«Sentii come il fruscìo d’una veste di seta…»
22 Giugno 2016
L’angelo della giustizia e l’angelo dell’iniquità lottano per conquistare l’anima nostra
23 Giugno 2016
«Sentii come il fruscìo d’una veste di seta…»
22 Giugno 2016
L’angelo della giustizia e l’angelo dell’iniquità lottano per conquistare l’anima nostra
23 Giugno 2016
Mostra tutto

Pensieri d’una notte di mezza estate

Sono le ultime ore di martedì 21 giugno 2016, e il calendario liturgico ricorda san Luigi Gonzaga: è l’ultimo giorno di primavera, quello con la più prolungata illuminazione dell’intero anno solare, e che ora sta scivolando lentamente, dolcemente, nella luce sfumata del tramonto, verso la magica notte di mezza estate, che a tutti fa venire in mente la bellissima, aerea, incantata commedia di William Shakespeare: A Midsummer Night’s Dream.

Dal basso salgono le voci argentine di alcuni bambini che stanno giocando; poi, quando scende il buio e si accendono le prime luci alle finestre, arriva di lontano l’abbaiare d’un cane. Le colline sembrano accendersi negli ultimi raggi del sole, mentre le montagne, come una enorme quinta scenografica che le abbraccia e le sovrasta, appaiono vicinissime, così nitide da poterle quasi toccare, nell’aria incredibilmente dolce e profumata della sera. È una delle prime sere limpide e senza pioggia, senza nuvole, di questa primavera così umida e tetra, da essere sembrata una primavera scozzese. Ma le rondini, no, non sono tornate: è stata una primavera senza rondini, senza i loro gridi e voli festosi; e, per questo, una primavera un po’ malinconica.

Tutto è pace silenzio, adesso. Le montagne sono una lunga linea scura che corre da un orizzonte all’altro, mentre, al di sopra di esse, il cielo trascolora in una serie di tonalità fredde, che vanno dall’azzurro, all’indaco al violetto. La luna piena non si è ancora affacciata, ma s’intuisce la sua presenza nel chiarore diffuso, che rende questo lunghissimo tramonto di mezza estate ancora più bello, ancora più misterioso, come se non dovesse mai più finire, e come se la natura tutta si fosse fermata, così, per incanto, e avesse deciso di trattenere il fiato, interamente assorta in qualche suo pensiero remoto e, per noi, irraggiungibile. È uno di quei momenti in cui ci si sente piccoli, veramente piccoli; in cui le lunghe nuvolette striate dagli ultimi raggi riflessi del sole già tramontato, incredibilmente alte e maestose, pur così leggere, paiono ricordare all’uomo la sua fragilità, la sua fuggevolezza.

È in sere come questa che l’anima sente un forte struggimento e la mente è portata a raccogliersi in se stessa, a fare un bilancio, sia pure provvisorio. Si sente il contrasto fra la pace e la calma grandezza della natura e l’affannoso, inutile affaccendarsi di mille pensieri e preoccupazioni, il rimorso di buoni propositi non portati a buon fine, il rammarico di troppe occasioni sprecate, il fastidio per una vita proiettata verso cose esteriori, inutili, fasulle, ingannevoli, mentre l’essenziale continua a sfuggire, a volte pare quasi d’averlo raggiunto, ma ecco che subito sfugge di nuovo, è elusivo, inafferrabile, non si lascia mai catturare, è sempre un passo avanti a noi. L’essenziale è sempre altrove, mentre noi siamo sempre in ritardo, continuiamo ad aggirarci, come cacciatori inesperti, nel luogo sbagliato, dove non passerà la selvaggina, almeno per questa notte. Eppure sentiamo che l’essenziale ci sfugge perché noi stiamo seguitando a ingannare noi stessi, perché ci stiamo facendo beffe della nostra parte migliore, perché non siamo all’altezza di ciò che vorremmo e che dovremmo essere.

Un’altra stagione è trascorsa, ora verrà l’estate; poi seguiranno l’autunno, un altro inverno, e poi, di nuovo, un’altra primavera. Sì, ci siamo impegnati, ci siamo sforzati, ma siamo andati sempre nella direzione giusta? Sentiamo che non basta volere, non basta la buona volontà: ci vuole anche il discernimento, ci vuole anche la saggezza, ci vuole anche l’umiltà. L’umiltà di chiedere. Ma non di chiedere agli uomini: l’umiltà di chiedere a Dio. Se domandiamo agli uomini, possiamo ricevere, oppure no; nel primo caso, non è detto che riceviamo ciò di cui abbiamo bisogno; nel secondo, non è detto che ci dobbiamo scoraggiare. Forse, non aver ricevuto è stato un bene, per noi; anche se, sul momento, siamo rimasti delusi, amareggiati. Uno solo è colui al quale possiamo e dobbiamo rivolgerci sempre con fiducia: Uno che non vuol nulla per sé, ma il meglio per noi.

