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Avere un’opinione non è un diritto, ma una responsabilità

«Avrò pur diritto ad avere la mia opinione!»; «questa è la mia opinione, e basta»; «i gusti e le opinioni non si discutono, si rispettano»: queste e molte altre frasi del genere, che oggi sono diventate frequentissime, e che hanno acquistato, si direbbe, la stessa forza d’inerzia dei proverbi e dei detti popolari, che nessuno si sogna di contestare, per la loro apparente semplicità ed evidenza, sono, in effetti, il risultato di una lenta, graduale, sistematica perversione del pensiero contemporaneo: quella secondo la quale, dal momento che siamo in democrazia, ciascuno ha "diritto" di pensarla come gli pare e piace, e di credere in quel che gli va.

Lasciando stare l’illustre precedente di Platone, che distingue — peraltro giustamente — fra "dòxa", che non è la semplice opinione soggettiva, ma, almeno, una forma di conoscenza probabile, ed "epistème", ossia la conoscenza certa, propria della scienza, resta il fatto che il vivere in democrazia non significa, né può significare, che la verità sia stata abolita per legge e che il relativismo sia stato eretto ad unica e sola forma legittima del conoscere e del sapere; anche se qualche imbecille si comporta esattamente come se le cose stessero in tal modo, e, pertanto, non vi fosse più alcun bisogno di verificare la validità del proprio sapere.

Intanto, cominciamo con lo stabilire un primo punto fermo: avere una opinione non è affatto un "diritto", ma, semmai, una seria e precisa responsabilità; non una cambiale da riscuotere, non un punto a favore da segnare, così, senza fatica e senza disturbo, ma, al contrario, un mattone da portare umilmente e pazientemente, insieme ad altri mattoni, giorno per giorno, nell’intento di costruire un edificio intellettuale e spirituale ove noi possiamo abitare da persone mature e responsabili, affrontando le sfide della vita con serenità e consapevolezza. E sapendo, inoltre, che non esistono edifici definitivi, che non abbiano bisogno d’una continua manutenzione.

Punto secondo: non è obbligatorio avere una opinione su tutto; anzi, vorremmo dire che solo i perfetti imbecilli ce l’hanno. Come si fa ad avere una opinione su tutto? Sarebbe come dire che ci si è presi la briga di studiare, approfondire, valutare e comprendere ogni cosa esista al mondo, ogni situazione, ogni problema, ogni evento e ogni scoperta. Non basterebbe neppure avere una mente enciclopedica: perché l’erudizione, per quanto vasta, non è affatto sufficiente a elaborare una propria opinione. Non basta sapere, infatti (ma chi, ripetiamo, può pretendere di sapere tutto?), bisogna poi passare dal sapere al giudicare, ossia al formulare un giudizio, che sia motivato e non campato per aria, su ciò che si sa: perché questo è avere una opinione.

Naturalmente, c’è un sacco di gente la quale ritiene che l’opinione significhi, semplicemente, l’espressione di un giudizio, ma senza essersi presi, prima, il disturbo di sapere, ossia di andare a cercare le giuste informazioni dalle quali scaturisce un quadro almeno verosimile di ciò che si sta cercando; anzi, senza neppure porsi il problema di disporre delle giuste informazioni, di effettuare una propria sintesi e, da ultimo — ma solo da ultimo — formulare un giudizio. Insomma, costoro vorrebbero i vantaggi dell’atto del giudicare, ma senza doversi sobbarcare i fastidi della ricerca; per non parlare dei fastidi del "pensare", puro e semplice.

Eppure, ripetiamolo: avere una opinione non è un diritto; dunque, non significa lasciar correre delle parole in libertà. Non significa che gli altri abbiano il diritto di rispettare la nostra opinione, se essa non possiede un minimo di serietà; e certo non possiede un minimo di serietà, se scaturisce da una semplice emozione a fior di pelle, da un sentimento viscerale, senza elementi di conoscenza e senza la componente essenziale del pensiero critico. Anche in questo caso vale l’aurea massima: nessun diritto, senza il corrispondente dovere; e se esprimere opinioni è un diritto, allora bisogna che esso si accompagni al dovere di informarsi accuratamente su ciò di cui si vuol trattare, su ciò che si pretende di giudicare. Quale giudice, per quanto presuntuoso, si sognerebbe di emettere una sentenza, senza essersi dato il disturbo, almeno, di leggere le carte relative al processo, di ascoltare le parti in causa, di aver tentato di comprendere come si siano svolti i fatti, e infine chi abbia torto, e chi ragione?

