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Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre

Ecco un bell’interrogativo per i signori intellettuali modernisti, per i signori del so tutto io, per i campioni imperturbabili e onniscienti del politicamente corretto: qual è la differenza fra questi e quelli? Questi sono i campioni del pensiero moderno, dell’arte moderna, della scienza moderna, della letteratura moderna, del teatro e del cinema moderni: sono quelli che hanno ricevuto onori e riconoscimenti (si pensi al coro di orfani inconsolabili per la morte di Umberto Eco), che hanno fatto il bello e il cattivo tempo sulla ribalta della cultura mondiale, hanno vinto premi e ottenuto riconoscimenti ufficiali, che hanno guadagnato visibilità e non disprezzabili somme di denaro, e che a tutt’oggi vengono presentati a scuola come i mostri sacri del nostro tempo, e additati agli studenti come le fonti del sapere alle quali abbeverarsi. Il tutto quale ringraziamento per avere sparso ovunque il loro nichilismo, il loro pessimismo, il loro cinismo e il loro libertinismo; per aver proclamato che nulla è buono, nulla è giusto, nulla è vero e nulla ha un senso; per aver insultato le cose più sacre, Dio, la famiglia, il lavoro, l’autorità legittima; per aver denigrato sistematicamente l’amore per la propria cultura, per la propria tradizione, per la propria identità, per il proprio Paese; per aver dichiarato che tutto è permesso, che ciascuno deve perseguire il proprio utile o il proprio piacere, per aver disprezzato l’onestà, la lealtà, la fedeltà e la bontà, per aver deriso la purezza, per aver sobillato i peggiori istinti umani, la superbia, l’ira, la lussuria, per aver corteggiato i vizi, tessuto l’elogio del male, per aver sguazzato nel torbido, nell’angoscia, nella disperazione, per aver insegnato che nulla vale la spesa di un serio impegno o sacrificio, che non ci sono doveri da rispettare, né alcun dio da temere, né un amore degno di tale nome, ma solo corpi che si bramano, amplessi che si consumano, desideri ciechi che si bruciano. Al fondo del loro insegnamento sta l’idea che la sofferenza è una cosa inutile e assurda, che bisogna schivarla in ogni modo, e, se proprio non la si può schivare, che è meglio togliersi la vita, piuttosto che sopportarla; e che la vita stessa, e, di conseguenza, la morte, non sono altro che il frutto del caso, di un caso bizzarro e imprevedibile, e che non rappresentano un valore se non fino a quando, nella vita, vi sia una quantità sufficiente di cose gratificanti, che la rendono sopportabile e che controbilanciano gli aspetti negativi; e che la vita stessa non è affatto un diritto, ma che dipende dalla buona volontà dei genitori, i quali, se non se la sentono di accoglierla, hanno tutto il dritto di uccidere il nascituro nel grembo di sua madre, con buona coscienza e a norma di legge.

Quelli sono dei bambini e delle bambine semi-sconosciuti, i quali, nel giro di sei, otto, dieci anni di vita, hanno consumato in eroico silenzio il calvario dell’umana sofferenza: tormentati da atroci dolori, senza l’attenzione delle cronache e l’onore dei riflettori, nell’ombra, in umiltà, e, quel che più conta, in perfetta serenità: dei bambini senza cultura, senza esperienza, senza il sapere che viene dal mondo, ma che, proprio attraverso l’esperienza precoce del dolore, della solitudine, della prova più amara, sono giunti d’un balzo fin sulla vetta della saggezza: dire sì alla vita, sempre e comunque; lodare e ringraziare Dio; offrire agli altri, e in primo luogo ai loro affranti genitori, un esempio luminoso di accettazione, di mansuetudine, di pace, di amore, di fede. Quasi nessun libro li ricorda; quasi nessun regista si è degnato di realizzare un film su di essi; quasi nessun romanziere ha raccontato le loro umili storie; quasi nessun filosofo ha preso in considerazione l’esempio di perfetta adesione alla volontà dell’Essere che essi hanno rappresentato, con il loro modo di vivere e di morire; e, quei pochi che lo hanno fatto, non sono usciti dall’ambito di una cultura marginale, sprezzantemente classificata come "devozionale" e "agiografica", guardati dall’alto in basso dai rappresentanti della cultura dominante, laicista e secolarizzata, se non addirittura sospettati di ignobile speculazione ideologica sulla pelle di quei poveri bambini innocenti, plagiati da una educazione bigotta e illusi sulla sopravvivenza dopo la morte e sulla beatitudine del Paradiso, da adulti troppo vili per dire loro le cose come stanno, cioè che non esiste alcun Dio, alcuna anima immortale, alcuna forma di sopravvivenza dopo la morte, perché tutto ciò che esiste è materia e nient’altro che materia, e la fine della vita equivale a scivolare nel nulla, per sempre e senza senso

