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E. T. A. Hoffmann ha visto l’infinito che si cela dietro la normalità del quotidiano

Fra tutti gli autori del Romanticismo tedesco ed europeo, Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, nato a Königsberg nel 1776 e morto a Berlino nel 1822, genio complesso e poliedrico (oltre che scrittore, fu musicista di talento, pittore e giurista) è, probabilmente, quello che più di tutti ne ha incarnato l’anima sognatrice e inquieta, allucinata e onirica, angosciata e, a suo modo, religiosa, se non addirittura mistica.

La sua vita sui è svolta tutta fra la natia Königsberg (la città di Kant, del quale aveva seguito, per un periodo, le lezioni), Glogau, nella Bassa Slesia, Plock, in Masovia, Varsavia (ex capitale della Polonia che allora, per alcuni anni, fu annessa al regno di Prussia, indi eretta da Napoleone a capitale d’un ducato filo-francese), Posen, in Posnania, e infine Bamberga, nell’Alta Franconia (Baviera). Sono tutte località orientali, ad eccezione dell’ultima; tutte poste nella zona tedesca dell’est, a contatto con il mondo slavo, specialmente polacco, là dove il luteranesimo conviveva pacificamente con il cattolicesimo; sua moglie, Maria Thekla Michalina Rorer-Trzynska (1781-1859), detta Rohrer, era polacca, cattolica, e l’aveva sposata in una chiesa cattolica di Posen, quella del Corpus Christi; lui stesso compose una delle sue musiche più belle, sei canti per coro, dedicandoli alla Vergine Maria.

Questi elementi biografici sono importanti per capire il retroterra culturale e, più ancora, spirituale dello scrittore, nel cui carattere è sempre presente un elemento d’inquietudine che di solito viene interpretato come tipicamente romantico: le bevute eccessive, il vagare da una osteria all’altra, l’insofferenza della disciplina – lui magistrato statale, perpetuamente sballottato da una città di provincia all’altra, a volte per punizione -, il rifiuto della morale borghese (la rottura del fidanzamento con la cugina e il far circolare le caricature di alcuni importanti personaggi), insomma il suo istinto di bohemienne, che lo portava a privilegiare l’arte in modo assoluto, al punto che per giorni non aveva nulla da mangiare o con cui sfamare la sua famiglia.

In realtà, non si tratta solo di questo: nella vita e nell’opera di Hoffmann s’intravede una radice d’inquietudine più profonda che non quella legata al momento storico. Hoffmann non è un Byron o un Childe Harold; non è uno Stürmer, o un Novalis o un Hölderlin, assetato d’infinito; eppure, a suo modo, è un’anima veggente e tormentata: tormentata dalle sue stesse visioni, le quali, talvolta, lo innalzano fino al Paradiso; vi è qualcosa dell’anima sognante degli Slavi, in lui, e più di qualcosa del sentimento cattolico della lotta fra il bene e il male, che ha per teatro il mondo, ma, prima di tutto, le profondità del cuore umano. Non solo il suo temperamento è imprevedibile e indecifrabile, soggetto a sbalzi d’umore (egli soffrì sempre di crisi d’angoscia ricorrenti), lacerato fra un bisogno di ordine e un istinto a lasciarsi andare al gioco delle passioni; nella sua stessa opera si riflette una lacerazione interiore che viene trasfigurata nella creazione artistica. Perfino il suo aspetto fisico ha qualcosa di anomalo: non sembra affatto, come pure è, un tedesco del Nord; al contrario, nella sua fisionomia vi è qualcosa di latino, di spagnolo, quasi di zingaresco: tutto egli sembra, tranne che un sobrio e severo prussiano. Quel volto lungo e scavato, con le guance infossate; quello sguardo fermo, malinconico, che par custodire un doloroso mistero; quei capelli scuri, folti e ricci, quelle lunghe basette, quella barba mal rasata, fanno pensare ad un artista meridionale, non certo a un austero funzionario proveniente dalla regione più settentrionale e più "teutonica" della Mitteleuropa. Ma il mistero più grande è quello dei suoi sogni.

Come Edgar Allan Poe, e , più tardi, Howard Phillips Lovecraft, anche E. T. A. Hoffmann è un sognatore accanito, voluttuoso, che prende estremamente sul serio i propri sogni: essi racchiudono la vera realtà, mentre la cosiddetta realtà della veglia, la realtà ordinaria, materiale, per lui non è che un sogno, un pallido riflesso della realtà "vera". Se non si tiene presente questo ribaltamento, questo totale rovesciamento della prospettiva esistenziale, non si può comprendere il senso ultimo di opere come i «I racconti fantastici alla maniera di Callot» (1814), «Il vaso d’oro» (1814), «Gli Elisir del Diavolo» (1815-16), i «Racconti notturni» (1816-17) e «I confratelli di Serapione» (1819-21), ma si si rimane fatalmente alla superficie.

