
Il vero bene comune è l’ordine voluto da Dio
22 Dicembre 2015
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24 Dicembre 2015C’è stato un tempo in cui la retorica ha goduto di un prestigio pari, o quasi pari, a quello della filosofia; in cui i grandi oratori erano ammirati e ascoltati quanto, o quasi quanto, i filosofi; in cui l’arte del ben dire emulava l’arte del dire il bene, cioè il vero.
Quel tempo è finito da un pezzo: la retorica si è corrosa, rattrappita, imbastardita; ma la sua sorella e rivale, la filosofia, non sta molto meglio di essa: entrambe sembrano precipitate in una crisi irreversibile, che le ha svuotate dall’interno di valore e significato.
Una società può permettersi di non possedere, o di avere smarrito, l’arte del bel discorso; non può permettersi, però, l’arte del ben ragionare: meno ancora può permettersi di aver conservato l’apparenza del bel parlare e del ben ragionare, avendone smarrito, però, la sostanza; quello sarebbe l’indizio del suo prossimo tracollo. La società odierna è molto vicina al tracollo, perché conserva la mera apparenza del bel discorso e del discorso vero, ma l’apparenza soltanto: in realtà, è divenuta del tutto indifferente all’uno e all’altro, perché, nel suo pragmatismo esasperato e nel suo utilitarismo sempre più cinico, non sente più alcuna necessità né di persuadere, né di cercare il vero. Il potere, oggi — che è essenzialmente il potere invisibile e inafferrabile delle banche e della finanza — si serve di ben altre strategie, per persuadere le persone: si serve di meccanismi di condizionamento indiretto talmente sottili, che coloro i quali li subiscono, non se ne rendono neppure conto. E quanto alla ricerca del vero, non interessa più a nessuno, se non a qualche malinconico e sempre più isolato Don Chisciotte, oggetto di stupore e quasi d’incredulità da parte dell’uomo-massa.
La persuasione è potente, e perfino temibile, in una società che si serve ancora della parola e che vede nella parola lo strumento centrale e insostituibile della vita sociale; ma questo non è più il nostro caso. La televisione ha banalizzato la parola e l’ha subordinata all’immagine; il telefonino l’ha ridotta ai minimi termini, l’ha deturpata, svuotata e ridotta all’insignificanza; il computer l’ha burocratizzata e definitivamente staccata dal suo contesto naturale, cioè la vita, per trasformarla in parola virtuale, che echeggia in uno spazio vuoto, in una dimensione impalpabile, perché quasi inesistente, subliminale. Non c’è più bisogno di buoni parlatori, se non nei luoghi obsoleti del potere più basso: tribunali e parlamenti. I luoghi del potere reale sono ben altri; e, in ogni caso, non sono visibili, perché non sono pubblici. E i luoghi dove l’esercizio del potere si manifesta sono non-luoghi, come la pubblicità: sono dovunque e da nessuna parte, sui muri delle case come sulle onde radiotelevisive.
Nella società di massa, non servono più parole per persuadere gli esseri umani. L’immagine di un bambino africano, scheletrito e disidratato, con il ventre enfiato e lo sguardo allucinato e febbricitante, è mille volte più potente di qualsiasi parola, specialmente se tale immagine viene sparata in faccia all’uomo-massa seduto a tavola, mentre consuma il suo triste e bovino pasto solitario, fra un turno lavorativo e l’altro. Quale discorso ben tornito potrebbe mai competere con essa? E quale ragionamento filosofico potrebbe mai ridurla entro la cornice di un discorso proteso alla ricerca della verità? La verità non interessa più a nessuno: né a coloro che si servono cinicamente delle immagini, dopo averle opportunamente selezionate e, se necessario, manipolate ad arte o, addirittura, fabbricate di sana pianta, né a coloro che ne vengono investiti con forza dirompente e ne subiscono, rassegnati, il tremendo ricatto emotivo, che accende in loro arcani sensi di colpa e li rende disponibili a subire qualunque lavaggio del cervello.
