
Cosa è stato il fenomeno Mattei nella storia italiana contemporanea?
23 Aprile 2016
Vincendo il mondo, Gesù Cristo ha spezzato l’inferno della storia chiusa in se stessa
25 Aprile 2016Abbiamo già avuto occasione di occuparci di un particolare aspetto dell’opera dello scrittore inglese Thomas Hardy (1840-1928), e precisamente della crisi della psicologia femminile che, dalla società di fine Ottocento, si riflette nella letteratura (cfr. il nostro articolo: Nel mondo di Thomas Hardy si riflette la donna moderna: una edonista nevrotica, pubblicato su Il Corriere delle Regioni il 15/07/2015). In questa sede, invece, desideriamo svolgere una breve riflessione sull’atteggiamento interiore di uno scrittore come Thomas Hardy nei confronti del fatto letterario, della sua creatività di romanziere, nel corso della sua lunga carriera, contrassegnata da non poche soddisfazioni e da un buon successo di pubblico e di critica. Di romanzi, Hardy ne pubblicò ben quattordici: quasi un record in confronto a scrittori come Tolstoj o Dostoevskij, per non parlare del nostro Manzoni, che ne scrisse uno solo; purché, beninteso, non si faccia il paragone con Balzac, Zola o Proust, che furono degli scrittori veramente torrenziali.
Che cosa è, per Thomas Hardy, la letteratura? Perché scrive dei romanzi, tutti d’amore, tutti malinconici, tutti caratterizzati da un atteggiamento "desiderante" alla Ludovico Ariosto, per cui non c’è mai un vero lieto fine, in quanto, anche se riescono a raggiungere l’inafferrabile, ossessivo oggetto del loro desiderio, gli eroi di Hardy finiscono immancabilmente sconfitti e delusi, dovendo scontrarsi con l’enorme differenza che esiste fra la realtà sognata e la realtà concreta, possibile, accessibile? È solo uno sfogo interiore, un modo di sublimare le sue personali esperienze affettive ed esistenziali, altrettanto deludenti e malinconiche di quelle dei suoi personaggi, o è un tentativo di cogliere la vita nel suo fluire, senza porle dogmi o verità precostituite, ma così, semplicemente, raccontandola come essa si presenta, nel suo fluire monotono, con i suoi slanci ed entusiasmi improvvisi e le sue immancabili delusioni, proprio come lo è per Anton Cechov, lo scrittore russo che, per tanti aspetti, rassomiglia ad Hardy più di qualunque altro autore europeo? E, in tal caso, la letteratura è portatrice di una qualche forma di saggezza, o, quanto meno, di una intrinseca verità che possa aiutare gli uomini a comprendere meglio quella loro avventura, quel loro pellegrinaggio, che chiamiamo vita? Oppure non c’è alcuna morale da trarre, alcuna saggezza da raggiungere, ma bisogna che lo scrittore si accontenti, umilmente e modestamente, di rappresentare persone e vicende così come si presentano alla sua immaginazione poetica e così come, dati i presupposti positivisti e darwiniani dell’Autore (Dio, quanto male ha fatto il darwinismo, in quegli anni, dilagando ovunque, anche nell’ambito della letteratura, come se non fosse bastato nella sociologia e nella politica!), li si può incontrare nella vita d’ogni giorno, con naturalezza, ad ogni angolo di strada, in ogni bottega, su ogni vettura pubblica?
Ha osservato a questo proposito Carlo Cassola, uno scrittore che, a sua volta, fra gli Italiani, è forse quello che maggiormente si avvicina ai temi e, soprattutto, ai modi di Thomas Hardy, nel saggio introduttivo a Tess dei d’Urberville (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1979, pp. 6-8):
Come romanziere di professione, egli era pronto a far concessioni al preteso gusto dei lettori. Non fu tuttavia frutto di una concessione l’insistenza sul tema amoroso. I quattordici romanzi sono tutti storie d’amore. Niente altro aveva il potere d’interessarlo e di farlo pensare. D’amore sono anche alcune delle sue più belle poesie cominciando dalla giovanile: "When I set out from Lyonnesse" ("Quando partii per Lyonnesse"), dove Lyonnesse è un antico nome della Cornovaglia). Là egli aveva incontrato Emma Lavinia: per questo ne era tornato "col magico negli occhi".Ma la magia si dissolse dopo la prima volta o dopo i primi anni di matrimonio: e la sua unione con Emma Lavinia con fu felice. Più felice la seconda unione, con Fiorenza Emilia, malgrado l’enorme differenza di età: trentanove anni! Ma che l’amore, la delusione del’amore, sia il tema costante della sua meditazione sulla vita, stanno a dimostrarlo, se non altro, le annotazioni sul diario. A ottantasei anni, la lettura di Proust lo spinse a formulare questo pensiero che l’amore si distrugge nel momento stesso in cui viene soddisfatto.
