed espressionismo, offre un esempio diremmo da manuale per illustrare quanto le torbide filosofie di fine Ottocento e primi del Novecento, che imperversarono e la fecero da padrone, specialmente in area mitteleuropea, impregnate di gnosticismo, cabalismo ed hegelismo, e fortemente segnate dal darwinismo sociale, dal vitalismo e da ogni forma possibile d’irrazionalismo ribellistico, individualistico e pessimistico, da Schopenhauer a Eduard von Hartmann, e da Nietzsche a Max Stirner. Senza tralasciare gl’innumerevoli movimenti Wölkisch (a loro volta incardinati sul concetto di Wolksturm, ossia del carattere nazionale), i quali, come altrove abbiamo cercato di mostrare (vedi il nostro recente saggio: I mille volti della gnosi: la religione pagana di Jung) costituirono il rumore di fondo e il denominatore comune d’innumerevoli tendenze ed esperienze culturali di quegli anni, oltre a far da ponte tra la filosofia in senso stretto e il dilagare sotterraneo, o parzialmente mascherato, di pseudo religioni allora assai di moda, come la teosofia e l’antroposofia.

In questo clima assai più eterogeneo, per non dire confuso, e assai più angoscioso e angosciante, per non dire disperato, di quel che in genere ci s’immagina allorché si parla di decadentismo, estetismo, art nouveau e belle époque (la quale di certo bella non fu, anche se tale dovette apparire, retrospettivamente, in confronto all’immane disastro del 194-18 e del dopoguerra), vi fu la parabola scandalosa del teatro drammatico di Frank Wedekind, implacabile nemico dell’ordine borghese, che mise al centro la forza degl’istinti primordiali e quindi, indirettamente, un po’ come Schnitzler, ma in forme assai più veementi e provocatorie, volle mettere a nudo quella dimensione subconscia che giace ben nascosta sotto il mondo dell’educazione, dei valori socialmente accettati e in genere delle buone maniere. Lo fece con veemenza estrema e con la chiara volontà di provocare ed épater les bourgeois, tanto più che aveva intinto la penna nel più velenoso dei calamai: un lungo soggiorno a Parigi, la metropoli di tutti i disordini e tutti gli eccessi, dove egli, tedesco del Nord che si lascia andare all’ebbrezza di un nuovo tipo di vita (come il professor Aschenbach di Morte a Venezia: l’arte che è sempre indietro rispetto alla vita) e frequentò circhi, ballerine, prostitute e divenendo lui stesso un chansonnier.

Enorme fu l’influenza che esercitò sull’avanguardia tedesca, specialmente a Monaco di Baviera, ma un po’ in tutta la Germania e anche fuori di essa. In drammi come Risveglio di primavera, del 1891 (in tre atti), mise in scena l’inquietudine dell’adolescenza parlando apertamente, e in modo intenzionalmente provocatorio, d’ipocrisia educativa, rapporti sessuali fra giovanissimi, gravidanze indesiderate, aborti clandestini e — naturalmente, non poteva mancare — omosessualità, con tanto di due ragazzi che si scambiano il primo bacio sul palcoscenico. In poche parole, fu un drammaturgo che mise i piedi nel piatto, come si dice, della rispettabilità borghese, della decenza e del pudore; in tal senso dobbiamo vedere in lui, al di là delle (supposte) nobili intenzioni di smascherare i filistei, un cattivo, anzi un pessimo maestro. In anticipo di una generazione sui Cocteau e i Genet, ma negli stessi anni di André Gide e Marcel Proust i quali ebbero solo, in fin dei conti, un maggiore riserbo e un’arte più raffinata, ma diffusero la stessa confusione esistenziale e lo stesso relativismo etico, contribuendo, ciascuno a suo modo, a quel crollo spirituale e morale, oltre che intellettuale, che a ben guardare fu il presupposto, e non l’effetto, della catastrofe del 1914 e preparò il terreno ad altre, sempre più gravi aberrazioni.

Non bisogna scambiare gli effetti per le cause. E se l’Europa, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, era pronta per un salto nella barbarie e una discesa nei gorghi infernali dell’auto-dissoluzione (che non fu solo la guerra in se stessa, contro la quale Wedekind si era prontamente schierato, ma tutto il clima malato che la rese possibile e forse inevitabile), ciò lo si deve anche e soprattutto all’opera devastante di molte, troppe intelligenze, non solo di artisti ma anche di filosofi, che si scatenarono nella distruzione delle fondamenta della civiltà, senza minimamente curarsi, anzi senza neppure porsi il problema di ricostruire, né come farlo, con quali materiali, con quali progetti e intenzioni. Il che è proprio dei demoni, più che degli esseri umani: il piacere della distruzione per la distruzione.

