
L’ideologia gnostico-edonista, gender compreso, sogna di oltraggiare la natura perché la odia
18 Agosto 2016
Guai ai pastori che si sono dimostrati pastori di se stessi!
20 Agosto 2016Il cristianesimo ha distrutto l’eros o, peggio, come sosteneva Nietzsche, reprimendolo, lo ha corrotto, facendolo degenerare in vizio? È una vecchia domanda, posta, in particolare, dalla cultura positivista europea di fine Ottocento, ma già contenuta, in nuce, nel libertinismo del XVII secolo e, a maggior ragione, nell’illuminismo del secolo successivo. Dunque: avevano ragione i libertini, gl’illuministi, Nietzsche e i positivisti? È fondata, è giusta, o, quanto meno, possiede un fondo di verità, una simile accusa? Prima di rispondere, bisogna avere ben chiaro cosa fosse l’eros nella cultura greca (e romana); e bisogna avere, ancor più chiaro, che l’eros non era la sola forma di amore, quantunque fosse quella maggiormente conosciuta e praticata dagli antichi, tanto è vero che spetta al cristianesimo il merito, se è tale — e, a nostro avviso, lo è certamente — di avere, se non scoperto, certo valorizzato al massimo un’altra forma di amore, che i Greci conoscevano, ma consideravano poco: l’agape. C’era qualcosa di brutale nella concezione antica dell’eros, così come c’era molta brutalità nella concezione della famiglia, della guerra, dei rapporti sociali. In famiglia, il padre aveva diritto di vita e di morte sui figli appena nati: si pensi ai bambini spartani che venivano gettati dal Monte Taigeto se giudicati inidonei, malati o malformati. Nella guerra, non c’era alcuna pietà per il nemico vinto: si pensi al contegno dei guerrieri greci, così come è descritto da Omero nell’Iliade; ma si pensi anche alla orrenda ecatombe di gladiatori nel Circo Massimo di Roma, che erano, poi, in gran parte, dei prigionieri di guerra sacrificati per il divertimento del popolino. Nei rapporti sociali, gli schiavi, ad esempio, appartenevano ad una umanità inferiore, o forse non erano neppure considerati appartenenti al genere umano; nessuna legge, nessuna umana compassione li proteggeva dalle sevizie dei padroni: dopo la sconfitta della loro ribellione sotto la guida di Spartaco, 6.000 di essi vennero crocifissi lungo la strada fra Capua e Roma. E così nell’eros: era una attrazione di corpi, una ginnastica, una lotta di corpi, senza alcun rispetto per la persona: corpi ridotti a mero strumento di piacere. E si leggano le satire di Giovenale, o anche quelle di Marziale, per farsene un’idea; per tacere delle poesie di Orazio, le più spietate, forse, specie nei riguardi della donna, nelle quali non v’è nulla, assolutamente nulla, che ingentilisca l’atto sessuale o che nobiliti la figura femminile, degradata, anzi, al rango di una vecchia sporcacciona, le cui voglie insaziabili suscitano solamente il riso e un amaro, implacabile disprezzo. Chi legga l’ottavo epodo del "mite" e "distaccato" Orazio, per esempio, ne ritrae (pur tenendo conto degli intenti satirici e parodistici dell’opera) che il mondo romano non conoscesse la passione amorosa, se non come una forma di abbrutimento, degradazione e di furiosa, atroce profanazione del corpo.
Ma ci piace svolgere la nostra riflessione dopo aver riletto, non senza soddisfazione, una bella pagina di Joseph Ratzinger, quando già era divenuto papa Benedetto XVI, che è contenuta nella sua enciclica Deus Caritas est, pubblicata il 25 dicembre 2005, ricorrenza del santo Natale, ma annunciata nell’udienza generale del 18 gennaio 2006 (§§ 2-4):
Ricordiamo in primo luogo il vasto campo semantico della parola "amore": si parla dell’amor di patria, di amore per la professione, di amore tra amici, di amore per il lavoro, di amore tra genitori e figli, tra fratelli e familiari, dell’amore per il prossimo e dell’amore per Dio. In tutta questa molteplicità di significati, però, l’amore tra uomo e donna, nel quale corpo e anima concorrono inscindibilmente e all’essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge come archetipo di amore per eccellenza, al cui confronto, a prima vista, tutti gi altri tipi di amore sbiadiscono. Sorge allora la domanda: tutte queste forme di amore alla fine si unificano e l’amore, pur in tutta la diversità delle sue manifestazioni, in ultima istanza è uno solo, o invece utilizziamo una medesima parola per indicare realtà totalmente diverse?
