
L’intelligenza fallisce e si avvita su se stessa quando pretende di farsi dio
11 Luglio 2016
Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre
13 Luglio 2016La filosofia moderna e contemporanea, già a partire dal Rinascimento, ma specialmente quella posteriore al 1945, è stata, alla lettera, la filosofia del Diavolo: quella che ha visto culminare il progetto di rifondare il pensiero umano, non solo prescindendo completamente dalla Rivelazione e dalla fede ed escludendo ogni tipo di metafisica, cioè ogni trascendenza, ma proprio negando, combattendo e sforzandosi di estirpare le tracce della presenza del sacro e dei divino e, in particolare, lanciando una violentissima campagna contro il cristianesimo, per mettere al posto del Dio cristiano l’uomo stesso.
Progetto non solo impossibile, ma intrinsecamente contraddittorio, perché condotto in nome delle forze del disordine e del caos: rivalutando la follia, l’abnorme, il paradossale, il deviante, e tentando di assestare il colpo finale al Logos, all’ordine, alla norma, ai valori consolidati in duemila di storia della civiltà occidentale. Contraddittorio è voler liquidare l’ordine razionale del reale e sostituirlo col nichilismo, e nello stesso tempo, voler rifondare qualcosa, un ordine nuovo di qualsiasi tipo: perché dalla negazione radicale dell’ordine nasce solo il disordine, e dal rifiuto della metafisica, cioè dell’essere, nascono solo la provvisorietà, la contingenza, la precarietà.
Ora, se l’affermazione di Dio equivale al riconoscimento di un ordine razionale presente nel mondo (un ordine, peraltro, che noi non siamo in grado di decifrare interamente, perché, se lo potessimo, saremmo dio noi stessi), la negazione di quell’ordine razionale equivale alla affermazione del Diavolo, cioè alla proclamazione del disordine costituito. L’ordine, infatti, da sempre, è sentito dagli uomini come la forma naturale del bene; il disordine, come la forma naturale del male. Se si nega o si rifiuta l’esistenza di un ordine del mondo, come ad esempio fa Leopardi, implicitamente o esplicitamente si riconosce la sua natura malvagia, diabolica: perché gli enti, in un mondo disordinato e assurdo, non possono che soffrire, mentre solo in un universo ordinato possono sperare di trovare il bene e la pace.
Giustamente Nicola Abbagnano chiamava "teologia del diavolo" (anche se lui scriveva "diavolo" con la lettera minuscola, cosa che a noi sembra sbagliata) tutta quella parte del pensiero moderno che tende a scacciare l’idea di Dio e di un ordine razionale del mondo, sostituendole con l’idea che non c’è alcun Dio, né alcun ordine razionale, e tanto meno provvidenziale. E faceva anche i nomi di questi teologi del diavolo: i precursori e i fondatori, secondo lui, erano Marx, Nietzsche, Freud ed Heidegger, i quali avevano distrutto le basi della credenza nell’ordine del mondo; gli epigoni, i filosofi del 1968 e dintorni, quelli della rivolta permanente contro tutte le strutture dell’ordine costituito: i vari Foucault, Deleuze e Guattari, i quali avevano portato alle estreme, ma logiche conseguenze i presupposti dei "fondatori".
In un articolo intitolato È fallita la teologia del diavolo, pubblicato inizialmente sulla sua rubrica del settimanale Gente, e poi ripubblicato nel volume La saggezza della vita (Milano, Rusconi, 1985, pp. 38-41), Nicola Abbagnano scriveva:
… Il bisogno di Dio è il bisogno di un mondo diverso da quello che appare nei suoi aspetti peggiori: di un mondo che, appunto perché creato e governato da un Essere onnipotente e perfetto, non può rivolgersi alla mortificazione e alla distruzione dell’uomo. Se Dio esiste, il mondo non è quel disordine caotico che appare a prima vista, quella casualità cieca che accumula fortune e disgrazie ugualmente passeggere, quel gioco inconcludente di forze o di stinti senza scopo o quel destino fatale di cui l’uomo possa essere solo una preda. Deve invece avere un ordine universale, un disegno che permetta all’uomo di sopravvivere e perfezionarsi, un significato o un valore di cui l’uomo stesso possa farsi interprete e fautore. In un mondo siffatto, l’uomo può attendersi in ogni circostanza l’aiuto di Dio che gli dia la forza e il coraggio di superare le avversità, e può coltivare la sua fede in una vita migliore che lo attenda al di là della morte.
