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Il Superuomo di Nietzsche e il corto circuito della sua «fedeltà alla terra»

«Così parlò Zarathustra» è, senza alcun dubbio, un classico: uno di quei libri che si torna a leggere, di tempo in tempo, nello scorrere del fiume della vita, e nei quali sempre si scorge qualcosa di nuovo, sempre si scopre qualche scorcio, qualche prospettiva che prima erano passati inosservati.

Il che non significa, ovviamente, che sia da prendere tutto per buono; anzi, diciamolo subito: esso è, dal nostro punto di vista, un libro radicalmente sbagliato, uno di quei cattivi libri che possono fare molto male, se capitano in mani imprudenti, perché in esso si dà una interpretazione dell’uomo, della sua natura, dei suoi bisogni, delle sue aspirazioni, che non sono conformi al vero, e che ne mutilano l’essenza e ne deturpano la stessa umanità, a tutto vantaggio di concezioni velleitarie e chimeriche, e anche — bisogna pur dirlo — a vantaggio di una parola poetica ispirata e bellissima, fin che si vuole, la quale, tuttavia, fa velo al rigore dei passaggi logici sui quali un libro di filosofia dovrebbe, invece, incardinarsi.

Il pericolo di essere frainteso, d’altra parte, esiste per qualsiasi libro e per qualsiasi discorso umano; quel che rende lo «Zarathustra» più pericoloso di altri, è appunto la sua scintillante e fascinosa veste poetica, che lo rende ingannevolmente accessibile ad un pubblico vastissimo, di non specialisti, mentre invece sono necessari una certa cultura filosofica, oltre che una certa attitudine e un certo allenamento al ragionamento critico, per coglierne le aporie e le debolezze e per valutare serenamente e obiettivamente quel che, in esso, è valido e stimolante, e ciò che, al contrario, è, filosoficamente parlando, vero e proprio ciarpame, per giunta con una connotazione kitsch che ricorda i quadri di Arnold Böcklin o di Lawrence Alma-Tadema. Non sarebbe giusto, ad ogni modo, imputare al solo Nietzsche il fatto del suo fraintendimento da parte di un certo pubblico di lettori; così come non sarebbe giusto ignorarlo del tutto o negarlo aprioristicamente, per un pregiudizio difensivo e apologetico, in base al quale egli sarebbe stato un pensatore assolutamente "puro" e distaccato, smarrito in un mondo di volgari Filistei: questo significherebbe fare di Nietzsche un mito, vale a dire sottrarlo alla sua storicità e alla sua concretezza umana, trasformandolo in un simbolo astratto, in una Sfinge enigmatica e inafferrabile.

Il nocciolo dello «Zarathustra» risiede nella dottrina del Superuomo; e non c’è quasi persona, per quanto sprovvista e digiuna di cultura filosofica, che non abbia sentito parlare del Superuomo o che non creda di aver compreso, almeno a grandi linee, che cosa esso significhi. Il fatto che Superuomo sia una traduzione sbagliata, o quanto meno discutibile, della parola adoperata da Nietzsche, Übermensch, che, alla lettera, significa, semmai, Oltreuomo, non turba più di tanto il lettore frettoloso e saccente, pago di ripetere quel che dicono gli altri e niente affatto preoccupato della esattezza filologica di un termine, così come delle enormi conseguenze che possono derivare da una traduzione inesatta o fuorviante. Per il filosofo tedesco, dunque, l’Oltreuomo è colui che deve venire dopo l’uomo; è l’uomo nella sua successiva evoluzione, volontaristica e niente affatto naturale, anche se permane, nella sua concezione, un sottofondo di evoluzionismo darwiniano (gli anni erano quelli, c’è poco da fare; e il darwinismo, in tutte le sue possibili varianti, a cominciare dal darwinismo sociale, imperversava e furoreggiava ovunque). L’Oltreuomo, o Superuomo – chiamiamolo pure così, come fan tutti, ma consapevoli della differenza non trascurabile che corre fra i due concetti – è, per Nietzsche, colui che giunge all’altra estremità del ponte teso sull’abisso; colui che retrocede è destinato a regredire verso l’animale, verso il bruto.