All’amore tra uomo e donna, che non nasce al pensare e dal volere ma in certo qual modo s’impone all’essere umano, l’antica Grecia ha dati il nome di "eros". Diciamo già in anticipo che l’Antico Testamento greco usa solo due volte la parola "eros", mentre il Nuovo Testamento non la usa mai: delle tre parole greche relative all’amore — "eros", "philia" (amore di amicizia) e "agape" — gli scritti neotestamentari privilegiano l’ultima, che nel linguaggio greco era piuttosto messa ai margini. Quanto all’amore di amicizia ("philia") esso viene ripreso e approfondito nel Vangelo di Giovanni per esprimere il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli. La messa in disparte della parola "eros", insieme alla nuova visione dell’amore che si esprime attraverso la parola "agape", denota indubbiamente nella novità del cristianesimo qualcosa di essenziale, proprio riguardo alla comprensione dell’amore. Nella critica al cristianesimo che si è sviluppata con crescente radicalità a partire dall’illuminismo, questa novità è stata valutata in modo assolutamente negativo. Il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche, avrebbe dato da bere del veleno all’"eros", che, pur non morendone, ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in vizio. Con ciò il filosofo tedesco esprimeva una percezione molto diffusa: la Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita? Non innalza forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino?
Ma è veramente così? Il cristianesimo ha davvero distrutto l’"eros"? Guardiamo al mondo pre-cristiano. I Greci- senz’altro in analogia con altre culture — hanno visto nell’"eros" innanzitutto l’ebbrezza, la sopraffazione della ragione da parte di una "pazzia divina"che strappa l’uomo alla limitatezza della sua esistenza e, in questo essere sconvolto da una potenza divina, gli fa sperimentare la più alta beatitudine. Tutte le altre potenze tra il cielo e la terra appaiono, così, d’importanza secondaria: "Omnia vincit amor", afferma Virgilio nelle "Bucoliche" — l’amore vince tutto — e aggiunge: "Et nos cedamus amori" — cediamo anche noi all’amore (X, 69). Nelle religioni questo atteggiamento si è tradotto nei culti della fertilità, ai quali appartiene la prostituzione "sacra" che fioriva in molti templi. L’"eros" venne quindi celebrato come forza divina, come comunione col Divino.
A questa forma di religione, che contrasta come fortissima tentazione con la fede nell’unico Dio, l’Antico Testamento si è opposta con massima fermezza, combattendola come perversione della religiosità. Con ciò però non ha per nulla rifiutato l’"eros" come tale, ma ha dichiarato guerra al suo stravolgimento distruttore, poiché la falsa divinizzazione dell’"eros", che qui avviene, lo priva della sua dignità, lo disumanizza. Infatti, nel tempio, le prostitute che devono donar e’ebbrezza del Divino, non vengono trattate come esseri umani e persone, ma servono soltanto come strumenti per suscitare la "pazzia divina": in realtà, esse non sono dee, ma persone umane di cui si abusa. Per questo l’"eros" ebbro ed indisciplinato non è ascesa, "estasi" verso il Divino, ma caduta, degradazione dell’uomo. Così risulta evidente che l’"eros" ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare all’uomo non il piacere di un istante, ma un certo pregustamento del vertice del’esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende.
Spetta al cristianesimo, dunque, il grandissimo merito di avere innalzato di un gradino la concezione dell’amore rispetto a quella propria della cultura antica; di averlo portato sul piano della generosità gratuita, del sentimento disinteressato, che nulla chiede in cambio per se stesso ed è pronto ad affrontare i sacrifici più grandi, compresa la vita stessa, per il bene della persona amata. E d’aver fatto sì che l’incontro felice fra uomo e donna non fosse più visto solo come un brutale congiungimento di corpi, ma come una unione di anime. Il mondo antico non era giunto a una tale concezione dell’amore; o meglio, alcuni vi erano giunti episodicamente, e nutrivano sentimenti del genere nei riguardi di poche persone o di un’unica persona, ma sarebbero stati incapaci di comprendere che si possa amare così il prossimo in generale, e che tale è la maniera giusta di porsi nei confronti del prossimo. Del resto, neppure l’idea di "prossimo" era nota ai Greci o ai Romani; semmai, essi nutrivano, o potevano nutrire, dei sentimenti di solidarietà e simpatia verso i membri della propria famiglia, del proprio clan o, tutt’al più, della loro città: sempre escludendo gli stranieri, le donne, gli schiavi, eccetera. Se, poi, ci si domanda come mai la civiltà classica, che ha raggiunto vette così nobili e alte nei campi più disparati, non è riuscita, nel suo complesso, a elaborare una concezione dell’amore superiore a quella della semplice passione, per giunta in una prospettiva sovente brutale, non si tarda a convincersi che ciò dipende dal fatto che essa non arrivò mai a sviluppare un alto concetto della donna: tanto è vero che, per un greco o un romano, innamorarsi di una donna era considerato pazzia, qualche cosa che suscitava pietà e commiserazione, e che era ritenuto indegno di un vero uomo. L’amore autentico, infatti — e qui si entra nelle stanze brutte della civiltà classica — era riservato agli uomini per gli altri uomini; meglio ancora, per i ragazzi. E non c’è bisogno di citare gli innumerevoli passi dei maggiori poeti e pensatori greci per confermare la giustezza di questa affermazione, perché la cosa non è affatto ignota a chi abbia anche solo una modesta conoscenza delle lettere classiche, anche se i professori di liceo preferiscono scivolarvi sopra, quando capita loro di sfiorare l’argomento con i loro studenti. O, almeno, così facevano sino a qualche tempo fa; perché oggi, nel clima prevalente della nostra società, può darsi che le cose siano cambiate, e che la malizia infernale di una certa ideologia spinga i professori a cercare e commentare proprio quei tali passi, magari per soggiungere quanto siamo fortunati ad esserci liberati da certi "pregiudizi" cristiani e ad aver ritrovato la naturalezza e l’armonia con le quali i greci vivevano l’eros.
