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Un’escursione nella buia foresta apre uno squarcio sulla nostra vita interiore

Il lago più meridionale del mondo porta un nome italiano: è il Lagno Fagnano, scoperto soltanto nel 1892, e dedicato al missionario salesiano monsignor Giuseppe Fagnano, piemontese, dal 1883 prefetto apostolico della Patagonia meridionale, nato a Rocchetta Tanaro, in provincia di Asti, il 9 marzo 1944 e morto a Santiago del Cile il 18 settembre 1916, ma sepolto, su richiesta dei suoi parrocchiani, nella chiesa principale di Punta Arenas, sullo Stretto di Magellano.

Non si tratta di un piccolo lago: è lungo circa 100 km. e largo 6, profondo 200 m. e con una superficie di 645 kmq., vale a dire quasi il doppio del Lago di Garda; ricorda molto il Loch Ness, in Scozia, per la forma lunghissima e stretta, tipica dei bacini che occupano una valle fra due sistemi montuosi, anche se non ha un mostro acquatico con il quale attrarre stuoli di turisti e di curiosi, ed è molto più grande (il Loch Ness è lungo 37 km., largo uno e mezzo ed ha una superficie di appena 65 kmq.).

Pur sprovvisto di attrazioni soprannaturali, il Lago Fagnano – che è il più meridionale del mondo perché si trova nella sezione australe della terra (non ghiacciata) più meridionale del globo, l’Isola Grande della Terra del Fuoco, a 54°34′ di latitudine Sud e 68°13′ di longitudine Ovest – possiede nondimeno un suo fascino arcano, vagamente inquietante, specie se il viaggiatore si interna nelle fittissime foreste di faggi australi (Nothofagus) che lo attorniano, così selvagge e intricate che il sottobosco non riceve mai i raggi del sole e l’acqua ruscella dalle foglie per i frequenti acquazzoni, inzuppando il terreno molle, già ingombro di tronchi abbattuti e rivestiti di muschi e licheni, attorno ai quali crescono rigogliose le felci. Per trovare un paesaggio simile bisogna andare quasi all’altra estremità del globo, sempre nell’emisfero meridionale, nella regione sud-occidentale della Nuova Zelanda, caratterizzata da condizioni abbastanza simili di piovosità, temperatura e venti prevalenti occidentali, anche se posta a circa 10 gradi di latitudine più a nord e perciò caratterizzata da un paesaggio vegetale meno "antartico".

I monti circostanti non sono alti, ma imponenti, e, a causa della latitudine, incappucciati di nevi e ricchi di ghiacciai, che in moltissimi luoghi della Terra del Fuoco scendono maestosi fino alla superficie del mare, nelle cui acque s’immergono con riflessi variopinti; sicché si crea un fantastico contrasto fra l’esuberanza quasi subtropicale della vegetazione e la solennità alpina delle vette solitamente incappucciate da una pesante coltre di nubi temporalesche, perché le giornate di sole, quaggiù, sono piuttosto rare perfino nella bella stagione (che va dalla fine di settembre a marzo, perché le stagioni sono rovesciate). Il lago si insinua profondamente fra la Sierra de Beauvoir a Nord e la Sierra Valdivieso a Sud ed è, per la massima parte, nella sezione argentina dell’isola; alla sezione cilena appartiene solo l’estremità occidentale. Da questo lato esce il solo emissario del lago, il Rio Azopardo, che sfocia nel non lontano Golfo dell’Ammiragliato,m che è una diramazione sud-orientale dello Stretto di Magellano.

In questi boschi tenebrosi, che solo in parte hanno conosciuto la distruttiva presenza dell’uomo, sotto forma di incendi per fare spazio ai pascoli, e di tagli sistematici per l’industria del legno (che fa capo alla città di Ushuaia, sul Canale di Beagle, il centro abitato più australe del mondo, a parte Puerto Williams, situata di fronte ad essa, sull’isola Navarino), non si aggiravano neppure gli antichi abitanti dell’arcipelago: né gli Yaghan e gli Alakaluf, che, essendo popoli canoeros, vivevano di pesca e non si allontanavano mai dalla costa e dalle isole; né i fieri ed imponenti Ona, il ramo più meridionale dei Teuelche o Patagoni, che inseguivano, a piedi, i branchi di guanachi, nelle pianure orientali dell’Isola Grande, e ben difficilmente s’internavano nell’intrico contorto di alberi vivi e morti e di festoni di piante epifite delle foreste pluviali.

