
La modernità è l’epoca della secolarizzazione, cioè dell’allontanamento dell’uomo da Dio
15 Febbraio 2016
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16 Febbraio 2016I veri nemici del cristianesimo, oggi, in Europa, non sono più l’ateismo militante, l’anticlericalismo d’assalto e il materialismo aggressivo, come lo erano nel XVIII e soprattutto nel XIX secolo; a partire dai primi decenni del XX secolo, il vero nemico si va configurando, sempre più, come quello che potremmo definire l’umanesimo dell’indifferenza: un misto di antropocentrismo, di relativismo, di edonismo, di consumismo e, più di ogni altra cosa, di una diffusa, ubiquitaria, dura e inamovibile scorza di agnosticismo e di vero e proprio indifferentismo, anzi, addirittura di fastidio e di ribrezzo nei confronti di tutti i valori forti, di tutte le certezze e di tutte le verità, a cominciare da quelle di matrice spirituale e religiosa.
I philosophes del’illuminismo volevano mostrare la "ragionevolezza" del cristianesimo, cioè svuotarlo dall’interno della sua essenza, della sua specificità, del suo "scandalo" (come avrebbe detto Kierkegaard); i pensatori della sinistra hegeliana, come Feuerbach e Marx, volevano smascherare l’inganno dei preti, denunciare l’alienazione religiosa e reclamare, per l’uomo, la piena e totale padronanza di se stesso e del suo destino; Nietzsche, che avrebbe avuto un seguito immenso e un’influenza duratura, annunciava la morte di Dio e il prossimo avvento di una umanità completamente rinnovata; gli esistenzialisti alla Sartre, a loro volta, partivano dalla pura e semplice constatazione della inesistenza di Dio, davano per scontato che l’uomo deve prendere in mano la sua libertà, ciò che, supremo paradosso, costituisce la sua maledizione e la sua infelicità, la sua nausea, il suo male di vivere.
Ora, tra la fine del XX e il principio del XXI secolo, con la fine della Guerra fredda e la dissoluzione delle ideologie moderne, non c’è più bisogno di atei; l’ateismo è già una maniera di prendere sul serio il problema di Dio; oggi è sufficiente non pensare affatto alla dimensione del sacro e a quella del divino, non chiedersi che ne sarà dell’uomo dopo la morte, non domandarsi che senso abbia l’esistente, e, con esso, il nostro esserci; oggi, a tutte queste "vecchie" domande e a questi "vecchi" atteggiamenti, basta sostituire la perfetta indifferenza, non solo nei confronti del problema di Dio e dell’esistenza dell’anima, ma nei confronti di qualsiasi altra cosa si riferisca alla dimensione del trascendente e del soprannaturale, per qualsiasi altra cosa che esuli dall’orizzonte immanente e materiale, insomma per tutto ciò che oltrepassa il mero e nudo dato dell’esistenza, qui e ora, senza domande sul futuro, sul passato, sul come e sul perché, paghi di una scienza che rivendica la propria autosufficienza e che dichiara di non aver bisogno di ipotesi metafisiche per offrire agli uomini una spiegazione esaustiva del mondo.
Naturalmente, è paradossale il fatto che la religione cristiana, nata in Palestina, ma diffusasi dapprima nel Medio Oriente e in Grecia, poi in Europa e Africa settentrionale, infine ridotta, per circa un migliaio di anni, alla sola Europa, anzi, a una sola porzione di essa, e minacciata entro le sue stesse frontiere da nemici aggressivi e implacabili (i Vichinghi e gli Ungari pagani, i Saraceni e i Tartari musulmani), e che ancora nel 1529 e nel 1683 stentava a difendere il proprio cuore dall’assalto dei Turchi Ottomani, si sia diffusa in tutto il mondo, e si estenda, oggi, al 33% della popolazione mondiale, vale a dire circa 2 miliardi e 200 milioni di persone; ma che, nel frattempo, proprio l’Europa, il suo cuore pulsante e generoso, si sia quasi completamente inaridito, si sia allontanato da essa e sia tornato ad essere terra di missione, mentre la maggioranza dei cristiani sono ormai fuori di essa, sparsi negli altri continenti, a cominciare dall’America Latina.