Altre patetiche annotazioni mostrano con Hardy fosse tutto ripiegati sulla propria vita, quasi la considerasse la sola possibile, la sola degna di essere vissuta: "Per l’ultima volta", "Probabilmente per l’ultima volta", "Ho incontrato Emma cinquantaquattro anni fa", "Mamma è morta vent’anni fa". Le prime sono dovute al fatto che, arrivato a ottant’anni, Hardy aveva cominciato a prendere congedo dalla vita: per cui quando vedeva qualcuno che credeva che non avrebbe pi rivisto, o andava in qualche luogo dove credeva che non sarebbe più stato, annotava: "Per l’ultima volta", o "Probabilmente per l’ultima volta". Il congedo dalla vita fu lungo, perché egli visse fino a ottantasette anni e mezzo. D’altra parte, non si trattava di prendere congedo solo dalle persone e dai luoghi reali, anche dalle persone e dai luoghi che erano stati un parto della sua fantasia. In altre parole, non si trattava di prendere congedo solo dal Dorset, anche dal Wessex.
Nell’estate del 1924 (Hardy aveva ormai ottantaquattro anni) il giardiniere del Burton Cottage a Marlott vide un vecchio signore che era appena sceso da una macchina e stava guardando dalla strada. Gli domandò se desiderava qualcosa, ma il vecchio scosse il capo dicendo: "Sto solo guardando la casa dove ho fatto vivere la mia Tess".
Il giardiniere lo riferì al padrone, che era un certo maggiore Campbell Johnson. Costui si precipitò a Max Gate dove Hardy gli confermò che, scrivendo "Tess", aveva in mente proprio la sua casa. Il maggiore non ebbe più esitazioni: il Burton Cottage è così diventato il Tess Cottage.
Il fatto poi che Hardy riandasse sempre col pensiero a quando aveva incontrato Emma Lavinia o a quando gli era morta la madre, dimostra che solo quello che gli era accaduto personalmente aveva importanza per lui. Egli poteva immedesimarsi negli altri, nei loro problemi e nelle loro aspirazioni. Non andava dietro alle idee, che sono sempre generali, solo ai sentimenti, che sono sempre particolari. Per le idee, si contentava di quelle degli altri: di Schopenhauer, o degli utilitaristi e positivisti inglesi; come sentimento, gli andava bene solo il proprio. Fu quindi sostanzialmente un conservatore, benché si definisse un progressista. Scoppiata la prima guerra mondiale, si sentì pieno di angoscia e scrisse una delle sue più belle poesie, "Al tempo dello sfacelo delle nazioni"("In time of the breating of nations"; ma l’evento non gli suggerì un comportamento coerente, come al suo connazionale Bertrand Russell.
Ormai erano molti anni che scriveva solo poesie. Gli ultimi suoi romanzi erano comparsi alla fine del secolo scorso. Gli avevano dato l’agiatezza; ma era alla lirica che egli intendeva affidare la propria fama letteraria. Ed è certo che Thomas Hardy fu il maggior poeta inglese tra Ottocento e Novecento, come da noi Pascoli, e come hanno riconosciuto quasi all’unanimità i maggiori poeti inglesi e americani del nostro secolo(la sola eccezione di rilievi è rappresentata da T. S. Eliot). Tuttavia Hardy riuscì meglio come romanziere che come poeta. Anche come romanziere egli fece scuola: il suo continuatore fu D. H. Lawrence, cioè il maggior romanziere anglosassone del Novecento
Anche altri intuirono la sua grandezza: come la Woolff, che in uno dei suoi saggi più azzeccati, arrivò a dire: "Hardy è il più grande scrittore tragico di tutti i romanzieri inglesi". Avremmo preferito un’affermazione un po’ differente: "Hardy è il più grande scrittore esistenziale fra tutti gli scrittori inglesi". In questa forma, saremmo stati pronti a sottoscriverla.
A parte alcuni giudizi temerari, e niente affatto condivisibili – come quello su D. H. Lawrence, che sarebbe stato, addirittura, il più grande romanziere anglosassone del Novecento — Cassola ha messo bene in evidenza un aspetto essenziale della vena narrativa (e anche poetica) di Thomas Hardy, che potremmo riassumere in una particolare triade costituita dall’intimismo, dal minimalismo e dall’esistenzialismo.