Il solo vantaggio che ci si procura addentrandosi nel buio della foresta è quello di sottrarsi alla furia grandissima dei venti prevalenti d’Occidente, che soffiano in continuazione dalle vastità del Pacifico meridionale e che hanno una forza tale da piegare il trono dei faggi più possenti; ma, all’interno, la notte si soffre il tormento delle zanzare, mentre la sola voce amica che risuona, e appare quasi incongrua in un luogo così meridionale, è quella di un pappagallo (il Conurus magellanicus) che vive quaggiù, quasi fosse un ospite smarrito delle foreste tropicali che si estendono a migliaia di chilometro di distanza, in direzione settentrionale.

Un altro notevole missionario italiano, anch’egli salesiano, che di monsignor Giuseppe Fagnano fu collaboratore e ammiratore, ma che fu anche un grande studioso e un valente geografo, Alberto Maria De Agostini (nato a Pollone, un piccolo paese in provincia di Biella, il 2 novembre 1883 e morto a Torino il 25 dicembre 1960), ha dedicato gran parte della sua vita a evangelizzare questi luoghi e a studiarne la geografia e la geologia, la vegetazione, la fauna, le popolazioni; ci piace riportare, da uno dei suoi libri più importanti, questa bella e suggestiva descrizione della fitta foresta magellanica che attornia il grande Lago Fagnano, descrizione che permetterà al lettore di apprezzare le rare doti di scrittura di questo sacerdote-scienziato che fu anche un autentico poeta della natura (da: A. M. De Agostini, Trent’anni nella Terra del Fuoco, Torino, Società Editrice Internazionale, 1955, pp. 102-104):

Il fiume, dopo una estesa curva nel mezzo della valle, si addossa alle ripide falde delle montagne del NO fra gole e dirupi, aprendosi il varco sotto una fittissima vegetazione di faggi. Cerchiamo con diligenza e con ansia qua e là lungo le sponde un tronco di albero caduto, che ci faccia da ponte naturale, ma non ci è dato di trovarlo. Per non sciupare del tempo prezioso in queste inutili ricerche lungo le enormi spirali del fiume, decidiamo di proseguire direttamente verso il sud attraverso la foresta e dentro le cupe gole dei monti, nella speranza che il fiume ci presenti in alcuni de’ suoi ripiegamenti il guado desiderato. La foresta, dentro la quale siamo così penetrati, è delle più folte e cupe ch’io avessi fino allora osservato, e incute nel’animo un vago senso di timore. Avanziamo con grande difficoltà, vedendoci intercettato il cammino da enormi cataste di alberi, abbattuti dalle valanghe, in via di putrefazione, ricoperti di vischiosi muschi, sopra i quali il piede sdrucciola o mal si regge in equilibrio, con il pesante fardello che grava sulle nostre spalle. Un’altra vegetazione più giovane e vigorosa è sorta sulle spoglie di quegli antichi padri della foresta, i cui resti servono ancora ad alimentare ed accrescere la vita dei figli. La poca luce che penetra in quei solitari recessi dà un aspetto così lugubre e sinistro al paesaggio, da sembrarci precipitati nelle misteriose foreste delle favole, popolate di streghe e di folletti. E negli strani nostri abbigliamenti da viaggio, a passo rapido e silenzioso nella cupa penombra della foresta, possiamo offrire davvero un motivo affascinante e suggestivo per un quadro di anime vaganti in un regno d’oltre tomba.

Sentiamo la necessità di uscir presto da quella tenebra opprimente, ma invano cerchiamo nei vani della foresta un poco di luce, un pezzo di cielo che ci consoli e ci rianimi.

Per quanto camminiamo con passo svelto, il dover seguire le capricciose volute del fiume e lo scendere e il salire profondi burroni ci impedisce di avanzare rapidamente come vorremmo, e ogni passo di più in cerca del guado liberatore è una nuova delusione.

