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La distruzione della fede mediante la ragione provoca una ferita immedicabile

Il cristianesimo ha impiegato più di mille anni per giungere ad una sintesi armoniosa tra la dimensione della fede e quella della ragione; per far sì che l’una e l’altra si sostenessero a vicenda, o, per meglio dire, per far sì che la ragione libera e spregiudicata non andasse contro la fede e non si rivolgesse contro l’uomo, con la scusa di meglio servirlo e di rendergli l’esistenza più facile e più comoda. Procedendo sulle orme di Aristotele, il più grande filosofo del Medioevo, san Tommaso d’Aquino, ha affidato ai posteri un’opera immensa, mirabile per sapienza, acume e perfetta concatenazione logica, come una meravigliosa cattedrale slanciata verso l’alto, nella quale ogni elemento strutturale – ogni parete, ogni arcata, ogni colonna, ogni volta – si sostiene per mezzo degli altri e rimane miracolosamente sospeso per effetto di un somma di spinte e controspinte, di un gioco sapientissimo di equilibri statici che consentono al tutto di realizzare e conservare una sintesi dinamica, in cui il peso della materia sembra quasi smaterializzarsi, così come, nelle pagine della «Summa Theologiae», la pesantezza del pensiero trae leggerezza, forza e slancio ascensionale dalla fede, a cui si affianca e che, a sua volta, integra e rende intelligibile.

La filosofia greca è molto più unilaterale, perché si fonda sul puro Logos, che non esprime tutte le potenzialità conoscitive del soggetto pensante, ma solo una parte di esse; è merito imperituro della filosofia cristiana aver cercato, trovato ed esaltato l’incontro, stimolante per entrambi, del pensiero puro e della fede come atto del pensiero sovra-razionale. Ma ci sono voluti, appunto, più di mille anni: dalla teologia di san Paolo a quella di san Tommaso, passando per sant’Agostino, Roberto Grossatesta, Alberto Magno, san Bonaventura, Ruggero Bacone. Con Giovanni Duns Scot, in parte, ma soprattutto con Guglielmo di Ockham, nel XIV secolo, questa grande, meravigliosa sintesi di fede e ragione incomincia già a sciogliersi, ad andare in crisi: si nega il concetto di sostanza, si nega la conoscenza universale, subentrano lo scetticismo e il soggettivismo. La filosofia imbocca, prima ancora che si concluda il Medioevo, il sentiero discendente che porterà alla schizofrenia moderna, alla lacerazione immedicabile tra la verità della fede e quella di ragione.

Nondimeno, così salda e mirabile era stata l’opera del pensiero cristiano, che ci vorranno ancora alcuni secoli prima di distruggerne completamente, una ad una, tutte le acquisizioni; prima di condurre la mente umana davanti al vicolo cieco, al muro invalicabile che ne ha bloccato ogni possibile progresso, e che lo ha reso preda di un senso crescente di oppressione, angoscia, disperazione, distruggendo non solo la nozione di una verità oggettiva, universale, immutabile, ma perfino l’idea dell’unità della coscienza, e sostituendola con un vitalismo radicale, che si risolve nel fluire incessante di pensieri e sensazioni e in una sorta di continuo sdoppiamento, anzi, di una continua frammentazione in tante, innumerevoli sub-personalità, ciascuna delle quali con la "sua" verità, momentanea e contingente, da far valere ad ogni costo, perché, quasi per reagire alla loro elusività, ciascuna di esse si pone con prepotenza, con arroganza, al centro della scena, sfruttando al massimo il poco tempo che le viene concesso prima di soccombere ad altri stati dell’io, ad altre manifestazioni della coscienza. Bisogna arrivare fino al XIX e al XX secolo, insomma, perché si compia definitivamente l’opera di distruzione intrapresa nel tardo Medioevo da pensatori come Guglielmo di Ockham, e perché non solo nel campo della filosofia, ma anche in quello della poesia, della letteratura, delle arti figurative, della musica, trionfino quello stesso soggettivismo esasperato e quel medesimo relativismo radicale, sterile, impotente, che si erano affacciati alla ribalta, pur se parzialmente adombrati e quasi velati dal timore della loro stessa audacia, nel XIV secolo.