Ora, il paradosso è proprio questo: che una religione antica di duemila anni, e tuttora in piena fase di espansione a livello mondiale, segno della sua perenne freschezza e della vitalità e universalità del suo messaggio, stia, però, dal continente che l’ha originariamente accolta, elaborata, e poi esportata nel mondo; dal continente che le ha offerto le basi culturali della tradizione greca e romana; che la ha, anche, in parte trasformata, o, se si preferisce, che l’ha adattata alla propria sensibilità, nel senso che ne ha temperato la matrice giudaica, troppo lontana, in se stessa, dalla sensibilità e dal modo di pensare degli Europei, per sviluppare al massimo grado gli apporti del pensiero greco e della mentalità giuridica romana, indi per incarnare l’ideale evangelico nel robusto e avventuroso temperamento germanico, dopo che questo, a sua volta (o mentre questo, a sua volta) andava attenuando i suoi caratteri "violenti": era l’epoca delle migrazioni dei popoli e dell’incontro-scontro con la civiltà romana, la quale, a sua volta, aveva fatto suo l’ideale cristiano, venendone profondamente trasformata.
La civiltà romana si era espressa nella forza militare e nel diritto, ma anche nella violenza spietata e nella schiavitù: i combattimento dei gladiatori erano stati il simbolo, odioso e crudele, del suo culto per la legge del più forte e del suo godimento sadico per la sofferenza del nemico vinto; ma ecco che un imperatore cristiano, Onorio, al principio del secolo V, li aveva aboliti per sempre, facendo suo un nuovo ideale, di natura spirituale, basato sull’ammirazione per l’uomo mite, laborioso, pacifico, onesto, compassionevole: in fondo, l’ideale virgiliano, sfrondato della retorica militarista e nazionalista della missione di Roma nel mondo. Ebbene, la stessa cosa era avvenuta, poco dopo, nei confronti dei fieri e selvaggi popoli che avevano oltrepassato il limes del Reno e del Danubio, come foederati dapprima, indi come invasori e conquistatori. Infine la civiltà europea si era interamente cristianizzata, nel corso di un processo plurisecolare, contemperando, al suo interno, gli influssi giudaici, quelli greco-romani e quelli germanici. Così era nata la civiltà cristiana medievale: impossibile, in essa, separare la dimensione cristiana da quella medievale: erano due facce della stessa cosa, il cristianesimo era il medioevo e il medioevo era il cristianesimo. L’ideale teocratico e spirituale conobbe il punto più alto con le cattedrali e con la proliferazione delle vocazioni sacerdotali e monastiche, quando tutta l’Europa fu un immenso vivaio di anime in cerca di Dio e quando indomiti missionari si spinsero nelle estreme lande del Settentrione e dell’Oriente, nelle foreste della Lituania e nelle steppe della Russia, e fino all’Islanda e alla Groenlandia, a bordo di esili imbarcazioni che sfidavano le onde dell’oceano per portare ovunque il messaggio di Cristo, verso regni popolosi o verso isole disabitate, con eguale spirito di sacrificio.
Il destino volle che il cristianesimo incominciasse ad essere "esportato" molto al di là dei limiti del’Europa, a partire dalle imprese dei conquistadores nel Messico e nel Perù, proprio quando, in Europa, la ormai millenaria pianta del cristianesimo incominciava a inaridirsi; quando si verificò la tremenda spaccatura del protestantesimo, che inferse una piaga immedicabile nel corpo della cristianità europea; quando, con il Rinascimento, si crearono le premesse per una secolarizzazione e per un laicismo che avrebbero allontanato progressivamente, ma inarrestabilmente, gli uomini del continente dal loro Dio. Il processo ebbe una impennata nel XVIII secolo, con l’Illuminismo, la Massoneria e, poi, con la Rivoluzione americana e con la Rivoluzione francese, subito seguite dalla Rivoluzione industriale e dalla definitiva affermazione del capitalismo moderno, soprattutto finanziario, la cui essenza era radicalmente anticristiana, e che, infatti, aveva dichiarato guerra a morte alla religione cristiana. Perciò, mentre nelle due Americhe, in Africa, in Asia e in Oceania il cristianesimo si diffondeva sempre più, ad opera dei missionari, dei commercianti e degli agenti coloniali, in Europa, la sua terra d’elezione, esso cominciò lentamente a morire: la sua agonia sarebbe durata ancora due o tre secoli, ma infine, nella seconda metà del XX secolo, essa prese una brusca accelerazione, tanto che, ai nostri giorni, può dirsi ormai quasi del tutto consumata. L’Europa del terzo millennio è sostanzialmente un’Europa post-cristiana, dove il cristianesimo è disprezzato, o — peggio – ignorato dalle élites intellettuali, e dove, fra le persone comuni, si è di fatto instaurato un pressoché totale indifferentismo religioso e spirituale, anche per effetto della massiccia diffusione di una prospettiva esistenziale materialista, consumista, edonista, basata su di un rozzo e grossolano carpe diem, fortemente intriso di cinismo.