Questi sono i vari Marx, Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Pirandello, Svevo, Kafka, Heidegger, Sartre, Gadda, Montale, Moravia, Gide, Breton, Beckett, Foucault, Deleuze, Guattari, Althusser, Ginsberg, Süskind, Jelinek, Pasolini, Fo, Eco, Buñuel, Woody Allen, Almodóvar, e l’elenco potrebbe continuare per pagine e pagine, dalla filosofia alla narrativa, dalla musica al cinema, con un filo conduttore ben preciso: la denigrazione della santità della vita, con tutte le sue possibili varianti e conseguenze, dall’esaltazione del suicidio alla pornografia, dallo sberleffo alla derisione del sacro, del buono, del vero, dalla nausea alla ribellione sterile, dall’incesto al parricidio, dalla follia alla droga. E sempre con il sottinteso: che l’individuo è buono, la società cattiva; i cattivi sono sempre gli altri, le colpe sono sempre della società; se uno diventa un assassino, un pedofilo, uno stupratore, la colpa è sempre dei genitori, dei preti, dei maestri, degli adulti, di qualche altro; se uno spreca la propria intelligenza, se dissipa la propria volontà, se degrada il proprio corpo, se tradisce i propri talenti, la responsabilità non è sua, ma delle strutture sociali ingiuste, del capitalismo, del comunismo, del nazismo, della scuola, dello stato, della Chiesa. Insomma, tutti nipotini di Rousseau e del suo delirio buonista e narcisista, tanto sdolcinato quanto potenzialmente aggressivo e violento, come la storia ha ampiamente mostrato, ma ben pochi hanno voluto vedere.

E non è superfluo aggiungere che, nella loro vita privata, e, non di rado, nella loro morte, questi cattivi maestri hanno mostrato di non avere né la saldezza d’animo, né la capacità di sopportazione, né, tanto meno, la rettitudine e l’onestà morale di cui diedero prova quelli. È frequente, nelle loro biografie, incontrare una qualche forma di disordine morale (fino al vizio), di disarmonia intellettuale (fino alla pazzia), di incapacità di sostenere le prove (fino al suicidio); non in tutti, ma in molti di essi, si riscontra una attitudine verso la vita che è in linea con il disordine, con la rabbia, con il sadismo o la profanazione che, sovente, sono al centro delle loro opere. Che dire di Marx, che critica a sangue l’ipocrisia borghese e poi mette incinta la serva, sotto gli occhi della moglie? Di Schopenhauer, che predica l’ascetismo e poi getta una vecchia giù dalle scale, perché infastidito dal suo chiacchiericcio, e che si compiace con una cinica espressione al momento della sua morte, perché ciò lo esenta dal pagamento delle spese mediche, cui un tribunale lo aveva condannato? Di Nietzsche, predica l’oltre-uomo che è al di là del bene e del male, e che impazzisce miseramente, ballando nudo nella sua stanza in affitto, e scrivendo lettere deliranti ai capi di stato del suo tempo? Di Gide, che fa l’apologia dell’omosessualità e della pedofilia? Di Heidegger, che fiancheggia il nazismo, ma intanto si porta a letto, lui uomo sposato e con famiglia, la giovane studentessa ebrea, Hanna Arendt, con la quale avrà una relazione di lunga durata, con buona pace delle leggi antisemite? Di Foucault, che muore di Aids dopo una vita di disordini sessuali? Di Altuhusser, che strangola la moglie e finisce in manicomio? Di Deleuze, che si uccide gettandosi dalla finestra, perché non sopporta la sua malattia? Di Pasolini, che muore in circostanze orripilanti, dopo anni di frequentazioni con giovani prostituti raccolti per la strada, e questo dopo aver tempestato per anni, sulla stampa, contro il degrado morale del mondo borghese, e averlo rappresentato, nei suoi film, con tinte decisamente e ostentatamente ripugnanti? Eppure, si dice che la cultura, il sapere, l’intelligenza, dovrebbero insegnare una migliore comprensione della vita, una saggezza e una qualità umana che forniscono gli strumenti per affrontare le difficoltà dell’esistenza con qualche cosa più, e non certo in meno, rispetto a chi ne è del tutto sprovvisto.

Quelli sono nomi che non hanno fatto la storia, che non si studiano a scuola, che si trovano, a malapena, in qualche libretto consunto dagli anni, perché ormai non li ricordano più nemmeno la stampa religiosa, neppure la Chiesa, neppure la cultura cattolica, anch’esse contagiate dalle smanie moderniste che negano la giustizia di Dio per predicare la Sua misericordia all’ingrosso, senza discernimento e senza rispetto per la libertà umana, senza pentimento e senza richiesta di perdono da parte del peccatore; e che sanno solo parlar male dei cattolici, cioè di se stessi, rimproverarli e mortificarli, e invitarli a chiedere perdono, ogni giorno, ad una nuova categoria di persone, dagli omosessuali agli ebrei, quasi che la Chiesa sia stata, per duemila anni, nient’altro che una gigantesca organizzazione a delinquere, e come se tutto il mondo fosse sempre stato buono e innocente, ed essi soltanto, i cattolici, fossero stati animati dall’intolleranza, dalla malizia, dall’orgoglio, dalla presunzione. Sono nomi che non dicono niente alla gran maggioranza delle persone; che sono scivolati nel silenzio, così come sono scivolate nel silenzio, nel nascondimento, nel pudore, le loro brevissime esistenze terrene.