Il pensiero moderno, che è laico, secolarizzato e tendenzialmente anticristiano, per divenire poi, a partire dal XVIII secolo, apertamente anticristiano e deliberatamente irreligioso (a meno di voler considerare una forma di religione il deismo di stampo massonico), ha rotto scientemente gli ultimi ponti con la teologia e con la metafisica, accentuando la sensazione di frustrazione ed impotenza dell’uomo, sempre più avviluppato in una ragione soggettiva che, di delirio in delirio, giunge, con l’idealismo hegeliano, al folle concetto che non l’essere crea il pensiero, ma il pensiero crea l’essere; e, con gi utilitaristi inglesi, all’altra folle idea, che è vero non ciò che è vero, ma è vero ciò che risulta più conveniente (già; ma conveniente per chi?). Inutile dire che esso ha impiegato gran parte delle sue energie per distruggere quel poco che ancora sopravviveva della grandiosa sintesi medievale di ragione e fede, cosa del resto logica e inevitabile, una volta rifiutato Dio e una volta consegnato l’uomo, ontologicamente, alle sue dicotomie e alle sue contraddizioni: «quel doppio uomo che è in me», diceva messer Francesco Petrarca, il primo dei moderni, imitando un tema caro a sant’Agostino, ma che sant’Agostino aveva pienamente risolto nell’incontro della ragione con la fede, cosa che i moderni non hanno voluto neppur tentare.

Logico anche questo, d’altra parte: a che scopo tentar di ricostituire l’unità della coscienza, e quindi l’unità del sapere, una volta stabilito che non vi è alcun "io" a sostenere la coscienza, e che non vi è bisogno di alcun Dio per garantire un principio assoluto di verità? Se tutto è aleatorio, contingente, accidentale, perché mai prendersi la briga di superare una condizione di assurdità strutturale, di aporia ontologica? Meglio farsi una ragione di tutto ciò e lavorare su un pensiero che, per il fatto di dover nuotare in acque sempre più basse, sempre più fangose, dovrà sempre più accontentarsi di piccole verità fuggevoli e di frammenti di conoscenza sempre più sparsi e sempre più difficili da decifrare, come difficile è collocare le tessere di un mosaico il cui disegno generale sia andato completamente in frantumi, insieme all’idea che lo aveva generato. Meglio, soprattutto, sfruttare i vantaggi di una tale situazione di estraniamento dell’uomo da se stesso: vale a dire, meglio celebrare i rapidi e non ripetibili trionfi di un Logos sempre più caratterizzato in senso strumentale e calcolante, sempre più rivolto al dominio sulle cose e sempre meno sulla conoscenza "pura" e disinteressata. Che importa sapere cosa sia l’essere, quale sia la trama complessiva del disegno cosmico, ammesso che ne ve ne sia una, dal momento che nessun occhio umano riuscirà mai a scorgerla e nessuna mente umana riuscirà mai a comprenderla? Tanto vale concentrarsi tutti sul qui e ora, sull’esistente, sulla realtà così come ci appare, per strappare ogni possibile vantaggio da una siffatta situazione, rinunciando per sempre a cercare qualcosa di più.

A questo punto, però, è subentrato una specie di corto circuito della ragione stessa, e ciò in conseguenza di un vero e proprio errore filosofico della ragione moderna nei confronti della natura dell’uomo. Elemento costitutivo della natura umana, infatti, è il bisogno di senso: il continuo chiedersi che senso abbiano le singole cose, le singole azioni, e che senso abbia (o, al limite, non abbia), il tutto. Se si sopprime questa tensione gnoseologica, questo slancio finalistico del soggetto umano, si fa un grave torto alla reale natura dell’uomo, perché si opera una mutilazione arbitraria, e dunque una autentica violenza, sul suo statuto ontologico. In parole più semplici: di una creatura fatta per guardare il Cielo, si è preteso di fare una creatura delle tenebre, della notte, delle caverne; di uno splendido gabbiano dalla immense ali, capace di volare senza soste dall’uno all’altro Polo, si è voluto fare un pipistrello crepuscolare. Si è trattato di una grave forzatura, i cui effetti negativi si sono sommati alla limitazione dell’orizzonte conoscitivo alla sola sfera dell’immanente e del finito, e allo sdoppiamento dell’uomo in un essere che vive e in un essere (anzi, a rigore, in numerosi esseri: uno, nessuno e centomila) che si osserva, per così dire, dall’esterno, nell’atto di vivere, di pensare, d’interrogarsi. E tale è la nostra situazione attuale: quasi un infinito gioco di specchi.

All’origine di tutto questo disagio e di questo malessere, tuttavia, c’è sempre la distruzione della fede mediante la ragione: ossia l’operazione più diabolica, nel senso letterale del termine, che l’uomo potesse mai intraprendere, e che ha effettivamente intrapreso, a partire soprattutto dal XVIII secolo. La ragione non è stata data all’uomo per esse brandita come un’arma contro la fede, ma, al contrario, per sostenere quest’ultima, o, per meglio dire, allo scopo di chiarificare e spiegare, per quanto possibile, quel che vi è in essa d’intelligibile, e per prendere atto di quel che non è suscettibile di ulteriore spiegazione, sul piano della ragione stessa; ma sempre nel rispetto del limite, ossia nella consapevolezza che i misteri della teologia rimarranno tali per la sola ragione, mentre acquistano un significato se la coscienza si affida, di fronte ad essi, a una forza superiore alla ragione: quella della fede, intesa come il gradino successivo rispetto alla ragione, e non come la negazione o la distruzione della ragione medesima.