Punto terzo: avere un’opinione su qualcosa significa essere capaci di sostenerla e di motivarla, ma anche, nello stesso tempo, essere disposti a rivederla e modificarla, qualora emergessero nuovi dati di realtà, nuovi elementi di conoscenza, di cui prima non si era in possesso. In altre parole, significa che bisogna essere abbastanza coerenti da portarla avanti, sfidando un eventuale contraddittorio; ma anche abbastanza umili e aperti da essere disposti a cambiarla, perché l’obiettivo non è mai quello di costruirsi una impalcatura di certezze inalterabili e inattaccabili, ma quello di essere persone deste e consapevoli, che vanno alla ricerca della verità con l’anima piena di stupore davanti al mistero del reale, e che si fanno continuamente una quantità di domande, sempre nuove e sempre esigenti, sempre "scomode".

Le risposte facili, le opinioni prefabbricate, sono il contrario della vera ricerca e della vera consapevolezza. Però sono estremamente comode, specialmente per il tipo umano – oggi sempre più diffuso – che non bada alla sostanza delle cose, ma alla mera apparenza; quello che vuole avere sottomano un vestito adatto da sfoggiare in tutte le occasioni — per le cerimonie, per lo svago, per lo sport, per il passeggio — e non vuol mai trovarsi impreparato, non vuole mai lasciarsi sorprendere da circostanze impreviste, e fare la figura di chi non se l’aspettava. La persona desta e consapevole non si vergogna affatto di trovarsi impreparata, di stupirsi, di riconoscere la propria ignoranza; da tutto ciò essa trae la necessità di una continua apertura coscienziale, di un perenne stupore verso il reale, perché lo stupore è la condizione necessaria per la ricerca di ciò che si ignora, mentre chi non si stupisce mai di nulla, non imparerà mai nulla.

Eppure, quel che si vede ogni giorno, con desolante monotonia, è lo spettacolo d’innumerevoli asini, calzati e vestiti, i quali sentenziano, pontificano e tranciano giudizi a destra e a manca; i quali esprimono opinioni su tutto e su tutti; e, quel che è ancora peggio — se possibile — che lo fanno sulla base di quel mezzo sapere, masticato e rimasticato, che la cultura dominante, fatta sulla misura dei pigri e dei servi, presenta già bello e confezionato, e, vorremmo dire, pre-masticato e pre-digerito, affinché lo sforzo individuale di assimilazione sia minimo – appunto per quelle misere persone che non vogliono mai ammettersi ignoranti su qualcosa, ma che su tutto vogliono apparire perfettamente informate, perfettamente agguerrite e perfettamente in grado di esprimere opinioni "autorevoli" e, soprattutto, politicamente corrette.

Simili al cagnolino di Pavlov, la cui bocca si riempie di saliva allorché ode suonare il campanello, tutti costoro si agitano e cominciano a scalpitare non appena i loro orecchi odono suonare il magico campanello di qualche parola d’ordine, di qualche frase fatta, di qualche sentenza apparentemente definitiva e così auto-evidente, da non aver alcun bisogno di ulteriore dimostrazione. Fra queste parole magiche vi sono, oggi, i "diritti", e specialmente i "diritti umani", ultima versione della religione secolare e mondialista diffusa e imposta dai poteri occulti finanziari, attraverso le Nazioni Unite e altri organismo internazionali e nazionali di indiscussa "autorevolezza"; i "diritti della donna"; la "laicità"; la "tolleranza" (ma sempre a senso unico: proprio come l’avevano pensata i suoi padri nobili, Locke e Voltaire); il "rispetto delle minoranze" (che finisce per imporre la loro silenziosa dittatura ad una maggioranza sin troppo paziente e comprensiva), la "memoria" dell’Olocausto (affinché la piaga del senso di colpa dell’Occidente non si richiuda mai, e Israele possa fare tutto quel che vuole, dentro e fuori i suoi confini), la "resistenza" (proibito parlare di guerra civile), la stessa democrazia, presentata come l’unica forma possibile di governo, che èpossa qualificarsi come veramente civile e veramente umana.

Avanzare il benché minimo dubbio o porre la benché minima domanda su uno di questi concetti-chiave, su una di queste "sacre" parole d’ordine, significa, automaticamente, scadere dalla condizione di cittadini con pieni diritti, ed entrare nella categoria dei sospettati, degli antisociali, dei potenziali sovversivi e delinquenti; significa finire nel lazzaretto dei lebbrosi, dove nessuno scrittore, nessun pensatore, nessun artista riuscirà mai a far carriera, a farsi conoscere dal grande pubblico, perché non ha voluto rendere il dovuto omaggio ai feticci della Modernità, del Progresso e della Democrazia, e perché, quindi, ha dimostrato di essere inaffidabile dal punto di vista della lealtà costituzionale, politica e morale.