Sbuchiamo al fine della foresta in un’estesa prateria,m dove possiamo con nostra gioia contemplare un lembo di cielo, dal quale il sole, già per tramontare, indora le altissime vette che chiudono a sud la valle Betbeder. Sfortunatamente questa pianura, che noi credevamo venisse ad agevolare il nostro cammino, è in gran parte inondata d’acqua e porta ancor vive le tracce di recenti alluvioni del fiume straripato nella stagione primaverile.

Le erbe altissime ci impediscono di vedere dove posiamo il piede, per cui sprofondiamo spesso nelle fangose acque fino al ginocchio. Al termine di quella "vega" rivediamo nuovamente le acque del fiume, , sulle cui sponde sono ammonticchiate, sconvolte, cataste di tronchi e di rami, spinti colà dalla violenza delle acque straripanti. La giornata è al termine; non senza rammarico sentiamo la necessità di doverci accampare ancor assai lontano dal colle che ci eravamo prefissi di raggiungere quel giorno stesso. Non erano valse per questo la perseveranza e la gran vigoria d’animo con cui avevamo superato ostacoli imprevisto, su di un terreno oltremodo accidentato e faticoso; ma ci sorreggeva la fiducia di oltrepassare quella meta il giorno seguente.

Alle sei interrompiamo il viaggio ed attendiamo sulle erbose sponde del fiume, al limitare della foresta (metri 200). Poco tempo impieghiamo nella cena, dopo la quale accendiamo un gran fuoco con tronchi secchi estratti dalla foresta, per far asciugare i nostri abiti e la nostra biancheria, inzuppati dalle acque dei pantani e dal nostro copioso sudore.

Contempliamo intanto il suggestivo aspetto dei monti che da ogni lato ci attorniano a modo di anfiteatro e le cui sommità ancora risplendono in delicate sfumature roseo-dorate per gli ultimi bagliori del sole che muore.

Nella valle profonda le ombre vanno acquistando di intensità e risalgono gradatamente i pendii, si inerpicano lungo le parti verticali, e coi loro freddi amplessi mutano il sorriso languido delle eccelse sommità in un impassibile sguardo di mistero. Sulla volta azzurra del cielo, allora spogliatosi dei tenui vapori che lo velavano, migliaia di stelle, fra cui si distingue nettissima la croce del Sud, brillano attraverso un’atmosfera cristallina, come se avessero palpiti di vita.

Il fuoco da noi acceso rimanda all’intorno bagliori rossastri, che vanno a poco a poco spegnendosi languidamente e spiccano misteriosamente nella intensa oscurità della notte. In nessun’altra occasione l’uomo comprende con altrettanta evidenza l’angolo remoto del mondo in cui si trova.

Quantunque le nostre membra siano stanche per quella marcia forzata, che ha messo a così dura prova i nostri muscoli, il sonno stenta a sopravvenire. Un silenzio di sepolcro regna intorno a noi. Con l’avanzarsi della notte si comincia a percepire in lontananza, ad ondate, il mormorio delle acque del fiume. Sembravano voci misteriose che uscissero dal seno della terra, sembrava un colloquio di anime spasimanti colà richiamate ad un segreto convegno. Ma d’un tratto tutto taceva, quindi più lontano e più sommesso ripigliava l’arcano concento, mutato ora come in un canto melodioso, in una soave preghiera, che ascendeva e dileguava negli spazi infiniti del cielo.

A brevi intervalli altri suoni secchi e repentini si sprigionavano dai sacri penetrali della foresta, ora squillanti ora sommessi, che mi destavano dal primo torpore del sonno e mi facevano tendere l’orecchio con l’animo irrequieto, come se la foresta fosse invasa da esseri misteriosi che si avvicinassero con tutta cautela. Non era che illusione ed effetto della suggestione dell’ora e del luogo così solenne e solitario. Rimessomi a riposo, ripigliavano più distinti ti suoni e le voci misteriose, cui venivano ad unirsi i rauchi gridi di uccellacci notturni, e seguitava ininterrotto l’arcano dialogo fra le acque del fiume e la foresta, che forse per la prima volta un essere umano ascoltava.

In quelle alternative di sussulti e di strane paure passai qualche tempo, finché mi assopii profondamente, e solo mi destai al mattino, sotto la violenta scossa di alcune raffiche di vento, che ruppero il profondo silenzio della foresta e portarono lo sgomento nei nostri animi.