Ora, se la ragione adopera tutta la sua forza speculativa e dialettica non per cooperare con la fede, ma per distruggerla, essa può anche riuscirci (sia pure al prezzo di una falsificazione concettuale: perché l’ambito della ragione essendo solo in parte lo stesso, la ragione non potrà mai colpire al cuore la fede, così come una creatura di questo mondo non potrà mai colpire a morte una creatura dell’altro mondo), ma, subito dopo, si troverà ad esser vittima, per così dire, di se stessa e delle sue armi: e assisteremo alla distruzione della ragione mediante la ragione stessa. Gran parte della filosofia del XX secolo si risolve in quest’opera sterile e, quel che è più triste, assolutamente inutile, oltre che sommamente dannosa per l’equilibrio e per la conservazione dell’istinto vitale dell’uomo stesso (dal momento che un uomo il quale non sappia perché sta vivendo, è anche un uomo scarsamente motivato ad amare la propria vita). Quel che fa amare all’uomo la propria vita non è la ragione, ma la fede: la ragione sa trovare mille ragioni per disprezzare la vita, alla fede ne basta una soltanto per riconoscerla come la cosa più preziosa al mondo.

Ebbene, l’uomo moderno ha fatto di tutto per distruggere in se stesso la dimensione della fede, cioè l’abbandono fiducioso a Dio e la convinzione, pre-razionale e sovra-razionale (ma, di per sé, niente affatto irrazionale), che esista un ordine del mondo; che quest’ordine sia finalizzato al bene; che sia voluto da Dio e che sia aperto alla libera e volontaria collaborazione dell’uomo. La fede, in realtà, è un meccanismo molto delicato: una volta smontato e distrutto mediante l’opera dissolvente della critica razionalistica, è difficilissimo, se non impossibile, ricostruirlo. È molto più facile che la fede nasca là dove non c’erano mai stati il dubbio sistematico e la critica operata dalla ragione; ma, laddove questi elementi siano stati lasciati liberi di operare incontrastati, la fede si dissolve, e nulla e nessuno la potranno riportare in vita — umanamente parlando, beninteso. Perciò, il danno che l’uomo provoca a se stesso, derubandosi di una dimensione essenziale del suo medesimo essere, è incommensurabile; e, inoltre, esso apre una ferita immedicabile, che nessun medico potrà risanare. Nessun medico umano, quanto meno, lo ripetiamo; solo Dio lo potrebbe. Ma Dio, per agire, ha bisogno del consenso dell’uomo: non può agire contro la sua volontà, perché ne distruggerebbe la prerogativa che ne fa un essere libero, creato, appunto, a somiglianza di Lui.

La Nemesi dell’uomo moderno, così orgoglioso della sua ragione e delle conquiste che ha strappato per mezzo di essa, anche e soprattutto in termini di dominio sulle cose, principalmente mediante la scienza e la tecnica, consiste nel fatto che egli, accecato dalla superbia, ha finito per rivolgere lo strumento potentissimo, ma pericoloso, di una ragione sciolta dai suoi stessi limiti, contro se stesso: perché la ragione, a quel punto, è diventata la sua solitudine, la sua condanna e la sua maledizione. Ed egli ne è divenuto la vittima. La ragione utilizzata in questa maniera, cioè in senso puramente distruttivo (come quasi tutti gli intellettuali moderni si sono compiaciuti di fare; e v’è qualcosa di satanico in tale compiacimento), è divenuta uno strumento non per amare la vita, ma per odiarla, per detestarla, per insultarla: da Leopardi a Schopenhauer, da Eduard von Hartmann a Sartre, da Pirandello a Montale, da Gadda a Eco, lo spettacolo è sempre lo stesso: quello di una ragione che ha preso in odio la vita, dopo aver distrutto l’incanto del mondo, lo splendore del divino, la fede nell’Assoluto, senza essere stata in grado di sostituire tutto ciò con qualcosa che fosse suscettibile di un nuovo incanto e d’una nuova fede. L’incanto del mondo, una volta offuscato, non tornerà più a splendere nel cielo della coscienza; e la luce della fede, una volta spenta dalla critica demolitrice della ragione, non brillerà mai più e non tornerà a rischiarare le zone oscure dell’esistenza.

Ecco: l’uomo moderno si è rivelato il vero, implacabile nemico di se stesso. Prospero l’aveva intuito, e per questo ha bruciato i suoi libri di magia, prima di lasciare l’isola de «La tempesta»; ma i filosofi e gli scrittori, poi, non hanno mostrato un decimo della profonda saggezza di Shakespeare. Non hanno riconosciuto in se stessi alcun senso del limite; han voluto ricostruire la torre di Babele: ora ne pagano le conseguenze. Solo Dio, ormai, li può salvare. Ma saranno disposti a essere salvati?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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