A proposito dell’influenza che esercitarono su Wedekind i filosofi nichilisti del suo tempo, specie Eduard von Hartmann e Max Stirner, ma anche Nietzsche, ha osservato il germanista e critico letterario Ferruccio Masini nel saggio Frank Wedekind: uomo del circo e nudità tragica, posto come introduzione al volume: Wedekind, i drammi satanici (titoli originali: Frülings Erwachen, Erdgeist, Die Büchse von Pandora, Marquis von Kaith, traduzione di F. Masini, E. Pocar, C. Rossi Jannone, Bari, De Donato Editore, 1972, pp. XV-XVIII):

Sono proprio gli elementi pessimistici di una smagata e freddamente distaccata "Lebensphilosophie" a costituire — in Wedekind — il reagente scettico ad una mistica della vita così pericolosamente indifferenziata nel suo arsenale di immagini preziosisticamente decadenti o di frasi enfatiche da poter coincidere con una "mistica della potenza", carica di tensioni aggressive e di occulti richiami panteistico-romantici. Come c’informa il più documentato biografo di Wedekind, Artur Kutscher, è possibile che i tramiti di questo pessimismo siano costituiti, oltreché dalle lezioni del professor Uphues, corrispondente epistolare di Eduard von Hartmann e maestro del giovane Frank (il nome Benjamin Franklin rimanda alle simpatie del padre, Friedrich Wilhelm, emigrato a San Francisco dopo la rivoluzione del ’48, per la giovane democrazia americana), dalle opere di un’amica della madre, Olga Plümacher, la "philosophische Tante", autrice di numerosi scritti filosofici d’ispirazione hartmanniana, ma anche immediata di Hasrtmann sulla formazione pessimistica di Wedekind, non a caso chiamato in famiglia ‘der Denker’, sono rilevato da Kutscher in rapporto alle idee di quest’ultimo sull’egoismo, abbastanza radicate già negli anni di Aarau.

Mentre per Hartmann è lo stesso pessimismo a imporre la rinuncia all’egoismo, questo ‘superamento’ non ha luogo in Wedekind che considera l’egoismo incidibile dalla realtà stessa del mondo umano, costituita appunto da un’inarrestabile lotta per la vita. Ma la semplice constatazione della diversa portata del pessimismo wedekindiano non ci dà ancora il necessario chiarimento sull’importanza decisiva che ha nel pensiero e quindi nella poetica drammaturgica di Wedekind il tema dell’egoismo. Le premesse del distacco di Wedekind da Hartmann a questo riguardo si potrebbero forse ritrovare nella critica che nella sua "Philosophie des Unbewussten" (1869) quest’ultimo muove a Max Stirner e precisamente alla sua riconosciuta sovranità dell’Io, concepito — scrive Hartmann — come «Das Stichwort eines universellen Instinktes, des Egoismus». In questa stessa opera ["La filosofia dell’Inconscio"] Hartmann affermava, a proposito del «terzo stadio dell’illusione», che col crescere dell’intelligenza cosciente a misura del progresso cosmico, le illusioni, e quindi quella stessa del godimento egoistico, tendono a vanificarsi con il conseguente aumento della sofferenza, essendo la ricerca filosofica della verità del tutto indifferente al fatto che questa verità soddisfi o meno il giudizio del sentimento ("Gefühlsurtheil") impigliato nell’illusione dell’istinto. Poiché la follia del volere, cui appartiene, per Hartmann, l’egoismo, provoca un eccesso di dolore, l’unico procedimento razionale per estirpare la causa profonda dell’errore e quindi della sofferenza è troncare alle radici quest’autoaffermazione dell’illusione egoistica mediante una negazione del volere, una rinuncia totale al mondo e alla vita. È la negazione della vita la via più agevole – aggiunge Hartmann — per giungere alla negazione di sé ("Selbstverläugnung") e quindi ad una morale, già storicamente espressa nel Cristianesimo e nel Buddismo, in cui si risolve «il valore eroico del pessimismo». Il pessimismo metafisico di Hartmann si oppone dunque all’idea dell’Io (egoismo) esclusivo e onnivalente, nientificandola come momento della coscienza destinato ad essere superato, poiché «l’unica essenza corrispondente all’idea della causa interna della mia attività è qualcosa di non-individuale, l’unico ed esclusivo Inconscio, che corrisponde tanto al’idea che Pietro ha del suo Io, quanto a quella che ne ha Paolo».

È evidente che il pessimismo di Wedekind ha ben poco a che fare cin quello metafisico di Hartmann e non soltanto per la probabile mediazione antischopenhaueriana e quindi anche antiharmanniana di Nietzsche, da cui discende evidentemente il carattere radicale e irrazionalista del pessimismo antimetafisico wedekindiano, ma anche per la riluttanza, propria dell’epoca dello storicismo relativista delle "Lebensphilosophien", a prefigurare una visione totalizzante del processo mondiale come quella di Hartmann, in cui «le finalità dell’Inconscio sono divenute finalità della coscienza», così da assicurare quell’adesione, o meglio quella dedizione del singolo al processo assoluto da cui scaturirà la finale "Welterlösung". Determinante per valutare lo sfondo materialistico-tragico del ‘pessimismo’ wedekindiano in rapporto alla ‘religiosa’ conciliazione metafisica di ottimismo e pessimismo nella prospettiva storico-cosmica di Hartmann è la considerazione del ruolo che per esempio lo stesso Hartmann assegna all’agiatezza economica nella storia dell’umanità civile. Questa "Wohlhabenheit" troverebbe la sua unica utilità nel fatto che le forze una volta destinate a lottare per il soddisfacimento dei bisogni elementari nella lotta per l’esistenza sono ora, grazie a quell’agiatezza, rese libere «per il lavoro dello spirito», con la conseguente benefica accelerazione del processo mondiale.