L’intimismo gli è profondamente connaturato, al punto che la sua scrittura è una diretta via di sfogo del sentimento personale: in un certo senso, tutta l’opera di Hardy, e non solo quella narrativa, ma anche quella poetica, è un riflesso ed una trasfigurazione, ad uso personale, del suo mondo sentimentale. Thomas Hardy (a differenza di Charles Dickens, l’altro grande romanziere dell’epoca vittoriana, ma della generazione precedente; ed è una giusta osservazione di Cassola) non scrive per gli altri, ma per se stesso. Pertanto, nella letteratura egli non cerca, propriamente, la comunicazione, ma persegue l’effusione del proprio io — e, forse, cerca di trovare un lenitivo con il quale medicare le proprie ferite. Tuttavia, essendo dotato di un Io fortemente autopunitivo, cioè tendenzialmente masochista, egli si strappa sempre via le bende e, pertanto, deve ricominciare ogni volta a medicarsi le piaghe: ecco perché scrive ben quattordici romanzi, che sono, a ben guardare, un unico romanzo ininterrotto, nel quale seguita a marciare sul posto, senza allontanarsi d’un passo dalla situazione iniziale. È il destino delle anime introverse e malinconiche: girano all’infinito su se stesse, smarrendosi nel labirinto da loro stesse evocato, per dichiarare, infine, che la vita è tutta una irrisolvibile contraddizione e che non esistono varchi o passaggi di sorta: ma solo perché essi non li sanno vedere, e, forse, neppure lo vogliono. In loro non c’è evoluzione, ma eterna ripetizione dell’uguale: leggere la prima opera e l’ultima d’uno scrittore di tal genere non presenta sostanziali differenze, specie per quanto riguarda la filosofia di fondo: la loro visione della vita non conosce mutamenti, è statica, e, in un certo senso, extra-temporale. Infatti, le situazioni affettive che si creano fra i personaggi attingono a una specie di nostalgia dell’assoluto: e, dal momento che, nella vita terrena, non si trova nulla del genere, essi finiscono per girare in cerchio e tornare sempre al punto di partenza. Proprio come avviene, appunto, nello spazio circolare dell’Orlando Furioso, così caratteristicamente moderno (mentre lo spazio della Divina Commedia è verticale, verso il basso o verso l’alto, perché Dante, uomo delle certezze e non del dubbio, sa dove vuole andare ed è squisitamente non moderno).
Il minimalismo è la vena costante e, per così dire, lo sfondo, l’atmosfera, il presupposto del mondo poetico di Hardy: la volontà di non scrivere cose grandi, ma cose d’ogni giorno, o meglio, l’assoluta impossibilità di fare diversamente. Si tratta di un aspetto che lo avvicina ai nostri crepuscolari, specialmente a Marino Moretti (assai meno a Guido Gozzano, per via della mancanza d’ironia e di auto-ironia), oltre che al già citato Cechov e, per l’appunto, a Carlo Cassola (nonché a Pascoli, come notato da quest’ultimo, ma in termini estremamente vaghi e generali: mentre la somiglianza è essenziale). Cassola ha sentito Hardy come un proprio fratello d’elezione, un’anima spiritualmente affine: secondari l’uno e l’altro — in senso psicologico — in maniera quasi morbosa, cioè costituzionalmente incapaci di scordare e superare le esperienze, specie quelle deludenti; ripiegati, introspettivi, e, nello stesso tempo, affascinati dal particolare, dalla oggettività delle descrizioni banali, dalla meticolosa registrazione di dati, sia provenienti dal mondo fisico, sia da quello interiore, con imparziale e sovrana (ma solo apparente) leggerezza. Sia Hardy che Cassola cercano l’universale nel particolare, anzi, nel minimo: un concetto vagamente panteista e vitalista e, senza dubbio, imparentato con il taoismo e il buddismo zen. Tutto l’universo si riflette in un granello di sabbia: non occorre fermare l’attenzione sulle grandi cose; in quelle piccole c’è già tutto, basta imparare a guardar bene e a saper ascoltare i sussurri più lievi.
L’esistenzialismo, infine, è la cifra complessiva dell’universo di Thomas Hardy, perché i suoi personaggi sono tutti colti in situazione. Sono gettati nel mondo, come direbbe Heidegger; e si arrabattano meglio che possono (anche se, come ha notato giustamente Cassola, la cornice filosofica d’insieme deriva soprattutto da Schopenhauer, o meglio, è letteralmente presa a prestito da questi). Si dibattono fra la cieca volontà di vivere, d’inseguire e cercar di afferrare ciò che sembra loro indispensabile per non morire (l’amore) ed il vago desiderio di piantar tutto e ritrarsi in una posizione di contemplazione pura, consapevoli, anche se abbastanza vagamente, della infinita vanità del tutto, per dirla con Leopardi. Ed è, a ben guardare, l’inevitabile contrasto fra Darwin e Schopenhauer: la vita è lotta, ma è anche, in ultima analisi, una lotta priva di scopo e priva di senso. La figura dell’inetto, la più squisitamente moderna, sembra fare capolino tra le righe: inevitabile risultato dell’azione di due spinte interiori perfettamente opposte. Ma non bisogna chiedere conto a Thomas Hardy di tali contraddizioni del suo pensiero: egli non è un filosofo, e la filosofia (altrui) gli serve solo come pezza d’appoggio. È un poeta, uno scrittore umbratile e patetico, che vive il passaggio dal naturalismo al decadentismo e incomincia a dubitare di molte, troppe cose. Di tutte…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels