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9 Gennaio 2016Oggi specialmente è assai di moda affermare che l’amore giustifica tutto, assolve tutto e si giustifica da sé solo: che non esistono amori sbagliati, perché l’amore, se autentico e sincero, è sempre buono e sempre degno del massimo rispetto. Che sia sempre degno del massimo rispetto, se autentico e sincero, non vi è dubbio; che sia sempre buono, no. Dunque bisogna vedere che cosa si intende per buono. Ora, in tempi di relativismo trionfante, quali sono i nostri, "buono" è diventato sinonimo di "vero", e "vero", a sua volta, sinonimo, o quasi, di "reale, effettivo". Si entra così in un circolo vizioso: se una cosa è reale, nel senso di concreta ed effettiva, diventa, per ciò stesso, vera; e, una volta che sia divenuta tale, assurge allo statuto della bontà intrinseca, come se fosse impossibile trovare in essa difetti, imperfezioni, o, peggio ancora, qualche cosa di intrinsecamente sbagliato, di intrinsecamente negativo.
Friedrich Nietzsche, senza ombra di dubbio, ha amato gli uomini; lo provano non soltanto le circostanze della sua vita, ma anche il suo pensiero, a dispetto del fatto che qualche improvvido esegeta ne abbia fatto niente di meno che il profeta del nazismo. Tutta la sua vita, tutte le sue opere e tutto il suo pensiero ruotano intorno all’amore per l’uomo: un amore tenerissimo, sensibilissimo, quasi femmineo; eppure, nello stesso tempo — o, piuttosto, proprio per questo — un amore esigente, protervo, quasi tirannico: l’amore degli amanti delusi e frustrati, che non sono corrisposti e che non si sentono neppure capiti. Vi è qualcosa di ingenuo, quasi di fanciullesco, nell’amore e nella tenerezza di Nietzsche verso gli uomini: sì, proprio verso gli uomini e non verso "l’uomo", perché Nietzsche, nei confronti dell’uomo, è stato di una durezza quasi inumana (e da lì, crediamo, hanno tratto origine certe letture fuorvianti, e persino aberranti, del suo pensiero); ma gli uomini concreti e reali, gli uomini della vita reale e quotidiana, quelli li amava, e li amava senza riserve, accettandoli così come sono, pur senza mai abbandonare il suo grande e folle sogno di trasformarli, di spronarli verso una mutazione antropologica, di far loro da levatrice affinché partorissero, finalmente, la nuova creatura, da lui tanto attesa e annunciata: il Superuomo.
Al contrario di altri filosofi, che dicevano di amare l’uomo, ma che disprezzavamo gli uomini concreti (uno per tutti: Arthur Schopenhauer, persona bisbetica e cattiva, piena di astio e di livore contro gli uomini e le donne incontrati nella sua vita), Nietzsche diceva di amare gli uomini, o meglio, lo faceva dire al suo Zarathustra, ma non amava l’uomo, perché la sua piccolezza, la sua meschinità, il suo opportunismo, lo disgustavano profondamente: era un misantropo rispetto all’umanità, e una specie di santo nella vita di ogni giorno. Le vecchiette e le fruttivendole di Torino lo chiamavano proprio così, "il santo": e la gente del popolo non s’inganna facilmente nel leggere ciò che brilla nello sguardo di un uomo, specialmente se si tratta di un eccentrico professore tedesco piovuto in Italia, che non si sa bene di che cosa viva, che se ne va in giro sempre da solo, immerso nei suoi pensieri, e che, nondimeno, possiede un sorriso benevolo nei confronti dei suoi simili, allorquando se li trova concretamente davanti.
Ma, ripetiamo, non è solo la vita dell’uomo Nietzsche a testimoniare questo grande amore: è soprattutto la sua opera, dalla quale si potrebbero estrarre decine e centinaia di frasi nelle quali esso è proclamato e declinato, sempre e caparbiamente, a dispetto di tutto, incomprensioni, solitudine, fraintendimenti; un amore che ha in sé qualche cosa di eroico nella sua purezza e nel suo evidente disinteresse, oltre che qualche cosa di fanciullesco, o forse entrambe le cose insieme.
Proviamo a rileggerci una famosissima pagina del filosofo tedesco, tratta dal suo capolavoro (Friedrich Nietzsche, «Così parlò Zarathustra»; traduzione dal tedesco di Liliana Scalero, Milano, Longanesi & C., 1972, Parte prima, Introduzione, 4, vol. 1, pp. 63-65):
«L’uomo è una corda annodata fra l’animale e il Superuomo, una corda tesa sopra un abisso.
Un pericoloso andar dall’altra parte, un pericoloso metà-cammino, un pericoloso guardarsi indietro, un pericoloso rabbrividire e star fermi.
Ciò che v’è di grande nell’uomo, è che egli è un ponte e non uno scopo: ciò che si può amare nell’uomo, è che egli è un passaggio e una caduta.
Io amo coloro che non sanno vivere, anche se sono coloro che cadono, perché essi sono coloro che attraversano.
Io amo i grandi spregiatori, perché sono i grandi adoratori, sono frecce di nostalgia verso l’altra riva.
Io amo coloro che non soltanto dietro le stelle cercano una ragione per sacrificarsi e andare a fondo; ma che si sacrificano per la terra, affinché essa divenga un giorno proprietà del Superuomo.
Io amo colui che vive per conoscere, e che vuole conoscere perché un giorno il Superuomo possa vivere. E così vuole la propria distruzione.
Io amo colui che lavora e inventa, in modo da costruire la casa per il Superuomo e preparare per lui la terra, l’animale e la pianta; perché così facendo vuole la propria distruzione.
Io amo colui che ama la sua virtù: perché la virtù è volontà di distruzione e freccia della nostalgia.
Io amo colui che non serba in sé una sola goccia del proprio spirito, al contrario, vuole essere interamente lo spirito della propria virtù: e così passerà come spirito sopra il ponte.
Io amo colui che della propria virtù fa la propria inclinazione e il suo stesso destino: così, per amore della sua virtù, vorrà ancora vivere, e al tempo steso non più vivere.
Io amo colui che non vuole avere troppe virtù. Una virtù vale più di due virtù, perché essa è doppiamente un nodo a cui si attacca il destino.
Io amo colui che spreca la propria anima, che non vuole ringraziamenti, e che non restituisce nulla: perché egli dona sempre e non vuole conservarsi.
Io amo colui che si vergogna quando il dado cade in modo favorevole a lui, e si chiede: "Sono forse un baro?", giacché egli vuole andare a fondo.
Io amo colui che getta parole d’oro davanti alle sue azioni e mantiene sempre di più di ciò che ha promesso: perché egli vuole la propria distruzione.
Io amo colui che giustifica quelli che verranno e assolve quelli che sono tramontati: poiché egli vuole andare a fondo a causa degli uomini del presente. Io amo colui che castiga il proprio Dio perché lo ama, giacché egli perirà per la collera del suo Dio.
Io amo colui la cui anima resta profonda anche nella ferita e può essere distrutto anche da un piccolo avvenimento, perché così andrà volentieri all’altro capo del ponte.
Io amo colui la cui anima è tropo ricca, sì che egli dimentica se stesso e tutte le cose che sono in lui: in tal guisa tutte le cose diverranno la sua distruzione.
Io amo colui che è libero di spirito e di cuore: poiché la sua testa sdar5àò soltanto il viscere del suo cuore; il suo cuore, tuttavia, lo spingerà verso, la rovina.
Io amo tutti coloro che sono come gocce pesanti che cadono a una a una dalla nera nube che sovrasta l’uomo: essi annunciano che sta per venire il fulmine e periscono come annunciatori. Vedete, io sono un annunciatore del fulmine:, sono una di quelle gocce che cadono dalla nube: quel fulmine si chiama Superuomo.»
Da queste frasi emerge che la dottrina del Superuomo si coniuga, e si compenetra, con una spinta verso l’amore radicato e profondo nei confronti degli uomini; che non è affatto quella dottrina verbosa e astratta, vagamente allucinata, che si potrebbe immaginare (o forse lo è, ma non è soltanto questo, anzi, lo è solo in misura marginale); che il Superuomo è, per Nietzsche, la veste scintillante che gli uomini devono indossare per medicare le loro ferite e per riconciliarsi con la vita.
Insomma, quello di Nietzsche è un nuovo Vangelo: e lui è non solo il profeta, ma proprio il Cristo di questo Lieto Annuncio; e lo diciamo senza la benché minima intenzione ironica o, tanto meno, blasfema, ma ben consapevoli della contraddizione in ciò insita, contraddizione, del resto, che non è del lettore, ma dell’autore, cioè di Nietzsche medesimo. Se non si colloca, o non si riporta, il pensiero di Nietzsche, e specialmente la dottrina del Superuomo (e quella dell’Eterno ritorno, che le è intimamente e inseparabilmente collegata) entro questo contesto naturalmente religioso, ovviamente "religioso" nel senso più ampio del termine, si rischia di non capirne veramente nulla. Lo ripetiamo: Nietzsche è un pensatore religioso, è un teologo, anche se alla rovescia; e non stiamo facendo un mero gioco di parole, ma cerchiamo di esprimere la cifra fondamentale del suo intero sforzo speculativo.