Ma se queste sono le esigenze del bisogno di Dio (e di ogni autentica fede religiosa), che cosa accade quando si crede che il disordine caotico, l’urto violento delle forze e il gioco insignificante del caso siano la sostanza stessa del mondo? La risposta è ovvia;: al bisogno di Dio si sostituisce il bisogno del diavolo e una divinizzazione del diavolo si sostituisce a una teologia religiosa. In questa teologia il diavolo era semplicemente l’angelo decaduto che può indurre l’uomo al peccato, seducendolo con i suoi allettamenti, ma la cui azione è limitata dall’ordine divino del mondo. Ma se non c’è un ordine, e non c’è l’autore di esso, il diavolo diventa il simbolo o la personificazione del disordine, della violenza e del caso che costituiscono la sostanza del mondo.
Su questa linea di è posto un gruppo di filosofi, psichiatri e letterati francesi che sono stati gi ispiratori della "contestazione globale" del ’68 e che hanno influenzato larghi strati giovanili anche fuori della Francia. […]
Ma il compito specifico, che gli autori di questo indirizzo si sono assunti, è stato quello di combattere tutti i valori e le istituzioni sulle quali la società attuale si fonda. Queste istituzioni, che vogliono imporre al mondo l’ordine, la razionalità e la pace, non avrebbero alcuna giustificazione perché il mondo è un caos di forze violente. La follia e la delinquenza esprimono meglio la natura del mondo. I poteri che le combattono on sono stati e non sono che espedienti inutili e crudeli. Queste sono le tesi che emergono dagli scritti di Michel Foucault, il più importante rappresentante del gruppo in questione. Gilles Deleuze e Felix Guattari (che è uno psichiatra) si sono posti sulla stessa strada, additando addirittura nella schizofrenia, in quanto si sottrae all’ordine delle cose e al codice del linguaggio, la spinta verso una rivoluzione totale destinata a mutare radicalmente, in senso imprecisabile, la natura dell’uomo.
In realtà la distruzione dell’uomo è l’aspirazione finale di questo indirizzo filosofico. L’uomo che vuol cercare la verità con la ragione, che è libero e responsabile delle sue scelte, è soltanto una creazione fittizia in un mondo di forze caotiche. Secondo Foucault, è addirittura un’espressione linguistica sbagliata, una frattura del linguaggio che sarà sanata dalla sua sparizione.
Si può allora domandare a chi questi pensatori si rivolgono nel loro invito alla lotta contro il potere che sorregge istituzioni destinate alla repressione di forze invincibili. Se gli uomini non sono che sbagli di natura, privi di forza autonoma e di volontà seria, non possono neppure recepire un invito del genere. Possono soltanto abbandonarsi senza difesa al gioco imprevedibile del caos diabolico, che è la vera realtà del mondo. Ma dall’altro lato, quei poteri contro i quali, in nome di questo caos, si dichiara la guerra non sono essi stessi (come ogni altra cosa) manifestazioni di esso? E non sono come tali irriducibili e invincibili? E se la verità, ogni verità, è soltanto uno strumento di questi poteri e la teoria che li combatte rinuncia per ciò stesso alla verità, che specie di validità o di significato può rivendicare? Il linguaggio oscuro, metaforico e misticheggiante, di cui questi filosofi amano servirsi, difficilmente riesce a nascondere le contraddizioni puerili delle loro teorie.