Ecco il punto: gli uomini, per quanto ci amino, desiderano sempre il nostro bene, ma solo fino a un certo punto; sempre compatibilmente con il loro interesse, o sempre compatibilmente con ciò che ritengono essere il nostro bene — sempre giudicandolo, tuttavia, da un punto di vista meramente umano. Gli altri non credono in noi come ci crede Dio: per questo gli altri, benché possano aspettarsi molto da noi, non si aspettano mai il massimo, perché il massimo non è valutabile secondo criteri puramente umani. Il massimo è il massimo, travalica la sfera del relativo e confina con l’assoluto; e, di questo, solo Dio può avere la misura esatta. Inoltre, gli altri ci giudicano: vedono quel che sappiamo fare, quel che abbiamo fatto sinora, e, in base a ciò, si aspettano più o meno le stesse cose, anche per l’avvenire. Non scommetterebbero mai su di noi, se ci vedessero a terra; non crederebbero che possiamo rialzarci, e perfino correre, se non ne avessero un sia pur minino indizio. Ci giudicano, ci soppesano, ci reputano in grado di fare questo e quest’altro, oppure no, ma sempre guardando indietro, al nostro passato.

Con Dio, la cosa è diversa. Per Lui, non conta quante volte siamo caduti, né quanto siamo, o ci sentiamo, deboli; non conta se abbiamo già fallito, non conta se abbiamo smesso di credere in noi stessi, noi per primi. Non conta quel che da noi si aspettano gli altri; non conta nemmeno il fatto che, sino ad ora, le cose siano andate in un certo modo, e che, davanti a certe prove, a certi ostacoli, abbiamo sempre battuto in ritirata. Dio può trasformare dei vili in coraggiosi; dei pusillanimi, in risoluti; degli scoraggiati, dei disperati, dei falliti, in uomini e donne pieni di forza, di speranza, di decisione. Può rialzare chi è caduto, può rianimare chi aveva perso ogni speranza. Lui può tutto; e noi, con il suo aiuto, possiamo quasi tutto. Senza di lui, possiamo ben poco; contro di lui, assolutamente nulla — se non perdere noi stessi. E c’è un segreto, in tutto questo: il segreto dell’umiltà. Bisogna umiliarsi, perché Lui ci doni la sua forza; bisogna annullarsi, perché Lui ci riempia del suo splendore.

Noi, però, preferiamo ignorarlo; preferiamo tirare a campare, o investire tutte le nostre speranze su di un cambiamento sociale, o politico, o economico, o religioso; pensiamo che, se il mondo sarà governato dal fascismo, o dal comunismo, o dal capitalismo, o dalla scienza, o dal progresso, o dalla tecnica, o da Allah, o da Buddha, o dall’ateismo, o dall’antroposofia, o dal "pensiero debole", le cose andranno meglio; che ci sarà un risveglio spirituale, che le intelligenze si riaccenderanno come lampadine di Natale, che le coscienze intorpidite torneranno a brillare, a sfolgorare. Pensiamo che se le donne avranno più potere, se il sistema delle "quote rosa" verrà generalizzato, e se le donne potranno guidare l’automobile anche in Arabia Saudita, e potranno divorziare anche in Afghanistan, e indossare la minigonna anche in Burkina Faso, il mondo diverrà migliore, perché le donne non hanno ancora potuto dare al mondo il meglio di sé, sono state inibite e compresse da una secolare repressione. Pensiamo che se tutte le minoranze acquisteranno più spazio, se faranno valere i loro diritti, il mondo sarà migliore, perché sarà più vario, e più ricco, e più colorato, e più interessante, e più dinamico; e quindi pensiamo che sia giusto battesi perché tutti i ragazzi disabili siano integrati in una classe scolastica, e siano messi in grado di partecipare alle paraolimpiadi; perché tutte le persone omosessuali possano sposarsi e avere o adottare dei bambini; e perché tutte le case di cura psichiatriche siano chiuse, le prigioni siano abolite, la polizia sia disarmata, gli eserciti siano fatti sparire con un colpo di bacchetta magica; e, ancora, perché chiunque possa drogarsi fin che ne ha voglia, e tutti possano viaggiare e frequentare qualsiasi università, e tutti diano del tu a tutti, e i professori la smettano di bocciare gli studenti, e gli studenti di avere il fastidio di studiare, essere interrogati e dover sostenere degli esami. Pensiamo che se tutte queste cose avverranno, e se si realizzerà la società "liberata" di cui parlavano i Beatles nella canzone Imagine — una canzone così carina, così romantica, così melodica — finalmente le cose andranno per il verso giusto, le ingiustizie spariranno, lo sfruttamento sparirà, non ci saranno più guerre, ci sarà solo l’amore, un amore grande che abbraccerà il mondo intero.