Processo mondiale che, si badi, per Hartmann reca una sempre maggiore consapevolezza, e quindi avvicina la meta della liberazione dal dolore (quanto buddismo e schopenhauerismo mal digeriti!), vale a dire una sorta di auto-annichilazione cosmica, che avrà luogo allorché il mondo, resosi pienamente conto della vanità del tutto, e anche dell’egoismo e della lotta per la vita, sceglierà, per così dire, di non perpetuare la ruota della sofferenza, ovvero, in altre parole, sceglierà di cessare di esistere.

È evidente che, se il pessimismo radicale di Hartmann può avere esercitato un influsso generico sulla concezione del mondo (Weltanschauung) di Wedekind, e quindi sul suo teatro drammatico, quasi tutto il resto era fatalmente destinato a misurare una distanza incolmabile fra i due: a cominciare dall’idea, in fondo mistica e ascetica, e sia pure d’un misticismo morboso e d’un ascetismo malato, che gli uomini devono spogliarsi del proprio egoismo per godere i benefici della soppressione della volontà di vivere. In questo senso siamo lontanissimi, per non dire agli antipodi, del febbrile vitalismo di Wedekind (che ricorda molte altre forme di vitalismo presenti nelle letterature e nel teatro scandinavi, da Ibsen a Strindberg, ad Hamsun) e che prende le mosse, se non andiamo errati, dalla grande problematica dostoevskiana sul senso dell’esistenza, peraltro offrendo soluzioni che contrastano frontalmente con quella del grande romanziere russo, che vede nel ritorno al cristianesimo e nella redenzione divina dal male la sola speranza di salvezza anche e soprattutto per l’uomo moderno, reso folle dall’orgoglio e dalla hybris (dismisura) causata in lui dallo sviluppo scientifico e tecnico.

Lontanissimo da Hartmann e dal suo pessimismo cosmico, titanico e, a suo modo, religioso (in certo qual modo accostabile a quello leopardiano) è anche il radicale egotismo stirneriano, il quale, senza dubbio, esercitò un’influenza cospicua sulla formazione del mondo wedekindiano, tanto per quanto riguarda il vitalismo, quanto per il nichilismo: i due aspetti del resto essendo profondamente intrecciati e complementari.

Per convincersene è sufficiente rileggersi il paragrafo conclusivo dell’opera maggiore del caposcuola del pensiero anarchico individualista (da: Max Stirner, L’unico e la sua proprietà; titolo originale: Der Einzige und sein Eigentum, Leipzig, 1893; traduzione di L. Marchetto e C. Berto, Bologna, Pàtron Editore, 1982, p. 365):

L’ideale "l’uomo" è REALIZZATO solo se l’intuizione cristiana si trasformerà nella tesi: «Io, questo unico, sono l’uomo». La questione concettuale: «Che cos’è l’uomo?» – si è trasformata in quella personale: «Chi è l’uomo?». Nel "che cosa" si cercava il concetto per realizzarlo; nel "chi" non c’è più alcuna questione, ma la risposta è data in modo personale già da colui che interroga: la risposta a quella domanda viene da sé.

Si dice di dio: «Non ci sono nomi per definirti». Ciò vale per me stesso: nessun CONCETTO esprime l’essere me stesso, nessuna cosa che sembra essere la mia essenza esaurisce l’essere me stesso; sono solo nomi. Si dice inoltre di dio che è perfetto e che non ha alcuna vocazione di aspirare alla perfezione. Anche questo vale per me.

Io sono PROPRIETARIO della mia forza, e lo sono quando so di essere UNICO. Nell’UNICO il proprietario ritorna nel suo nulla creatore, dal quale è nato. Ogni essere sopra di me, sia dio, sia l’uomo, indebolisce il senso della mia unicità e impallidisce al sole di questa coscienza. Se io ripongo la mia causa su me stesso, l’unico, essa poggia sul passeggero e mortale creatore di sé, il quale consuma se stesso, e io posso dire:

Io ho riposto la mia causa su nulla [«auf Nichts» e non «auf das Nichts», cioè "sul nulla"].

Questo è il canto di morte della civiltà europea.

La stessa che, nel momento del suo massimo vigore (e del massimo amore per la vita) aveva eretto, con l’opera monumentale di san Tommaso d’Aquino, l’edificio possente e mirabile di una metafisica dell’essere destinata a durare per secoli.

Mentre l’anti-metafisica del nulla di Stirner e Wedekind, per la sua stessa natura fondamentalmente sterile e auto-distruttiva, non poteva che estinguersi da sé stessa nello spazio di alcune generazioni d’uomini sempre più soli e disperati, perseguitati senza tregua dai fantasmi di cento rimpianti e di cento rimorsi.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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