Queste note di viaggio furono scritte nel febbraio del 1913, quando il Lago Fagnano era stato scoperto solo da una ventina d’anni e le foreste che lo circondano non erano forse mai state percorse da piede umano; e quando, sulle cartine geografiche dei cinque continenti, esistevamo ancora degli spazi bianchi, delle regioni inesplorate, cose tutte che accrescevano il senso di solitudine e di mistero in un viaggiatore spintosi per primo fino a quegli estremi recessi australi, e che aiutano a comprende quel senso di smarrimento e quella alterazione psicologica che De Agostini dice di aver sperimentato in se stesso nell’attraversare la foresta, e soprattutto nel trascorrervi la notte, sotto il precario riparo della tenda.

Senza dubbio, la sensibilità individuale gioca una grossa parte nel far sì che l’animo colga tutte le sfumature di un ambiente estraneo ed insolito, e che si apra a tutte le suggestioni che nascono da un determinato paesaggio o da una certa circostanza, ma si alimentano di una gamma più o meno ricca di rispondenze interiori, frutto della fantasia, della capacità immaginativa, del senso estetico e anche della cultura, o meglio, del modo in cui gli stimoli della cultura sono stati recepiti e si sono depositati nelle pieghe più riposte della coscienza. Padre De Agostini, un uomo buono, sensibile, dotato di un animus naturalmente religioso, ma anche intelligentemente curioso di ogni aspetto del creato, possedeva tutte le doti per godere a pieno sia per le ineguagliabili bellezze dei luoghi ove trascorse tanta parte della sua vita, sia per amplificarne le rispondenze spirituali che, in lui, risuonavano come le note di un meraviglioso concerto. E, se la sensibilità individuale è un dono raro, fatto d’intelligenza e di affettività matura, essa è anche una pianta che può essere coltivata con sapienza, affinché arricchisca la vita interiore di una persona senza, però, recarle molestia con le eccessive sollecitazioni nervose, emotive, fantastiche. In altre parole, è come un cavallo generoso, ma eccitabile e inquieto, che deve essere tenuto sotto il controllo di una mano ferma; diversamente, accade quel che si vede nella biografia di tanti artisti e persone di genio: la sensibilità prende la mano e trascina tutte le altre facoltà dove essa vuole, capricciosamente, disordinatamente, fino ai livelli più gravi di disordine e dissoluzione.

Tornando a quella escursione nella foresta, presso il Lago Fagnano, e a quella notte popolata di voci e di suoni misteriosi e inafferrabili, che a padre De Agostini facevano venire in mente le foreste delle nostre fiabe, abitate da streghe e folletti (ma anche gli indigeni della Terra del Fuoco avevano le loro brave leggende relative agli spiriti dei ghiacci), bisogna precisare che la sensibilità e l’immaginazione individuale possono, senza dubbio, amplificare l’effetto di un luogo sconosciuto e vagamente minaccioso, ma innumerevoli viaggiatori ed esploratori hanno riferito che simili sensazioni d’inquietudine, originate dalla permanenza in un luogo triste, silenzioso e senza luce, non sono mai puramente soggettive, ma condivise, in varia misura, da tutti i membri di un gruppo o di una spedizione. Questo significa che, se le oscurità della foresta primordiale evocano degli stati d’animo di stupore mescolato a un timore indefinito, ciò dipende anche dalla rispondenza che hanno con gli strati profondi dell’inconscio collettivo, e che sono un retaggio, forse, di antichissime epoche della storia, allorché il genere umano non si sentiva affatto, come lo è oggi, padrone e signore della natura, ma semplice ospite, e ospite non di rado intimorito e perplesso.

Dobbiamo ringraziare quegli uomini moderni, pertanto, come padre De Agostini, i quali, con le loro eccezionali doti di osservazione, ma soprattutto d’immaginazione e di sensibilità, ci aprono, di tanto in tanto, uno scorcio subitaneo e quanto mai suggestivo, non solo sulle bellezze inesauribili della natura che ci circonda, ma anche, in un certo senso, sui profondi anfratti e recessi della nostra dimensione interiore: molto più ricchi, anch’essi, di una vita propria e nascosta, pullulante di sensazioni ineffabili, di quel che la nostra dimensione cosciente e puramente razionale c’indurrebbe mai a supporre.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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