Mettere in dubbio, ad esempio, che, nei campi di concentramento nazisti, siano morti sei milioni di ebrei, equivale — anche se non si vuol negare affatto la realtà del genocidio — a lanciare una sfida intollerabile alla comunità mondiale, alla coscienza umana, alla Storia e all’Etica: se è vero, come afferma la cultura dominante, che, dopo Auschwitz, è divenuto lecito dubitare che Dio esista ancora (perché, se esistesse, non avrebbe mai potuto permettere una cosa del genere), allora chi osi scalare anche solo di una unità la cifra "sacra" dei sei milioni di vittime, si rende colpevole di un delitto imperdonabile, e si qualifica come un pessimo cittadino della modernità: come un cittadino infido, che non sta alle regole, che contesta le tavole della Legge, che si permette di pensare con la propria testa (e poco importa che, nell’Europa del 1939, non vi fossero neppure sei milioni di ebrei; quel che importa è l’intollerabile pretesa di avanzare una opinione difforme dalla Vulgata del politicamente corretto).

Oppure: mettere in dubbio il fatto che le donne siano vittime di un perenne sfruttamento, di una intollerabile discriminazione, di una subdola forma di schiavitù da parte degli uomini; che siano quotidianamente perseguitate, stuprate e ammazzate da orde di maschi pervertiti e animaleschi, ebbri di violenza e di sangue; che sia sempre e solo l’uomo a provocare il dissesto delle coppie, il disfacimento delle famiglie, l’infelicità dei figli, con il suo egoismo, con la sua libidine e con la sua brutale incoscienza: anche questo è qualcosa di intollerabile e supremamente blasfemo, un qualcosa che va contro il politically correct. Ergo, tutti i signori maschietti devono preventivamente cospargersi il capo di cenere, né potranno mai avvicinarsi a una donna, per qualunque ragione, senza prima avere fatto un doveroso mea culpa per tutti i crimini che il loro spregevole sesso, da tempi immemorabili, si accanisce a perpetrare contro il sesso "debole", cioè quello femminile. Insomma: solo dopo ave proclamato orrore e disprezzo per la propria condizione di maschio, il maschio potrà essere accettato come un valido interlocutore per le donne e potrà essere fatto accomodare nei salotti buoni della cultura dominante; se si rifiuta di sottoporsi a questo rito di auto-umiliazione, magari per la banalissima ragione che la sua coscienza non ha, in proposito, assolutamente nulla da rimproverargli, ebbene, ciò è più che sufficiente per fare di lui un potenziale nemico pubblico, un soggetto pericoloso e da tenere d’occhio, e, in ogni caso, un elemento socialmente indisciplinato, un ribelle ai riti e ai miti della modernità, tra i quali spetta un ruolo centrale alla nuova religione del Femminismo.

Ma infine, torniamo a domandarlo: perché mai dovrebbe essere così importante, così essenziale, così irrinunciabile, il fatto di avere una opinione su tutto, e, più ancora, il fatto di volerla esprimere, sempre e comunque, davanti a chiunque e in qualsiasi circostanza? Perché mai dovrebbe essere così tragico, così umiliante, così intollerabile, il fatto di riconoscere la propria ignoranza, di ammettere la propria impreparazione, di sospendere il giudizio e di trattenere le parole che si vorrebbero dire, rendendosi conto di non essere capaci di motivarle e argomentarle in maniera anche solo approssimativa? Che è, infine, e da dove viene, tutta codesta smania di parlare, di intervenire, di farsi sentire, di aggiungere il proprio raglio al ragliare di migliaia e milioni di altri asini del branco, ciascuno dei quali altro non fa che ripetere le parole d’ordine del politicamente corretto, e lodarsi l’un l’altro per la propria perspicacia, originalità e acutezza, secondo il vecchio adagio latino: «Asinus asinum fricat», ogni somaro si strofina compiaciuto con il proprio simile?

Il fatto è che la Modernità pretende che ogni uomo e donna siano, anzitutto, dei cittadini attivi; attivi non nel senso che agiscono in autonomia, ma che recitano alla perfezione il ruolo di burattini disciplinati e obbedienti alla cultura dominante: femminista, omosessualista, progressista, mondialista, laicista, antifascista e antirazzista (qualunque cosa indichino tali espressioni; ma, per essere "attivi", si deve pur essere "contro" qualcosa). E allora, avanti con le opinioni a ruota libera…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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