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Factum infectum fieri nequit
12 Settembre 2016Il romanzo The Sea Chase dello scrittore e saggista statunitense Andrew Geer (nato il 6 aprile del 1905 nel Minnesota e morto il 22 dicembre 1957, a cinquantadue anni d’età, nella città di San Rafael, in California, quando stava per diventare abbastanza famoso proprio per merito di esso), rappresenta un caso abbastanza emblematico degli strani meccanismi che sorgono, nella cultura americana, a causa dell’intreccio fra letteratura e cinema.Geer aveva già scritto diversi libri, quasi tutti di argomento marinaresco, fra i quali il saggio storico Nagasaki, del 1951; ma fu solo nel 1955, con The Sea Chase (traducibile con Caccia sul mare), che egli parve sfondare, perché Hollywood trovò molto buono il soggetto e il regista John Farrow fu incaricato dalla Warner Bros Pictures di ricavarne un film, cosa ch’egli fece a tamburo battente, in quello stesso anno, girandolo fra le Hawaii e Sydney, in Australia, con un budget che fu stimato attorno ai 6 milioni di dollari. Il film ottenne un discreto successo nelle sale, visto anche che metteva in batteria due star del calibro di John Wayne e Lana Turner, pur se non convinse del tutto la critica, o almeno quella più sofisticata e superciliosa; ma gli ingredienti per piacere al pubblico, senza peraltro indulgere nelle banali "americanate" o nelle solite scene spettacolari di cartapesta, c’erano tutti, a cominciare dalla bravura dei protagonisti. La sceneggiatura venne firmata da James Warner Bellah e da John Twist; e bisogna dire che essi, in omaggio ai desideri della produzione e alle esigenze del pubblico cinematografico, apportarono delle modifiche sostanziali alla trama del romanzo.
I titolo italiano, come spesso succedeva e succede, venne modificato in maniera da renderlo più chiaro e più appetibile ad un pubblico di bocca buona, e così divenne Gli amanti dei cinque mari, sottolineando l’aspetto erotico e avventuroso, ma a discapito di quello drammatico e guerresco; e tale fu anche il titolo che ebbe la traduzione italiana del romanzo, curata da Francesco de Rosa e messa sul mercato dalle Edizioni A. P. E. — Corticelli di Milano, sempre nel fatidico 195. Il libro sfruttava il relativo successo del film, infatti la sopracoperta era illustrata da un fotogramma che mostrava Wayne e la Turner abbracciati, con le fronde di una palma o d’un altro albero tropicale sullo sfondo, quale suggerimento esotico (qualora il berretto da marinaio dell’attore statunitense non fosse stato abbastanza esplicito). Non ci risulta che sia stato ristampato, a testimonianza di un successo di vendite che si esaurì al primo impallidire del ricordo del film.
La versione cinematografica narra la storia di un capitano di mare tedesco, Karl Erhlich, che, giunto a Sydney con la sua nave mercantile Ergenstrasse, viene informato dalla sua ambasciata che sta per scoppiare la Seconda guerra mondiale e deve assolutamente evitare che essa cada nelle mani del nemico, se necessario autoaffondandola. Ma Erhlich non è tipo da gettare la spugna, salpa col favore della notte, beffando il nemico, e riesce ad attraversare tutta l’immensa distesa dell’Oceano Pacifico, fino a Valparaiso, sfuggendo al tenace inseguimento della nave da guerra britannica Rockhampton, del capitano Jeffrey Napier, già suo amico e sincero ammiratore, divenuto adesso suo implacabile nemico. La ragione di tanto accanimento sta nel fatto che con Erhlich è partita anche la spia tedesca Elsa Keller, già fidanzata dell’ignaro ufficiale inglese e ora speranzosa di rientrare in Germania, la quale, quasi subito, s’innamora del capitano tedesco; e inoltre nel fatto che, durante una sosta per rifornirsi alle isole Auckland, un ufficiale d’idee naziste della Ergenstrasse ha ucciso tre inermi pescatori, poi ritrovati da Napier, all’insaputa di Erhlich, il quale, però, viene ritenuto il mandante del delitto, finalizzato a eliminare i pericolosi testimoni del suo passaggio.