Albert Béguin (La Chaux de Fonds, Svizzera francese, 1901- Roma, 1957), notevole critico letterario e membro della Scuola di critica letteraria di Ginevra, ha delineato questa lettura dell’opera di E. T. A. Hoffmann, nel suo ormai classico saggio «L’anima romantica e il sogno (titolo originale: «L’âme romantique et le rêve», Paris, Librairie José Corti, 1939, 1960; traduzione dal francese di Ulrico Pannuti, Milano, Il Saggiatore, 1967, pp. 402-403; 405-406; 408-409):

Non occorre intrattenersi a lungo con lui, neppure nei suoi scritti da giornale d’appendice, per capire che gli spettri e i vampiri sono sempre, per lui, l’incarnazione di certe profondissime ossessioni personali. Certo egli crede, in larghissima misura, a quegli esseri malefici e non li evoca senza tremare. E, d’altro canto, dotato egli stesso d’un organismo stranamente sensibile, soggetto ad allucinazioni e a momenti d’intollerabile tensione nervosa, egli s’interessa, da psicologo, di tutti i fenomeni morbosi che possono turbare la coscienza chiara e confinare con la follia. Ma né lo studio di tali accidenti né il bisogno di assaporare lo spavento bastano a spiegare il meraviglioso hoffmanniano. Noi sentiamo che si tratta d’altro che di gioco o d’interesse scientifico. Egli stesso ha cura d’avvertirne il lettore, tanto nei colloqui dei "Fedeli di San Serapione" che incorniciano i suoi racconti, quanto nell’interno delle sue opere miglioro. Perciò Cyprian è evidentemente il portavoce di Hoffmann, quando, in uno dei colloqui, spiega i motivi che lo indussero a interrogare gli alienati.

"Io credo che, appunto mercé i fenomeni anormali, la Natura ci conceda di gettare uno sguardo nei suoi più temibili abissi; e in realtà, anche nel colmo di quello spavento che mi ha spesso invaso, durante quegli strani rapporti con i pazzi, molte volte sorsero nel mio spirito intuizioni e immagini che gli diedero una vita, un vigore e uno slancio singolari. […]

In ogni uomo vi sono ognora due simultanee aspirazioni, una verso Dio, l’altra verso Satana", ha detto Baudelaire, e questa sentenza potrebbe definire gli "Elisir del Diavolo". Non vi è altra opera che riesca a evocare con tale potenza la regione interiore ove siamo preda delle nostre "aspirazioni" essenziali, il campo di battaglia dove si azzuffano le nostre più profonde tendenze. Hoffmann, meravigliosamente dotato per tal genere di esplorazioni, sapeva che, in quelle zone dell’inconscio dove si può discendere solo rimanendo stretti alle immagini, siamo meno strettamente imprigionati nel nostro io limitato, e insieme in più immediati contatto con quanto ci ricollega alle nostre origini ancestrali; la grande affinità che unisce tutti gli uomini, attraverso le generazioni immemorabili e oltre le barriere dello spazio, resta viva e presente in quell’esistenza segreta, anche quando la nostra coscienza attuale lo ignora. Qui il bene e il male non sono più le qualifiche riservate ai soli atti responsabili dell’individuo, perché, nel regno donde è scaturita la conoscenza particolare dei miti inventati dai popoli, l’individuo non più esiste se non legato a tutti gli altri, portatore della stessa sorte. Egli combatte non solo il proprio peccato, ma quell’aspirazione al peccato che, comune a tutti gli uomini, ha assunto la figura del Maligno: l’incesto commesso da un antenato qui significa la partecipazione di ciascuno alla colpa di tutti. Ma, soccorrevoli intercessori, altre figure mitiche abitano quelle profondità, angeli attenti alla sorte d’ogni creatura perché anch’essi sono coinvolti nel comune destino. […]

Gli "Elisir del Diavolo", la cui estrema ricchezza di motivi intrecciati non possiamo qui analizzare, ricorrono al sogno per mettere meglio in luce le relazioni della vita inconscia con il destino mitico della creatura, in cui si scatena l’inesorabile lotta delle avverse forze. Taluni episodi di questo affannoso romanzo sono d’una straordinaria potenza allucinatoria, e vi si sente palpitare l’angoscia d0un essere umano tormentato dal rimpianto dell’armonia perduta, di un paradiso di fronte al quale la sua esistenza terrena non è più se non infernale tortura. La prima parte, che Hoffmann scrisse in tre settimane, fu cominciata lo stesso giorno in cui egli terminava il manoscritto del "Vaso d’oro", cioè la più perfetta evocazione del paradiso sospirato. Nel momento in cui terminava questa prima parte, Hoffmann scriveva al suo editore, il mercante di vini, Kunz: "Oneiros, il dio dei sogni, mi ha ispirato un romanzo, che scaturisce da me, ornato dei più vivi colori… Il suo intento non è mediocre: si tratta di mostrare in piena lue, nella vita bizzarra e tortuosa d’un uomo sottopost fin dalla nascita all’azione delle forze celesti e demoniache, i misteriosi legami dello spirito umano con tutti i principi superiori che, dissimulati nella natura, si manifestano solo a sprazzi."

