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Inquietante attualità d’una leggenda piemontese: il camoscio-diavolo

Le leggende popolari, si sa, non nascono dalla fantasia, più o meno sbrigliata, e comunque gratuita, di qualche mente individuale: nascono dalla saggezza radicata nella coscienza morale di una comunità; dove la parola "comunità" va intesa nel senso forte, non come accostamento disordinato di soggetti diversi e reciprocamente indifferenti, ma come gruppo coeso, legato da profonde radici, da valori condivisi e profondamente sentiti, nonché dal senso di un destino collettivo, che il singolo individuo condivide sin dalla nascita.

Ora, se è così, ciò significa che le leggende popolari contengono un nucleo di verità che scavalca le contingenze storiche, determinate dal tempo e dall’ambiente, il quale assume le forme di una meditazione, sia pure immediata e intuitiva, e non logico-analitica (ma non per questo irrazionale) sulle verità ultime della vita, del mondo, della condizione umana; e sono, pertanto, delle autentiche miniere di spunti di riflessione e perle di saggezza umili e nascoste, che l’intellettuale professionista è solito guardare dall’alto in basso, con un certo disdegno, ma solo perché egli ha del tutto obliato le radici comuni con la vita del popolo, nel senso migliore e non demagogico dell’espressione: un popolo che non va idealizzato e mitizzato, ma neppure ignorato o guardato alla stregua di un puro e semplice bacino di preferenze elettorali, o, in generale, di "utenti" da manipolare e da fingere di ascoltare solo quando si tratta di far promesse demagogiche e irrealizzabili.

C’è una leggenda piemontese, in particolare, che ci ha colpito fin da bambini, allorché la udimmo per la prima volta, e che contiene un nucleo di verità "filosofica" che presenta una straordinaria attualità, se letta in chiave di critica alla tendenza faustiana, luciferina, che caratterizza la civiltà moderna e che, attualmente, trova nel mito e nell’abuso della tecnica la sua punta più avanzata e devastante: è la leggenda del camoscio-diavolo, nata forse nel XVIII secolo, che ha per protagonista un famoso cacciatore di Balme (Bàrmes in dialetto franco-provenzale), un borgo posto a oltre 1.400 metri nella Val d’Ala (la valle centrale delle tre Vali di Lanzo, nelle Alpi Graie), tale Battista Bogiatti, e illustrata in un affresco da lui fatto dipingere sulla facciata della chiesa parrocchiale, dedicata alla Santissima Trinità, come ex-voto a San Giorgio, che lo aveva salvato da un pericolo mortale.

Vale la pena di riportarla nella versione datale da una scrittrice oggi ingiustamente dimenticata, Maria Tibaldi Chiesa (che però la colloca, erroneamente, in Val di Stura, facendo forse confusione fra la Valle Stura di Demonte, che è situata molto più a Sud, fra le Alpi Marittime e le Cozie, ed Ala di Stura, di cui Balme era un tempo frazione) e stupendamente illustrata da un grandissimo pittore e disegnatore per l’infanzia, il padovano Luigi Baldo (in arte Gino Baldo), anch’egli ormai scordato da una cultura che corre talmente in fretta, da non avere neppure il tempo per ricordare i maestri di ieri e per far tesoro della loro lezione (da: Maria Tibaldi Chiesa, Leggende italiane, in: Il Tesoro del ragazzo italiano, enciclopedia diretta dal germanista Vincenzo Errante e dallo scrittore Fernando Palazzi, Torino, U.T.E.T., seconda edizione, 1948-1957, vol. VII, pp. 7-8):

C’era una volta in Val di Stura un famoso cacciatore di camosci, certo Battista Bogiatti.

Una sera, scendendo dall’Alpe di Solero al Pian della Mussa, scorse un magnifico camoscio, a un tiro di schioppo. Ma per l’appunto quella sera Battista non aveva con sé lo schioppo. Figuratevi la sua rabbia! Il camoscio si soffermò un attimo, e sembrò guardarlo con aria di scherno e di sfida… Per il dispetto, il cacciatore gli scagliò un sasso… Ma già il camoscio, con un balzo agilissimo, era scomparso.

Ricomparve però dinanzi a lui la mattina seguente all’alba, quando il cacciatore era nuovamente uscito sul sentiero dell’Alpe Solero, per tentare appunto di rintracciare l’ambita preda. Stavolta aveva il fucile con sé: in un baleno lo puntò contro l’animale selvatico e gli sparò contro. Ma quello, d’un balzo, si era spostato su una roccia più alta, poco lontano.