Anche in questo caso, è al cristianesimo che spetta l’immenso merito di avere rivalutato la dignità della donna, di averne innalzato la considerazione agli occhi dell’uomo e di se stessa, di averne fatto una vera compagna dell’uomo, e non solo la madre dei suoi figli e la responsabile delle faccende domestiche. E tale rivalutazione è riferibile, in misura essenziale, alla figura della Madonna. Senza la venerazione nei confronti della Vergine Maria, non ci sarebbe stato il superamento del disprezzo verso la donna, che anche la cultura ebraica, pur così diversa da quella greca, in buona sostanza condivideva. Permettendo a un gruppo di donne, fra le quali era sua Madre, di accompagnarlo, Gesù ha contribuito più di chiunque altro a elevare il concetto della donna nella mentalità del suo tempo e in quella dei tempi successivi: parlando con esse, perfino con le straniere e le impure (la samaritana, l’emorroissa, l’adultera), Gesù ha creato un fatto nuovo, senza ritorno: la donna, nella società cristiana, per quanto socialmente sottomessa, non è mai ritornata ai livelli di brutale noncuranza in cui era tenuta prima; ed è significativo che la cosiddetta cultura femminista non abbia mai avuto l’onestà intellettuale di riconoscere questo fatto, preferendo concentrarsi su ciò che il cristianesimo avrebbe tolto alla donna, e ignorando quel che le ha dato: in primo luogo, un più alto concetto di se stessa. Il Magnificat di Maria è un inno stupendo alla dignità di una donna umilissima, prediletta da Dio fra tutte le creature. Fra parentesi, che Gesù risorto sia apparso per primo alle donne, è un importante elemento a favore della veridicità dei Vangeli: se il loro intento fosse stato truffaldino, avrebbero mai scelto di affidare a delle donne, socialmente disprezzate e giuridicamente considerate testimoni senza valore, il racconto del fatto più importante del Vangelo, senza il quale — come afferma san Paolo — la speranza cristiana sarebbe vana, e tutto il resto cadrebbe?
Ma, dice a questo punto la cultura moderna, femminismo compreso, assegnando alle donne un modello così alto e così puro, asessuato, come la figura della Vergine Maria, il cristianesimo ha fatto loro un dono avvelenato: ha negato, mentre le innalzava, la loro femminilità. Rispondiamo che bisogna vedere cosa si intende per femminilità. Se si intende che la donna deve indulgere agli aspetti inferiori della sua natura, che deve perennemente atteggiarsi a seduttrice insaziabile, ed esasperare il desiderio brutale dell’uomo, peraltro senza concedersi, o concedendosi solo alle sue condizioni, allora sì, bisogna ammettere che il cristianesimo ha combattuto questa idea della donna. Se per femminilità si intende, invece, la quintessenza delle sue qualità migliori, derivanti dal suo istinto materno e dalla sua delicata sensibilità, allora no, il cristianesimo non solo non l’ha avvilita, ma l’ha messa al centro della società, incominciando dalla famiglia.
Pertanto, alla domanda se il cristianesimo abbia distrutto l’eros, possiamo rispondere di no, che lo ha trasformato, lo ha innalzato e trasfigurato, assegnando sia all’uomo che alla donna una dignità più alta; e al loro incontro, un significato ineffabile, che guarda non al contingente, ma all’eterno. Grazie al cristianesimo, la verità dell’incontro fra uomo e donna s’è innalzata fino al trono di Dio…
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