Davanti alle coste del Sud America Napier riesce a raggiungere i fuggitivi, ma viene richiamato sul Rio de La Plata per partecipare alle operazioni contro la corazzata tascabile Graf von Spee, imbottigliata nel porto di Montevideo; più tardi, intuendo le intenzioni di Erhlich, si porta nell’Atlantico settentrionale, al largo della Norvegia, per attenderlo al varco, nel momento decisivo in cui tenterà di raggiungere le acque territoriali tedesche. E così avviene: dopo mille peripezie, la sfortunata nave viene affondata e il comandante Erhlich perisce con essa; ma il recupero del libro di bordo dimostrerà – troppo tardi – la sua estraneità al delitto delle Auckland, perché, dopo esserne venuto a conoscenza, egli aveva costretto il suo sottoposto a firmare una dichiarazione in cui si narrava come realmente s’erano svolti i fatti. Erhlich ormai è morto, ma il suo vecchio amico e rivale, Napier, può ritrovare, nei suoi confronti, quel rispetto cavalleresco che sempre aveva avuto. La storia funziona, il ritmo è buono, anche se qualcuno ha trovato che ci siano dei tempi morti o delle cadute di tensione; in effetti, il regista doveva contemperare le esigenze di tre o quattro generi diversi. Il giudizio del critico Massimo Bertarelli (su Il Giornale del 3/09/01) è piuttosto tranchant: Zoppicante film di guerra, né carne né pesce, nonostante il mare zeppo di battibecchi amorosi e vendette sottocoperta. Un John Wayne di inedita nazionalità tedesca e con fascinoso berretto a visiera, tratta con la medesima durezza la ciurma e la seducente fatalona cotta di lui.
Noi non siamo altrettanto severi; il film è godibile, e, come già detto — cosa che non è da poco — privo dei facili espedienti hollywoodiani per portare sopra le righe un film di guerra, amore e avventura. Tuttavia, non è del film che vogliamo parlare, ma del libro: del romanzo da cui il film è stato tratto, ma che lo ha messo completamente in ombra. La storia narrata da Geer coincide con quella diretta da John Farrow solo nelle linee generali: la vigilia della guerra durante la sosta dell’Ergenstrasse a Sydney e l’audace, spericolata fuga della nave tedesca attraverso il Pacifico e l’Atlantico, fino al compiersi del suo tragico destino, quando ormai è quasi giunta in vista della salvezza. Nel film, il principale antagonista di Erhlich è Napier, il suo ex amico inglese; nel romanzo, è Kirschner, il suo secondo ufficiale, e, pertanto, la tensione si sposta tutta a bordo della nave tedesca. I due uomini sono rivali, fra le altre cose, per la bella avventuriera, che, nel romanzo, dopo essere stata l’amante del capitano, "passa" al suo ufficiale; il quale, per fierezza, si guarda bene dal fare il benché minimo tentativo di riconquistarla. In entrambe le versioni, comunque, emerge che la principale preoccupazione di Erhlich è condurre a buon fine la sua missione: sottrarre la nave alla cattura e riportarla in patria, sana e salva. Nel film, però, l’aspetto sentimentale si affianca prepotentemente a quello marinaresco; nel romanzo, è quest’ultimo a tenere costantemente concentrata su di sé l’attenzione del lettore, anche perché il capitano si prefigge di riottenere il grado perduto appunto compiendo una impresa tanto audace, come riportare la nave in Germania.
Il comandante Erhlich, come appare nelle pagine del romanzo, è un uomo eccezionale nella sua relativa normalità: potremmo definirlo, facendo eco a Vasco Pratolini, un eroe del nostro tempo, nel senso che incarna un tratto caratteristico della psicologia degli uomini contemporanei: la lucida, ostinata, eroica ma folle disperazione. Karl Ehrlich è, letteralmente, un demone dei mari: ottimo comandante di navi, e stimato, per questo, anche dal nemico, conosce tutti i trucchi del mestiere, ha un carattere di ferro, una volontà indomabile, un patriottismo a tutta prova (ma non fanatico, né odioso); è, inoltre, un uomo intelligente, pieno di esperienza e di risorse, buon conoscitore d’uomini, straordinario improvvisatore di escamotages: duro fino alla crudeltà, egli è, a dispetto di tutto, il comandante che ogni marinaio vorrebbe avere, se viaggiasse su di una nave inseguita dai nemici e con pochissime speranze di farla franca e rivedere mai la patria lontana. In lui, novello Ulisse, non c’è la più piccola sfumatura di debolezza: è fatto d’acciaio, nervi, muscoli e cervello, non sente il sonno e la stanchezza, è capace di restare in cabina di comando per giorni e notti senza concedersi il lusso di qualche ora di riposo: si direbbe una perfetta, incredibile macchina da guerra. Conosce tutti i porti, tutte le isole, tutte le maree, tutti i pericoli e tutti gli elementi a favore, i venti, le correnti: la sua mente febbrile è sempre desta, lucida, guardinga, come un cane da fiuto.