Il dio dei sogni ha dettato a Hoffmann le opere più drammatiche e cupe, come anche i racconti più stupendamente leggeri e luminosi. Lo scrittore, in dimestichezza con il sogno fin dalla giovinezza, conobbe in esso il dialogo con le potenze delle tenebre e con gli angeli. Ora le sue lettere di dolgono del sogno, pieno di vision i tragiche o di penosi ricordi; ora parlano della magnificenza degli spettacoli onirici e della loro poesia.

L’opera letteraria di E. T. A. Hoffmann (quella musicale e quella pittorica meritano, ovviamente, un discorso a parte) è una delle più inquietanti e, nello stesso, delle più affascinanti fra quante hanno tentato di esplorare il mondo misterioso che si estende al di là della barriera dei sogni. È come se lo scrittore tedesco, nato "per sbaglio" in una severa e compassata famiglia prussiana, che aveva dato alla patria e alla religione tanti avvocati e funzionari di stato e tanti pastori luterani, si sia impegnato a demolire, a colpi di piccone, il diaframma — sottile, in verità: molto più sottile di quel che non si possa immaginare — che separa la dimensione onirica e notturna da quella diurna, logico-razionale, per mostrare al lettore, accompagnandolo per mano con una strana leggerezza, quanto sia fallace e illusoria la percezione che egli ha del mondo d’ogni giorno.

Della realtà quotidiana, Hoffmann non coglie soltanto il carattere transitorio e ingannevole; egli vede soprattutto la componente di bizzarria, d’inverosimiglianza, quasi di grottesco, che appartiene alle cose ordinarie, alle situazioni che, banalmente, ci si presentano come "normali": e ci mostra come, grattando appena un poco sotto la superficie, la realtà si rivela completamente diversa da come l’avevamo creduta. Il mondo è un labirinto percorso incessantemente da forze possenti di natura non umana: forze benefiche, creature angeliche, ma anche forze maligne e creature demoniache. In un racconto (appartenente alla raccolta «I confratelli di Serapione»), «Il Diavolo a Berlino», che sembra precorrere la comparsa del Professor Woland nella Mosca degli Anni Trenta del Novecento, così come verrà descritta da Michail Bulgakov ne «Il Maestro e Margherita» (chissà se lo scrittore russo aveva letto Hoffmann e se ne aveva tratto ispirazione; certo lo fecero, oltre a Poe, e cin molto profitto, anche Baudelaire, Balzac e Dostoevskij), questa irruzione dell’altro mondo nel nostro, in quello che crediamo "nostro" solo perché pensiamo di conoscerlo, mentre non ne sappiamo quasi nulla, assume un carattere esplicito: Satana si presenta in una moderna capitale europea e incomincia a tessere la sua opera nefanda sotto lo sguardo insospettito dapprima, poi inorridito, degli esseri umani che è venuto a tormentare.

Hoffmann ha sentito, come pochi, la presenza di una dimensione "abissale" nelle profondità dell’anima umana: un doppio richiamo interiore, verso il Cielo e verso l’Inferno: e ne è rimasto folgorato, ma anche affascinato. Non è stato capace di dare compiutezza e serietà alla sua notevole intuizione: non le ha dato una "risposta" sull’unico piano ove essa la può trovare, quello metafisico e, soprattutto, religioso. È rimasto, per così dire, a mezza strada, quasi catturato e come ipnotizzato da quel mondo incredibile, multiforme, sempre cangiante, che si agita nel nostro cuore; si è fermato all’aspetto, per così dire, più esteriore, da cui deriva l’intonazione spesso "leggera", nel senso di grottesca e surreale, di tante sue pagine. Chi ha visto gli Angeli e i Diavoli, e non dubita più che in essi si celi il segreto della vita "vera", non può continuare a vivere come prima: deve convertirsi, o impazzire. Sembra che E. T. A. Hoffmann non sia riuscito a compiere questa scelta decisiva, che è di tipo etico; forse, non ci ha neanche provato. Peccato: non è stato all’altezza dei suoi stessi sogni…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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