Eppure, gli ascoltatori di questi filosofi non sono mancati. Le loro idee sono state la giustificazione ultima di tutti gi aspetti critici o decadenti dell’epoca nostra: del rifiuto di ogni norma morale e civile come repressiva degli istinti; del permissivismo indiscriminato che ne deriva nel campo della condotta quotidiana e del’educazione; dell’indebolimento delle istituzioni giuridiche e politiche che difendono i cittadini; del ricorso, nelle lotte politiche e sociali, alla violenza che ignora o distrugge la vita umana. E il vero figlio legittimo di queste teorie è stato il terrorismo che può assumere, nei vari Paesi, motivazioni apparentemente diverse, ma rimane impegnato alla distruzione del mondo attuale in vista di un mondo futuro "migliore". Ma migliore per chi? Non per l’uomo, che ne sarebbe distrutto…
Non sarà dunque un caso — sviluppando quest’ultima intuizione di Nicola Abbagnano – che il pensiero di Jacques Derrida, che, in un certo senso, è il più coerente di questi filosofi radicali francesi, perché porta le premesse di Nietzsche e di Foucault alla teoria della "decostruzione" radicale, cioè al rifiuto di ogni verità evidente e alla critica sistematica e distruttiva di qualunque affermazione filosofica, giunga alla questione della animalità e veda in essa il nodo centrale di qualsiasi futuro discorso sull’uomo e sulla possibilità di una trasformazione sociale. Infatti, alla domanda: Per chi dovrebbe essere il mondo "migliore" che codesti filosofi vorrebbero realizzare?, una volta scartato l’uomo stesso, che ne verrebbe "distrutto", come dice Abbagnano, ed escluso, naturalmente, Dio, ipostasi di tutte le menzogne e di tutte le alienazioni, non resta altra risposta che le creature non umane. Logico: il problema della tarda modernità non è il crollo demografico, la pratica diffusissima del’aborto come forma di controllo delle nascite, o lo smarrimento della identità europea e la sopravvivenza della civiltà stessa, davanti alle aggressioni della globalizzazione selvaggia, della cinica speculazione finanziaria e della immigrazione/invasione da parte di decine di milioni di africani ed asiatici, pilotata dall’alto al preciso scopo di islamizzare il nostro continente, ma il fatto che i rapporto fra gli uomini e gli animali devono cambiare, alla luce di una riscoperta del valore fondamentale dell’Altro. L’altro, infatti, per questi filosofi, non è il proprio simile, ma l’animale. E, infatti, si vedono sempre più persone le quali cercano nei cani, nei gatti e in altri animali domestici il surrogato dei figli, dei mariti, delle mogli, degli amici, che non ci sono più, che non ci sono mai stati o che se ne stanno andando.
Non vogliamo dire, con ciò, che la questione degli animali sia poco importante; tutt’altro. È innegabile, tuttavia, che esiste una stridente contraddizione in una società che, da un lato, proprio in nome dei diritti dell’uomo, nega e calpesta i diritti concreti delle persone, a cominciare dal diritto alla vita dei nascituri, e, dall’altro, pone come sua massima preoccupazione per il futuro, o come una delle sue massime preoccupazioni, un migliore trattamento da riservare agli animali. Questa contraddizione si scioglie solo ammettendo che i filosofi della dissoluzione sono attivamente impegnati, che se ne rendano conto o no, alla distruzione dell’uomo, e che parte della loro strategia è quella di nascondere al pubblico i veri esiti del loro pensiero, magari confondendo un po’ le acque con questioni, come l’animalismo, le quali, per quanto importanti in se stesse, sono certamente secondarie rispetto alla drammaticità del momento storico che stiamo vivendo, e alle prospettive di sopravvivenza, materiale e morale, per l’uomo stesso.
Del resto, nella vita di codesti "filosofi del Diavolo" vi è un elemento auto-distruttivo che non sfugge a chi tenga sempre presente la corrispondenza necessaria tra il pensare e il vivere, ossia, in altri termini, quali frutti porti l’adesione a un certo tipo di pensiero, piuttosto che a un altro. Anche se questo tipo di osservazioni faranno certamente storcere il naso a chi vorrebbe negare l’evidenza, cioè che l’albero si riconosce dai frutti e che l’albero buono non può dare frutti cattivi, e viceversa, noi lo riteniamo perfettamente legittimo e giustificato, dal momento che chiunque ha il diritto di verificare se esista una corrispondenza tra le promesse di felicità, o quanto meno di costruire un mondo migliore, da parte di una certa filosofia, e gli effetti reali ch’essa produce, a cominciare dalla vita di coloro che l’hanno formulata. E allora ecco che c’imbattiamo in una sequela impressionante di vite contorte e di suicidi, proprio fra i pensatori che del suicidio hanno fatto l’apologia, quale massima espressione di libertà e di vittoria personale sul destino e sull’irrazionalità del mondo: Foucault, Deleuze, Althusser, Debord.