Ha osservato André Glucksmann (1937-2015) nel suo libro «La terza morte di Dio. Perché l’Europa è ormai un continente ateo e nel resto del mondo invece si uccide per fede» (titolo originale: «La troisième mort de Dieu, Paris, Nils Éditions, 2000; traduzione dal francese di Elisabetta Sartori, Roma, Liberal Edizioni, 2004, pp. 31-34):
«Per quale motivo l’Europa precipita sempre di nell’incredulità? Nessuna delle promesse resurrezioni della fede, nessuna delle rievangelizzazioni annunciate riesce ad arrestare questa ondata che viene dal profondo. Autorità morali e teologiche di diversa obbedienza indicano il Vecchio continente come terra di missione. Gli appelli pressanti e inquieti alla mobilitazione delle anime si moltiplicano da due secoli, senza altro risultato ch suscitarne di nuovi, e sempre più angosciati.
Questa disfatta rimane inspiegabile. Come se i fedeli non riuscissero a discernere quel che li chiama in causa nella sfida in cui ovunque si imbattono, che a volte accettano, ma che mai riescono a vincere. Ritornando con emozione e fervore al Concilio Vaticano II, padre Joseph Thomas, S. J., fra le tante lodi, azzarda una critica: "Questo concilio fu un’affermazione serena della fede della Chiesa. Una fede che la Chiesa vorrebbe proporre a tutti gli uomini, con la bella audacia tranquilla che le dona lo Spirito e che si irradiava dalla personalità di Giovanni XXIII. Ma la fede non è una cosa ovvia. I padri conciliari non si sono mai chiesti perché, al giorno d’oggi, è così difficile credere. Si sono comportati come se la Chiesa intera fosse già costituita da uno stuolo di veri credenti. Hanno presupposto l’esistenza di una fede robusta presso i cristiani e di disponibilità a credere presente in tutti gli uomini". Difficile considerare una tale lacuna come una svista curiosa. Se è vero che i nostri buoni padri "non si sono mai chiesti perché al giorno d’oggi è così difficile credere", è necessario concludere che essi hanno continuato a picchiare nel buio contro un ostacolo sconosciuto, proprio mentre l’estrema urgenza di affrontarlo veniva proclamata "urbi et orbi". Come si può sradicare un’incredulità di cui s’ignora il motivo? […]
Le Chiese sbagliano nemico. Immaginano di scontrarsi con anti-religioni strutturate come loro. Si mobilitano contro un avversario — la carne, l’egoismo, il mondo — mentre invece sono vittime di un’avversità tanto più invadente quanto più inafferrabile e asimmetrica. Il vaticano II ha tenuto conto dell’esistenza dell’ateismo, ma, obietta padre Thomas, ha preso di petto un umanesimo riflettuto e sistematico. I padri conciliari non "menzionano da nessuna parte l’UMANESIMO DELL’INDIFFERENZA. Questo silenzio, questa omissione sono senza dubbio la causa di risvegli e di un profondo disincanto". Le religioni d’oggi sbaglierebbero ad accanirsi su nemico di ieri, "alter ego" armato da capo a piedi, come loro e contro di loro. È passato il tempo delle battaglie frontali, speculari. Resta un’indifferenza, spesso priva di umanesimo, che gioca e vince.