Furibondo, il cacciatore mandò un’esclamazione di rabbia: aveva tirato in ottime condizioni e non gli era mai capitato di fallire il colpo a quel modo…

Inseguì’ il camoscio, che lo fissava dal picco dirupato, immobile, con la sua aria di sfida e di scherno. Mirò e sparò ancora una volta, e ancora una volta l’animale, agilissimo, gli sfuggì.

L’inseguimento vano durò per ore e ore: il cacciatore s’era incaponito e a ogni costo aveva giurato a se stesso di uccidere il camoscio.

Vi riuscì solo verso sera, quando quello si fermò un attimo, sull’orlo di un ghiacciaio, con sgomento. Battista approfittò del momento propizio e lo stese morto al suolo.

Poi se lo caricò sulle spalle e si avviò per tornare a casa. Ma ben presto si accorse che il camoscio pesava terribilmente: pesava in modo strano, inspiegabile, assolutamente inaudito, date le dimensioni dell’animale.

Al Pian della Mussa il cacciatore, esausto, lo lasciò cadere a terra, gridando:

– Pesi come il diavolo!

Prodigio!… A quelle parole il camoscio si mosse e ornò in vita: i suoi occhi si spalancarono, strizzando scintille, le sue corna ricurve fiammeggiarono, e dalle sue fauci spalancate su di una gola di bragia uscirono queste parole:

– Certo che peso come il diavolo! SONO il diavolo! Guardami! Tu mi hai portato fin qui, ma io ora porterò te all’Inferno!

Atterrito, il cacciatore cadde in ginocchio, raccomandandosi al santo cui era devoto, San Giorgio vincitore del drago.

E san Giorgio dovette venirgli in aiuto, perché il camoscio-diavolo sparì in una nube di fumo dall’acre odore di zolfo.

Così Battista poté tornare a Balme. E colà compié il voto che aveva formulato nel cuore mentre pregava: sulla facciata della vetusta chiesa della Trinità fece dipingere un San Giorgio che vince il drago, mentre in lontananza si vede un cacciatore che spara contro un camoscio.

In questa versione, tuttavia, è assente un elemento piuttosto importante per la piena comprensione del significato morale della storia: il fatto che la prima apparizione del misterioso camoscio, quando il cacciatore era disarmato, ebbe luogo di sabato; e che Battista Bogiatti, levandosi all’alba del giorno dopo per dargli la caccia, violava il terzo Comandamento (Ricordati di santificare le feste); tanto più che, tutto preso dalla smania di uccidere la bestia, che continuava a sfuggirgli, beffandolo, si dimenticò del tutto del dovere di partecipare alla santa Messa. Se si aggiunge questo particolare, il senso della leggenda appare chiaro: è un apologo sulla dimenticanza di Dio da parte dell’uomo, allorché questi si mette ad inseguire il miraggio delle cose materiali e di una felicità privata del senso della trascendenza, solo terrena e immanente.

Ogni volta che gli uomini si sono scordati dell’amore e del timor di Dio; ogni volta che hanno pensato di non aver bisogno dell’aiuto e della Redenzione di Dio; ogni volta che si sono lasciati prendere dalla febbre di far da sé, di cercare affannosamente, qui e ora, il compimento della loro sete di felicità, di pienezza, di successo, si sono consegnati, più o meno consapevolmente, nelle mani del loro peggior Nemico: di colui che spia attentamente ogni loro mossa, pronto a sfruttare tali momenti di "distrazione", per trascinarli sulle sue strade rovinose. L’Inferno, una parola oggi quasi dimenticata e pressoché impronunciabile perfino dentro la Chiesa, a causa della saccenteria progressista di tanti sedicenti teologi e di tanti indegni vescovi e sacerdoti — i quali, evidentemente, non sanno leggere il Vangelo, o pretendono d’interpretarlo ciascuno a suo modo, alla maniera protestante — è questo: il regno del Diavolo, delle cose materiali.

Le cose materiali non sono cattive in se stesse; la vita terrena non è un male in se stessa. Le cose sono dei mezzi, e la vita terrena è, essa stessa, un mezzo, non un fine: tutto qui. Un mezzo per che cosa? Per l’unico fine vero, il fine di ogni azione, di ogni discorso, di ogni pensiero della vita buona: tornare a Dio e conquistare, con ciò, la pace dell’anima e la vita vera, che non è quella terrena, ma la vita eterna, cui si accede per la porta stretta dell’amore, della sofferenza, del sacrificio e del dono di sé, e — infine – della morte fisica.