E adesso torniamo a leggerci questa bella pagina di prosa poetica, nella pur bella e luminosa traduzione di Liliana Scalero, figlia del noto compositore Rosario Scalero (1870-1954), che fu giornalista e scrittrice di un certo nome, anche se poi venne pressoché dimenticata, e amica del filosofo Adriano Tilgher, teorico del "pragmatismo trascendentale" (da: F. Nietzsche, «Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno»; titolo originale: «Also Sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen», 1883-1885; traduzione dal tedesco di L. Scalero, Milano, Longanesi & C., 1972, Parte prima, Introduzione, 3; vol. 1, pp. 60-62):

«Io v’insegnerò cos’è il Superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che cosa avete fatto per superarlo?

Tutti gli esseri fino ad oggi hanno creato qualcosa che andava al di là di loro stessi: e voi invece volete essere la bassa marea di questa grande ondata e tornare ad essere bestie piuttosto che superare l’uomo?

Che cos’è la scimmia per l’uomo? Qualcosa che fa ridere, oppure suscita un doloroso senso di vergogna. La stessa cosa sarà quindi l’uomo per il Superuomo: un motivo di riso o di dolorosa vergogna.

Avete percorso il cammino dal verme all’uomo, ma in voi c’è ancora molto del verme. Una volta eravate scimmie, e anche adesso l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia al mondo. Ma anche il più saggio di voi non è che un essere ibrido, qualcosa di mezzo fra la pianta e lo spettro. È questo forse che io vi comando di essere? Fantasmi o piante?

Guardate, io invece vi insegno a diventare Superuomini!

Il Superuomo, ecco il vero senso della terra. La vostra volontà quindi dica: il Superuomo diventi il senso della terra.

Vi scongiuro, o fratelli, siate fedeli alla terra, e non credete a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene. Essi sono dei manipolatori di veleni, sia che lo sappiano, o no.

Sono degli spregiatori della vita, dei moribondi, degli intossicati dei quali la terra è stana: se ne vadano in pace!

Un vola il peccato contro Dio era il peggior sacrilegio; ma Dio è morto, e perciò sono morti anche questi esseri sacrileghi. Peccare contro la terra, ecco la cosa più terribile che si può fare oggi; stimare di più le viscere dell’imperscrutabile che non il senso della terra!

Un tempo l’anima guardava con disprezzo al corpo: e allora questo disprezzo era la cosa più alta: essa voleva che fosse magro, affamato, orribile. Così pensava di sfuggire a lui e alla terra.

Oh, quell’anima era essa stessa orribile, magra e affamata: e la gioia di quell’anima era la crudeltà!
Ma anche voi, fratelli miei, ditemi: che cosa vi dice il corpo a proposito di questa vostra anima? Non è essa sporcizia, povertà e un miserabile benessere? 

In verità, l’anima è un sudicio fiume. Bisogna essere un mare per accogliere in sé un sudicio fiume senza diventare impuri.

Ecco, io vi insegnerò a diventare Superuomini; il Superuomo è appunto quel mare, in cui si può perdere il vostro grande disprezzo.

Qual è l’esperienza più grande che potete avere? L’ora del grande disprezzo. L’ora in cui la vostra felicità vi farà nausea, e anche la vostra ragione, e la vostra virtù.

è l’ora in cui direte: "Che mi importa della mia felicità? Essa non è che povertà e sporcizia e un miserabile benessere. Ma la mia felicità dovrebbe giustificare la mia stessa esistenza".

è l’ora in cui direte: "Che me ne importa della mia ragione? Ha essa forse fame di sapere, come il leone di nutrimento? Essa è povertà e sporcizia e un miserabile benessere!".

è l’ora in cui direte: "Che me ne importa della mia virtù? Ancora non mi ha reso furibondo. Come sono stanco del mio Bene e del mio Male! Tutto ciò è povertà e sporcizia e un miserabile benessere!".

è l’ora in cui direte: "Che me ne importa della mia giustizia? Non vedo ancora ch’io sia diventato fiamma ardente e carbone! Ma il giusto è fiamma e carbone!".

è l’ora in cui direte: "Che me ne importa della mia compassione? Non è la pietà la croce cui venne inchiodato colui che amò gli uomini? Ma la mia pietà non è una crocifissione."

Avete già parlato così? Gridato così? Ahimè, se mai vi avessi già udito gridare a quel modo!

Non il vostro peccato, no, è la vostra moderazione che grida vendetta al cielo, l’avarizia che conservate nei vostri stessi peccati!