Il problema principale è quello del carburante. Per alimentare le caldaie, serve combustibile: in mancanza di carbone, va bene anche il legname; ed eco allora tutto l’equipaggio messo a tagliare alberi su di un’isola deserta, con un ritmo massacrante, senza misericordia per alcuno, fino allo sfinimento; Erhlich non è uomo da impietosirsi per nulla e per nessuno, tanto meno per se stesso: è un fascio di nervi proteso verso la meta, e ha giurato a se stesso che nulla, tranne la morte, riuscirà a fermarlo o a ostacolarlo seriamente. E non bisogna credere che sia solo un capitano esperto delle cose del mare, e di nient’altro: dai suoi discorsi, fatti quando il tempo e le circostanze lo permettono, emerge la personalità di un uomo dalle idee chiare, dai punti di vista originali, dalle intuizioni penetranti, sia che si parli di politica internazionale, sia che si parli del carattere dei popoli e delle nazioni ch’egli conosce, per aver soggiornato presso di essi. La sua opinione sul futuro degli Stati Uniti d’America è molto pessimistica: egli non stima gli americani, e non li crede capaci di reggere a lungo nel ruolo di grande potenza mondiale; e qui è quasi impossibile capire se Geer abbia voluto renderlo particolarmente antipatico al suo pubblico, o se, magari, abbia voluto affidare alle labbra di un tedesco delle idee che erano sue, ma che sarebbe stato troppo scomodo esprimere in prima persona.
I sentimenti che prova il lettore nei confronti di Ehrlich sono complessi e contraddittori. Egli non è il solito eroe positivo, questo è certo; e non solo, o non tanto, perché è un tedesco, cioè un nemico, ma soprattutto perché, pur se si può provare rispetto per il suo amor di patria e il suo attaccamento al dovere, riesce impossibile identificarsi del tutto con la sua missione e simpatizzare intimamente con la sua persona. C’è qualcosa, in lui, che respinge. È troppo duro, troppo freddo e severo con tutti e anche con se stesso, quasi disumano: non si aspetta nulla da nessuno, non dà niente per scontato e per dovuto, è pronto a lottare strenuamente per conquistarsi anche il più piccolo vantaggio. Egli vede la vita come una incessante partita a scacchi e possiede sia la freddezza, sia l’intelligenza per giocarla sino in fondo, senza mai concedersi la minima distrazione: anche se la vita, in questo modo, diventa un deserto. Pur nutrendo un profondo rancore verso il suo sottoposto che osa sfidarlo, e un intimo disprezzo per la donna che lo ha lasciato per un altro, non permette mai alle proprie passioni di offuscare la sua lucidità, di spingerlo a iniziative avventate: possiede un autocontrollo eccezionale, sembra una creatura venuta da un altro mondo, non un uomo con le sue naturali debolezze. Eppure, nello stesso tempo, i suoi pensieri e i suoi sentimenti sono piuttosto comuni: né la sua intelligenza, né la sua fantasia, né la sua volontà lo spingono fuori dal solco di una esistenza qualsiasi, di un qualsiasi comandante di navi mercantili. È solo l’eccezionalità della guerra che mette in risalto l’eccezionalità della sua tempra, e renderà eccezionale il suo destino.
Ma il tratto più caratteristico di Erhlich è l’assenza di compassione, d’indulgenza e anche di umana debolezza. Tratta chiunque, compreso se stesso, anzi, se stesso prima di tutti, con una durezza impressionante: si direbbe che, per lui, nella vita non esista un solo istante, un solo luogo, per quanto remoto, nel quale sia possibile godere di una tregua, abbandonarsi, sognare: pensa, sente e agisce come se il mondo fosse un campo di battaglia e come se noi vi fossimo incessantemente impegnati, senza poterci aspettare pietà da nessuno. Egli non chiede sconti, non si lamenta, non si aspetta niente, se non quello che è in grado di pretendere, e di ottenere, grazie al suo sforzo personale. È convinto che, nella vita, anche la più minuscola briciola di bene, di sicurezza, di protezione, la si debba pagare in contanti, fino all’ultimo centesimo. Anche l’amore, per lui, conta poco: quando Elsa, la donna sensuale, ma cinica e volubile, lo pianta per puntare su un altro cavallo, lui certamente ne soffre, ma non lascia trasparire nulla di quel che prova; pensa, del resto, che la passione per una donna — parlare di amore sarebbe un romanticismo fuori luogo — rappresenterebbe un fardello e un ingombro, che lo distrarrebbe dalla durissima prova che si è imposto.
In questo, ci sembra che egli sia davvero un eroe del nostro tempo: nell’inaridimento interiore, nella durezza che usa anche con se stesso, nella totale sfiducia verso gli altri. È un eroe tragico, ma un eroe a metà: per esserlo del tutto, gli manca la vera grandezza, che viene solo dal sentire sino in fondo, in misura pienamente umana, il peso delle prove e la fatica del dovere. Egli possiede un codice di valori assai severo, ma non si capisce bene a che serva avere dei valori, se, poi, non si ama niente e nessuno — a parte il proprio dovere. Comunque, il romanzo di Andrew Geer, totalmente snobbato dalla critica e ormai dimenticato anche nella sua patria, è un libro ben concepito e ben scritto, che si legge tutto d’un fiato; e il capitano Erhlich è un antieroe di cui non ci si scorda facilmente. Un antieroe nel quale riconosciamo la nostra stessa lotta impossibile contro il Nulla…
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