Il cacciatore di Barme credeva di aver catturato la sua preda e si stava avviando verso casa, fiero di essere riuscito nel suo intento, ma, intanto, dimentico delle cose di Dio; e invece quella preda che portava sulle spalle, per quanto robuste, era tutt’altro che inerte e inoffensiva: era qualcosa che già lo aveva catturato e lo teneva in pugno, ancor prima di rivelarsi nella sua vera sembianza, fin da quando, viva, lo aveva sedotto, lo aveva attirato a sé, lo aveva allontanato dai suoi doveri, e aveva rinfocolato in lui i sentimenti umani, troppo umani, che inquinano la vita dell’anima e tendono a soffocarla e a spegnerla: l’ambizione, l’ira, l’orgoglio, la vanità. Secondo un’altra versione della leggenda, Battista aveva promesso alla sua fidanzata di portarle le spoglie di quel bellissimo camoscio; in ogni caso, la sua fama di grande cacciatore, e il dispetto di non aver potuto far suo, al primo incontro, il magnifico animale, hanno aperto nel suo cuore la pericolosa braccia della vanità, del desiderio di essere ammirato e invidiato dagli altri. Il Diavolo si è già insinuato, non visto né riconosciuto, nell’anima dell’uomo, fin da quando, per il dispetto di non avere il fucile con sé, ha scagliato quel sasso contro il camoscio: un gesto d’inutile violenza e di scarsa padronanza di sé, da cui traspare la facilità all’ira e alla frustrazione. Battista ancora non lo sa, ma egli è già caduto sotto il sinistro fascino del Diavolo, ben prima che questi gli appaia, spaventosamente, nello sguardo infuocato del camoscio resuscitato, annunciandogli che adesso sarà lui a portarselo via: quella inconsapevole esclamazione di dispetto, pesi come il Diavolo!, è più vera di quel che l’uomo possa immaginare, ma la sua "cattura" da parte del Maligno risale a ben prima.

Il senso dell’apologo è che gli uomini credono di catturare le cose di cui vanno in cerca, e di cui vorrebbero ornare, come altrettanto trofei, la loro vita, mente invece ne rimangono catturati a loro volta, ne divengono prigionieri, e ciò senza rendersene conto, o rendendosene conto quando ormai è, forse, troppo tardi. La tecnologia non è che l’ultimo idolo, l’ultimo feticcio eretto dall’uomo alle proprie voglie, al proprio smodato miraggio di successo e di potenza: la tecnica non è certo un male in se stessa — lo aveva ben notato anche Romano Guardini — ma lo diventa, e, di fatto, lo è già diventata, se vissuta nella dimenticanza che essa è solamente un mezzo, e se finisce per prendere il posto del fine. Il fine dell’uomo non è la tecnica, e neppure ciò che la tecnica promette e consente di fare: rendere la vita sempre più comoda, e le nostre azioni, sia materiali che mentali, sempre più facili, rapide ed efficienti. L’uomo moderno si sente gratificato da questa facilità; e, inebriato dalla propria intelligenza, dimentica di fare buon uso dei mezzi e li trasforma inconsapevolmente in altrettanti fini. Nella civiltà moderna, non è la tecnica che sta servendo alla volontà e ai bisogni reali dell’uomo, ma è l’uomo che sta servendo la tecnica, della quale si è fatto schiavo. Ciò è avvenuto perché egli si è lasciato sedurre da una quantità di falsi bisogni, sfornati a ritmo incessante dai poteri economici e finanziari che gestiscono il gran business della tecnica: e così, insensibilmente, l’uomo ha cessato di dirigere il gioco, ed è scaduto al rango di una misera pedina. Il gioco si è fatto molto più grande di lui: egli credeva di esserne padrone, e di condurlo a suo piacere nelle direzioni desiderate; invece si sta accorgendo, con un certo raccapriccio — ma solo nei rari momenti di lucidità — che qualcosa, una forza inspiegabile e malefica, lo sta trascinando là dove egli non avrebbe voluto andare, là dove si rende conto di non dover andare.

Chi o che cosa lo salverà, prima che il camoscio-diavolo se lo prenda e se lo porti via, così come lui credeva di portarsi via la sua magnifica preda? Anche su questo punto, la bella leggenda piemontese offre una risposta animata dalla virtù teologale della Speranza: non è mai troppo tardi per rivolgersi a Dio e per chiedere il suo soccorso, nonché quello dei Santi e della Madonna. Certo, quando si è spinto il gioco troppo avanti, quando ormai si è giunti sull’orlo del precipizio, vi sono comunque delle conseguenze da scontare: questo è inevitabile. Forse la nostra civiltà è già condannata; forse è troppo tardi per rimetterla sulla retta via: eppure, non è mai troppo tardi per la salvezza dell’anima…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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