E adesso torniamo alla domanda iniziale: si possono amare gli uomini in maniera sbagliata? Che cosa vuol dire amare in modo sbagliato? Qual è, dunque, il modo "giusto" di amare? Rispondiamo anzitutto a questa domanda: il modo giusto di amare gli uomini è quello che consiste nel rispettare la loro profonda umanità; e, nello stesso tempo, nel sostenerli nella realizzazione del bene. Tuttavia, per sapere cosa sia il bene dell’uomo, bisogna, ancor prima, sapere cosa sia l’uomo. Nietzsche non dà mai, a quanto ne sappiamo, una definizione soddisfacente dell’uomo: si serve, per lo più, di perifrasi poetiche, definendolo, ad esempio, "colui che deve essere superato", "una corda", "un ponte sospeso sull’abisso": belle e suggestive espressioni, senza dubbio, ma assai poco soddisfacenti quanto alla precisione del pensiero. Un filosofo non può giocare sul vago: le cose non definite si ritorcono contro di lui, si lasciano interpretare da chiunque (e da lui stesso), volta a volta, nel senso che meglio si presta a quella particolare circostanza o a quella specifica affermazione. Dunque, ci incombe l’onere della definizione; e lo definiamo così: l’uomo è una persona, un soggetto cosciente e intelligente, dotato di volontà e capace di operare per dei fini disinteressati. L’animale (salvo l’animale che si sia umanizzato, mediante la consuetudine con l’uomo) non è capace di azione disinteressata; quanto alla volontà e all’intelligenza, la questione è opinabile; quanto alla coscienza, questa, a quanto ne sappiamo, è una prerogativa dell’uomo, almeno se la si estende all’ambito dell’autocoscienza, cioè alla capacità di riflettere su se stessa.
E qual è il bene di questo essere, di questa persona? Realizzare tutte le sue potenzialità positive, ossia tutte quelle che promuovono ed inverano la sua natura cosciente, intelligente, volitiva ed etica (l’azione disinteressata). Ma l’uomo non è una monade smarrita nell’universo; è una creatura immersa in situazione, ossia in una rete di relazioni con altre creature e con altri enti, con i quali condivide una parte del suo orizzonte esistenziale e della sua esperienza di vita, direttamente o indirettamente, materialmente o idealmente; è un essere sociale, che trova la propria realizzazione in mezzo ai suoi simili e, per quanto possibile, anche con tutte le altre creature e con tutti gli altri enti di natura spirituale superiore (i demoni, ad esempio, sono di natura spirituale, ma inferiore). Dunque, il bene dell’uomo non può essere da lui perseguito ciecamente ed egoisticamente: il suo bene deve accordarsi ed armonizzarsi con il bene di tutti gli altri, altrimenti non sarà vero bene, ma apparenza menzognera di bene. Sarà un qualche bene piccolo e meschino, non il Bene. Il Bene è il bene di tutti e di ciascuno, infallibilmente e simultaneamente. Parliamo, naturalmente, del bene morale: sul piano fisico, è difficile sostenere che il bene della zanzara sia in armonia con colui che viene punto da essa; anche se, su di un piano biologico ed ecologico più vasto, la cosa appare del tutto comprensibile e quasi scontata. Insomma: nessuno può realizzare il proprio bene a danno degli altri e contro gli altri; se lo fa, quel che egli andava perseguendo non era il Bene, ma un bene ingannevole e limitato, da lui scambiato per il vero Bene.
Ed eccoci di nuovo a Nietzsche. Egli ama gli uomini e desidera sinceramente di vederli realizzati: ma lo può veramente? Ha saputo riconoscerli per quel che sono, e accettarli davvero? Non ha forse egli visto in loro dei Superanimali, dotati di forza, coraggio e sprezzo del pericolo, ma scarsi di umana comprensione, pietà e compassione? Non ha egli visto in loro la futura "bestia bionda", l’animale da preda, aristocratico e vorace, che si aggira in mezzo al gregge degli uomini deboli e comuni, come un lupo o un leone in mezzo agli agnelli? Queste idee, Nietzsche le esprime nella «Genealogia della morale», del 1887, cioè dopo lo «Zarathustra»: ma sono implicite fin dall’inizio…
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