Partiamo da Foucault, il più celebre del gruppo, colui che attirava almeno duemila giovani adoranti per volta, allorché teneva delle conferenze in giro per il mondo. Fondatore — nel 1969 – della delirante "università sperimentale di Vincennes", grottesca proiezione dell’anti-autoritarismo didattico allora tanto in voga (si confronti la lettera a una professoressa della scuola di Barbiana, del 1967), tenta di suicidarsi nel 1948, a poco più di vent’anni (era nato nel 1926); nella sua morte, avvenuta nel 1984 per una malattia legata all’Aids, si può vedere il completamento di quel gesto. Omosessuale, oltre a espatriare in Tunisia per amore di uno studente venticinquenne col quale visse per venticinque anni, non si era negato le esperienze promiscue con degli sconosciuti nelle saune e nei club della città-cult della cultura gay: San Francisco. Deleuze si uccide gettandosi da una finestra del suo appartamento, in rue de Bizerte, a Parigi, nel 1995, per sottrarsi a una lunga malattia. Althusser, personalità disturbata e narcisista, uccide, strangolandola, sua moglie, nel 1980; dichiarato infermo di mente, evita il carcere per la mobilitazione della gauche marxista francese, ma non si trattiene dallo speculare sul fatto, scrivendo un’autobiografia e un’opera teatrale con le quali accresce la propria visibilità mediatica e rafforza la propria "impunità" intellettuale; muore in manicomio, nel 1990. Guy Debord, tra i fondatori dell’Internazionale Situazionista, espulso dall’Italia nel 1977 con l’accusa di alimentare la violenza politica durante gli "anni di piombo", si uccide con un colpo di pistola al cuore, nella sua casa dell’Alvernia.
Tutti costoro hanno goduto di una celebrità enorme, negli ambienti filosofici che andavano per la maggiore, non solo nel loro Paese, ma anche all’estero, e particolarmente in Italia. Tutti costoro si sono segnalati per la loro critica irriducibile, aggressiva, spietata, della società borghese, del capitalismo, delle strutture "repressive" (prima fra tutte, secondo Foucault, la psichiatria), della filosofia stessa, esaltando la violenza "spontanea" mentre condannavano ferocemente quella proveniente dalle istituzioni. Tutti costoro sono passati come meteore fiammeggianti e, dopo essere stati ammirati come maestri da una generazione di studenti sessantottini, che su di essi hanno studiato, dissertato, sproloquiato e preparato le loro tesi di laurea (qualcuno anche passando a forme di lotta politica violenta), sono pressoché caduti nel dimenticatoio, per la palese inconsistenza e contraddittorietà delle loro teorie, oltre che per il loro velleitarismo fumoso e parolaio. Dietro le spalle si sono lasciati macerie e sofferenze, oltre che una serie di idee sbagliate e luoghi comuni duri a morire. Innegabile, ad esempio, è l’influenza della Storia della follia di Foucault, del 1961, sul percorso che ha portato all’approvazione della legge 180 in Italia, la cosiddetta "legge Basaglia", sulla chiusura dei manicomi. Peccato che la malattia mentale non scompaia solo perché un (cattivo) filosofo come Foucault denuncia la repressione psichiatrica contro le minoranze scomode, o uno psichiatra come Basaglia si impanca a filosofo e chiede la chiusura dei manicomi sulla base della convinzione, risibile e puerile, che l’individuo sia il bene, la società il male; che la libertà sia giusta, l’autorità, ingiusta; che gl’istinti siano buoni, le regole invece repressive e, perciò, cattive. Foucault, Deleuze e gli altri appartengono oggi più all’archeologia filosofica o alle curiosità culturali, che al pensiero vivo del presente: araldi della distruzione, hanno subito il destino di tutti i distruttori: sono stati pressoché cancellati dalla storia.
A noi, uomini del terzo millennio, spetta un compito che è anche, e in primo luogo, un dovere morale nei confronti delle giovani generazioni: sgombrare quel che resta delle macerie lasciate dalla teologia del Diavolo, affinché possa affermarsi un nuovo senso della vita: più rispettoso della concretezza, meno impregnato di estremismo ideologico, più costruttivo, comprensivo e caritatevole nei confronti della persona umana, unica e irripetibile, libera da schemi e sovrastrutture idealistici, cioè nati nella testa dei filosofi malati di solipsismo e inclini ad ubriacarsi con le parole, invece di confrontarsi umilmente e pazientemente con la realtà.
Resta la speranza che i giovani d’oggi sappiano scegliersi un po’ meglio i loro maîtres à penser, di quanto non abbia saputo fare la generazione dei loro padri…
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