L’insoddisfatto che si rifiuta di giustificare il disinteresse del nostro secolo con tare eterne, deve dissotterrare le radici attuali di un’indifferenza "sui generis". Eccolo, dunque, messo a dura prova: Dio muore. Quantomeno accenna la ritirata, sembra sul punto di abbandonare la scena e nessuno si prende la pena di spingerlo fuori! Nietzsche e i suoi colleghi del Diciannovesimo secolo, credenti o no, semplificavano eccessivamente questa stranezza: se muore, è perché qualcuno lo uccide; se l’umanità non si assume le sue responsabilità, confessiamo a noi stessi che l’atto è (ancora) "troppo grande per noi". In breve, a loro bastava cercare l’assassino, come in ogni poliziesco che si rispetti, per risolvere l’enigma del Dio morto e attaccare col motivo del superuomo. Questa allucinazione è durata poco. Lo svanire dell’Altissimo è tanto più radicale quanto più il posto rimane vuoto. Né omicidio né suicidio, nessun cadavere ingombrante, solo un ricordo e i rimpianti di una perdita più subita che voluta. L’Europa vive in questo l’esperienza del grande assente senza poterla proiettare, come Pascal, in Figura — "la presenza di un Dio che si nasconde". Oppure introiettarla, con Nietzsche, come auto-creazione di un sovvertimento trionfante.
La morte di Dio si produce senza che nulla la produca. Né sacrificio divino né attentato profano. È un processo senza soggetto quello che genera il consenso scettico. Manifesta un potere di contagio non meno sorprendente ed efficace di quello che guidò l’insediamento delle religioni…»
Ma è proprio vero che «la morte di Dio si produce senza che nulla la produca»? Francamente, ne dubitiamo. Pur ammettendo che, nella società liquida in cui viviamo, e così ben descritta da Zygmunt Bauman, è difficilissimo, se non quasi impossibile, individuare e afferrare qualcuno o qualcosa, forse la spiegazione dell’apparente paradosso non è poi tanto misteriosa, né poi tanto lontana dalle analisi, secondo noi sostanzialmente esatte, svolte da André Glucksmann e (relativamente al Concilio Vaticano II e alla sua insufficiente analisi della crisi della religiosità contemporanea) da padre Joseph Thomas.
La civiltà moderna corre verso il nichilismo da almeno tre secoli, perché il nichilismo – che lo si comprenda o no, che lo si voglia o no — è l’approdo finale, coerente e necessario, di una cultura che insegue e corteggia il relativo, la morte e il nulla; che ha una vera avversione per la stabilità, per la tradizione, per il passato; che ha fatto del Progresso fine a se stesso, del Progresso comunque indirizzato e comunque ispirato, la meta suprema e la stella polare del proprio essere e del proprio incessante divenire: di un Progresso auto-sussistente, del quale l’uomo finisce, inevitabilmente, per essere la parte accessoria e secondaria, che può anche venire sacrificata.
Un tale modello culturale porta necessariamente verso il Nulla e verso l’adorazione del Nulla, perché, in esso, il Nulla fa le veci del Tutto, cioè di Dio: è la trasposizione, orribilmente deformata e stravolta, del vecchio Dio già "morto", al quale ha strappato gli attribuiti della onniscienza e della onnipotenza, per sostituirli con quello della onnipotenza, ma senza l’onniscienza, e, soprattutto, senza la compassione e senza la redenzione. Da qui la giusta conclusione di Glucksmann, che un siffatto modello culturale, pur spacciandosi per "umanesimo", finisce per divenire anti-umano, e conserva, dell’ultima fase dell’umanesimo storico, solamente la parte negativa, vale a dire l’indifferentismo.
Ora, se il cristianesimo si trova a dover lottare contro una indifferenza ormai priva anche di umanesimo, allora il suo nemico è praticamente inafferrabile: come potrà mai combattere e sperar di vincere l’ateismo, una religione che ha fatto del Dio-uomo la sua Rivelazione, e della Redenzione dell’uomo la sua grande meta? Se non esiste più alcun umanesimo, ma solo una grigia, informe, collaudata indifferenza, chi potrà mai vincere la battaglia per il ritorno di Dio o per il ritorno dell’uomo?
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