L’unico problema è che noi non sappiamo, o non sappiamo più, che cosa sia l’amore. Abbiamo confuso l’amore con la ricerca egoistica del nostro piacere: errore colossale. Abbiamo abbassato l’amore al livello di una pulsione primaria, animalesca; e, con la scusa dell’amore, abbiamo proclamato la liceità di tutte le pulsioni, anche le più sordide, anche le più abiette. Abbiamo proclamato che l’unica norma dell’amore è il piacere che se ne ricava: e così abbiamo fatto nostra l’idea che, per lo scabbioso, la felicità consiste nel potersi grattare a volontà. Misera caricatura dell’amore, quella che abbiamo innalzato al valore di principio universale e norma infallibile di comportamento e di giudizio. In nome di un malinteso concetto dell’amore, abbiamo finito per sprofondarci nel fango come le bestie, gracidando come le rane, grugnendo come i maiali, imbrattandoci e sguazzando di gusto nei nostri stessi escrementi. Siamo diventati disgustosi, e tutti, dall’esterno, lo possono vedere: solo noi non lo sappiamo, come colui che puzza non avverte il proprio fetore, perché, per lui, è cosa perfettamente normale. E, quel che è peggio, abbiamo deriso quanti ancora si sforzano di coltivare la pulizia morale, la lealtà, la dirittura, l’onestà, il rispetto della parte migliore che esiste in ogni essere umano, per quanto degradato. Li abbiamo derisi e li abbiamo dichiarati pazzi, nemici del progresso, relitti del passato. Ciechi, abbiamo voluto metterci alla sequela di altri ciechi; e coloro che vedono benissimo, li abbiamo scacciati a sassate, li abbiamo minacciati, insultati, calunniati, perseguitati in ogni modo.

Come uscire dal pantano, come ritrovare il sentiero diritto, dopo tanto vagabondare lontano dalla verità, dalla giustizia, dalla bellezza, inseguendo affannosamente false immagini di bene, fino ad abbrutirci completamente? Dove trovare la lucidità per comprendere fino a che punto siamo scivolati in basso, sino a che punto abbiamo smarrito la retta via, e quanto disperatamente avremmo bisogno d’aiuto? Dove trovare la forza di volontà, la capacità di guardarci dentro, senza farci sconti eccessivi, ma anche senza cadere nello sterile compatimento di noi stessi, che non produce nulla, se non lacrime di coccodrillo? Quale dio ci potrà ancora salvare, quale dio avrà la voglia di farlo, visto l’infimo livello esistenziale cui ci siamo ridotti? Quale dio potrà ancora sopportare i nostri capricci, i nostri vizi, il nostro infantilismo, compresa questa folle, penosa idolatria della tecnica, da cui ci aspettiamo chissà quali prodigi di progresso, mentre non è servita ad innalzarci di un solo pollice dal fango in cui stiamo sguazzando?

Solo il Dio cristiano può ancora farlo, può sempre farlo, perché Lui crede in ciascuno di noi e vorrebbe il meglio per queste sue creature, che ha fatto a Sua propria immagine. Quel che è meglio per noi, noi non sempre lo sappiamo, non sempre lo comprendiamo. A volte ci sembra di essere vittime dell’ingiustizia; ci sembra che avremmo meritato qualcosa di meglio, e che la vita, con noi, non è stata abbastanza generosa, è stata avara. Eppure, se davvero le cose fossero andate come noi speravamo, è proprio certo che quello, per noi, sarebbe stato il meglio? Che cos’è il meglio, per noi? Il meglio non può essere giudicato in base al piacere, o al successo, o al potere che riusciamo a raggiungere; il meglio non sempre coincide con le nostre umane categorie, non sempre appare chiaro alla nostra limitata intelligenza. Noi giudichiamo le cose come bambini: ciò che ci va bene, ciò che ci dà piacere, lo consideriamo buono; il resto, cattivo. Ecco perché dobbiamo imparare la virtù dell’umiltà: perché solo in essa troviamo la capacità di dire: Non come voglio, io, Signore, ma sia fatta la Tua volontà. Tu sai quello che è bene; tu sai cosa è meglio per me. Che accada non quello che io desidero, ma quello che Tu desideri per me. Mi fido di Te, Signore mio e Dio mio. Fuori di Te non c’è verità, non c’è giustizia, non c’è amore; ma in Te, posso trovare tutto quello di cui ho fame e sete, tutto ciò di cui ho bisogno per vivere la vita buona; posso trovare la mia più grande libertà, perché essere liberi significa fare la Tua volontà.

Questi sono i pensieri che ci attraversano la mente, in questa lunga, lunghissima notte di mezza estate, che sembra non voler finire mai, mentre la luna sale alta e solenne nel cielo, rischiarando le tenebre con la sua luce fredda, metallica, aliena. Le chiome degli alberi si stagliano nette contro lo sfondo del cielo; le foglie sussurrano piano, nel respiro sensuale della notte piena di umori, di sussurri, di misteri. Chissà che cosa si stanno dicendo, e in quale lingua stanno comunicando. Noi non lo sappiamo: quante cose non sappiamo, eppure crediamo d’aver capito tutto. Ma la verità è che, se non impariamo ad ascoltare e a riconoscere la voce di Dio, non abbiamo capito niente; se non tentiamo di risponde alla Sua chiamata, siamo come inerti, siamo simili a dei morti che camminano. Siamo come cadaveri che non sanno di esserlo, e vanno e vengono, si agitano e inseguono mille brame e mille paure, ma, in realtà, sono già morti, e mandano cattivo odore. Solo ascoltando la voce di Dio, ci destiamo alla vita vera: l’altra è quella scialba, mutilata, dei non-vivi…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.