Dov’è il lampo che deve leccarvi con la sua lingua? La follia con cui dovete essere vaccinati?

Ecco, io vi insegno a diventare Superuomini: essi sono quel lampo, essi sono quella follia!»

Noi crediamo, personalmente, che sia quasi impossibile, se appena si possiede un’anima sensibile e aperta alle manifestazioni del bello, non innamorarsi della prosa dello «Zarathustra», non lasciarsi toccare, e persino commuovere, dal soffio di sincerità e di entusiasmo che percorre, come un fremito, queste pagine, e dalla solitudine immensa, smisurata, che si sente incombere sopra il loro autore, su quell’anima grande e tormentata, su quel grande cercatore della verità che, a un certo momento, credé di trovare quel che cercava in una dottrina radicalmente immanentistica, con qualcosa di stoico nella sua accettazione incondizionata dell’esistente, nella sua fedeltà incondizionata alla terra, cioè a tutto quel che esiste di umano, di concreto, di immediato e di finito, rifiutando qualsiasi tentazione trascendente e qualsiasi anelito verso l’Assoluto.

Non c’è altro assoluto che l’uomo stesso, afferma orgogliosamente Nietzsche: qualunque altro assoluto sarebbe un tradimento nei confronti dell’uomo, sarebbe una diserzione verso l’utopia, verso l’alienazione, verso i regni inafferrabili e improbabili di una troppo facile consolazione, di una troppo umana fuga dal presente e dal mondo reale. Eppure la vita va accettata così com’è, ma senza la croce: il riferimento a Cristo, che predicò l’amore e che finì appeso alla croce, ha, insieme, qualcosa di rispettoso e di beffardo; Nietzsche non vuol essere un profeta disarmato, un profeta della rinuncia: non vuol essere confuso con tutti coloro i quali hanno, a suo parere, denigrato e calunniato la vita e cercato improbabili risarcimenti nelle sfere ultraterrene. Se non che, proprio qui si annida la contraddizione centrale del pensiero di Nietzsche e della filosofia del Superuomo (per tacere di altre contraddizioni e debolezze secondarie): nel fatto che accettare integralmente la vita terrena, rifiutando però la croce, la sofferenza, e ignorando il significato del male, è semplicemente impossibile, quand’anche lo si volesse e lo perseguisse con la massima determinazione. Perché il male, la sofferenza, la croce, non sono elementi accessori e marginali, dei quali si possa fare a meno e dai quali sia lecito prescindere: non si può "dire sì alla vita" senza fare i conti con essi, senza accettarli o rifiutarli; ma, se si decide di rifiutarli, resta il nodo enorme della loro mancata spiegazione e della loro mancata accettazione.

Amare la vita, dire di sì alla vita, anzi dirle di sì infinite volte – come nella dottrina dell’Eterno ritorno, che Nietzsche sviluppa nella Terza parte dello «Zarathustra», nel capitolo intitolato «Della visione e dell’enigma» (cfr. i nostri articoli: «La redenzione del passato, culmine dell’"eterno ritorno" di Nietzsche», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 14/07/2007; «Superuomo o superfilologo? La critica di Soloviev allo Zarathustra nietzschiano», il 22/07/2008; «Il pensiero abissale dell’Eterno Ritorno vuole liberare le cose da una tragicità senza redenzione», il 21/03/2009; «Nietzsche e la questione dell’amicizia in rapporto alla solitudine», il 20/12/2010: tutti ripubblicati ora su «Il Corriere delle Regioni»), significa accettarne le ombre e le luci, il male e il bene, la gioia e il dolore. Il male morale, e anche il male fisico, sono parte insopprimibile della condizione umana: non li si cancella, non li si annulla girando la testa dall’altra parte o cercando di non vederli. Essi sono lì, ci mordono il cuore a tradimento, ci ricordano la nostra finitezza e la nostra fragilità. Vogliamo ignorarli? Benissimo: questo ci porterà verso l’implosione, la schizofrenia, perché tutte le energie spirituali e intellettuali messe in gioco dalla loro presenza, se non trovano adeguata collocazione nella vita dell’anima, fermentano, marciscono e provocano un corto circuito. V’è una sola maniera di amare integralmente la vita: accettare anche il valore morale e redentivo della croce. È questa la sola, vera e possibile fedeltà alla vita, che Nietzsche non seppe o non volle riconoscere…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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