Facciamone almeno qualcuno, di questi nomi dimenticati. Imelda Lambertini, nata nel 1320, morta nel 1333, oggi beata, spentasi con un sorriso celestiale, mentre riceveva la prima Comunione; Vincenza Carminati (1907-1920), piccola seguace e ammiratrice della beata Imelda; Anonietta Meo, detta Nennolina (1930-1937), piccola mistica di sette anni, che affrontò con eroico coraggio le più atroci sofferenze, lasciando stupiti medici e infermiere; Emma Alutto (1928-1936), bambina dalla vita immacolata, morta con serenità e rassegnazione, pronunciando il nome di Gesù; Maria Filippetto (1912-1925), le cui ultime parole furono: Sono tanto contenta d’aver fatto tutto quello che ho potuto per far contento Gesù. Ma tutti, tutti dovete fare quello che potete… tutti al mondo… Oh, se tutto il mondo facesse quello che può, quanto sarebbe contento Gesù; Maria Lucia Chausset (19201926), che incominciava tutte le sue giornate con le parole: Buongiorno Gesù!, e che morì fra le braccia dei suoi genitori, dicendo: Ah, sono tanto contenta: ho il papà e la mamma; Anna De Guignè (1911-1922), una bambina inizialmente irascibile, ostinata e gelosa, che percorse in pochi anni le tappe della santità e che morì offrendo la sua vita per gli altri; Giovannina Piazza (1897-1912), la più "vecchia" di tutte queste, poiché morì a quattordici anni, altro spirito mistico, che seppe raggiungere altezze sublimi; Guglielmina Marconi (1898-1909), l’angelo dei poveri, morta a undici anni mentre adorava l’Ostia; Giacinta Marto (1910-1920), una dei tre veggenti di Fatima, proclamata beata per la santità della sua brevissima vita; Maria Gabriella Taurel (1905-1912), che chiuse gli occhi alla vita terrena abbracciando il Crocifisso e una statua della Vergine di Lourdes. E ci siamo limitati a un breve elenco di bambine vissute nei primi decenni del Novecento; se avessimo incluso anche i bambini e fossimo arrivati ai nostri giorni, o se fossimo partiti dal XIX secolo, l’elenco avrebbe richiesto parecchie pagine.

La vita breve e luminosa di queste personcine è la migliore risposta che si possa dare al mistero della sofferenza. Laddove i sapienti del mondo la trovano incomprensibile, assurda, intollerabile, e la rifiutano, magari cercando la morte per non doverla affrontare, queste anime infantili, pervenute a un livello di serenità e di pace interiore che è, dal punto di vista umano, inspiegabile, hanno vissuto nel loro corpo il mistero della sofferenza, hanno visto i loro genitori e fratelli consumarsi nell’angoscia, eppure sono andate incontro alla fine della loro vita con parole e con atti di serenità, di bene, di amore. Non si sono ribellate, non hanno imprecato, né domandato: Perché proprio io? Molte di loro hanno assunto volontariamente la malattia e il dolore, per offrirli in riparazione del male esistente nel mondo. A questo punto, la domanda è: come mai degli uomini adulti, nel pieno delle loro forze e della loro intelligenza, con una ricca esperienza di vita alle spalle e con una cultura di tutto rispetto nel loro bagaglio intellettuale, se la sono passata così male nella vita e si sono presentati così impreparati e inadeguati davanti alla chiamata della malattia e della morte; mentre delle bimbe e dei bambini di pochi anni, di tutte le estrazioni sociali, figli di conti e figli di contadini, hanno mostrato tanta fermezza, tanta maturità, e hanno saputo essere d’esempio e di consolazione ai loro cari nel momento della prova più difficile?

La risposta c’è, e la può vedere benissimo chiunque non sia completamente accecato dal partito preso ideologico. I seguaci di una cultura materialista e falsamente progressista saranno portati a vedere nella vita di questi bambini degli esempi classici di alienazione religiosa, di bigottismo indotto dagli adulti, di auto-suggestione e di auto-persuasione misticheggiante; perché quelle brevi vite, quelle piccole persone, passate come meteore nel cielo fiammeggiante della nostra storia recente, e del tutto ignorate dalla cultura "ufficiale", danno loro tremendamente fastidio. Sono come un muto rimprovero, una lacerante esortazione a riflettere, a porsi domande nuove, a scoprire orizzonti sconosciuti. Sono una fida alla loro superbia intellettuale. Non per nulla Gesù Cristo eruppe in questa preghiera gioiosa: Ti rendo lode, o Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli! Sì, o Padre: perché così è piaciuto a Te…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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