Ha osservato Paul Ricoeur nel suo studio sulla retorica e la poetica in Aristotele (in: P. Ricoeur, «La metafora viva», titolo originale: «La métaphore vive», Paris, Editions du Seuil, 1975; traduzione di Giuseppe Grampa, Milano, Editrice Jaca Book, 1976, pp. 9-12):
«Già il semplice esame dell’Indice della "Retorica" d’Aristotele attesta che abbiamo ricevuto la teoria delle figure non solo da una disciplina morta ma da una disciplina che è stata amputata. La retorica di Aristotele copre tre campi: una teoria dell’argomentazione che ne costituisce l’asse principale e che fornisce, al tempo stesso, il nodo della sua articolazione con la logica dimostrativa e con la filosofia (questa teoria dell’argomentazione copre, da sola, i due terzi dell’intero trattato) – una teoria dell’elocuzione – e una teoria della composizione del discorso. Gli ultimi trattati di retorica ci darebbero, per usare una felice espressione di Géard Genette, una "retorica ristretta", ristretta dapprima alla teoria dell’elocuzione e poi a quella dei tre tropi. La storia della retorica è come la storia di una disciplina che si accorcia. Una delle cause della morte della retorica sta proprio nell’averla ridotta ad una delle sue parti, in tal modo la retorica smarriva il "nexus" che la connetteva alla filosofia attraverso la dialettica; una volta smarrito tale nesso, la retorica diventava una disciplina incerta e futile. La retorica viene a morire quando il gusto per la classificazione delle figure soppiantò il senso filosofico che anima il vasto impero retorico, ne teneva insieme le parti e collegava il tutto all’"ragno" e alla filosofia prima.
Questo sentimento di una perdita irrimediabile cresce se si considera il fatto che il vasto programma aristotelico rappresentava, a sua volta, se non una riduzione, quanto meno la razionalizzazione di una disciplina che a Siracusa , suo luogo d’origine, s’era proposta la redazione di tutti gli usi della parola detta in pubblico. C’era retorica perché c’era eloquenza pubblica. L’osservazione non si ferma qui: dapprima la parola fu un’arma destinata ad influenzare il popolo, di fronte al tribunale, nell’assemblea pubblica, o ancora con l’elogio e il panegirico: un’arma chiamata ad attribuire la vittoria in quelle lotte nelle quali il discorso provoca la decisione. Nietzsche ha scritto: "L’eloquenza è repubblicana". […]
La retorica dei Greci non aveva soltanto un programma singolarmente più vasto di quello dei moderni; essa derivava dal suo rapporto con la filosofia tutte le ambiguità del suo statuto. L’origine "selvaggia" della retorica spiega a sufficienza il carattere propriamente drammatico di questo scambio. Il "corpus" aristotelico ci presenta solamente uno dei possibili equilibri, tra opposte tensioni, quello che corrisponde allo stato di una disciplina che non è più soltanto un’arma sulla piazza, ma che non è ancora una semplice botanica delle figure.
Le retorica è senza dubbio antica quanto la filosofia: si dice che Empedocle l’abbia "inventata": In tal senso ne è la nemica e l’alleata più vecchia. La nemica più vecchia: è sempre possibile che l’arte di "ben dire" si emancipi dalla preoccupazione di "dir vero"; la tecnica fondata sulla conoscenza delle cause che generano gli effetti della persuasione conferisce un potere formidabile a colui che la possiede perfettamente. Il potere di disporre delle parole senza le cose; e di disporre degli uomini perché si dispone delle parole. Forse dovremo cercar di capire che la possibilità di questa scissione accompagna tutta la storia del discorso umano. Prima ancora di diventare futile, la retorica è stata pericolosa. Per questo Platone la condannava: ritiene infatti che la retorica è nei confronti della giustizia – virtù politica per eccellenza – quel che la sofistica è per la legislazione; e che ambedue sono per l’anima quello che rispetto al corpo, sono la cucina rispetto alla medicina e la cosmesi rispetto alla ginnastica – vale a dire l’arte dell’illusione e dell’inganno. […]
Ma la filosofia non è mai stata in grado di distruggere la retorica e nemmeno di assorbirla. Gli stessi luoghi nei quali l’eloquenza dispiega i suoi artifici – il tribunale, l’assemblea, l’arena — sono luoghi che la filosofia non ha prodotto e che neppure può proporsi di distruggere. Il suo discorso non è che uno tra i molti e la pretesa veritativa che tale discorso accampa l’esclude dalla sfera del potere. Essa non è quindi in grado, con le sue forze, di smantellare il nesso tra discorso e potere.
Resta aperta una possibilità: delimitare gli usi legittimi della parola efficace, tirare una linea che separi l’uso dall’abuso, istituire in termini filosofici, il legame tra la sfera di validità della retorica e quella in cui regna la filosofia. La retorica di Aristotele rappresenta il più celebre tentativo di istituzionalizzazione della retorica a partire dalla filosofia.
L’interrogativo che mette in movimento tale tentativo è questo: che cosa vuol dire persuadere? In che cosa la persuasione si distingue dalla adulazione, dalla seduzione, dalla minaccia, cioè dalle forme più sottili di violenza? Che significa influire mediante il discorso? Porre questi interrogativi, vuol dire decidere che non è possibile tecnicizzare la arti del discorso senza sottoporle ad una riflessione filosofica radicale la quale delimiti il concetto di "ciò che è persuasivo" ("to pithanon").»
Sono domande centrali e sempre attuali, anche se, in apparenza, superate dallo svuotamento di senso della parola, di cui parlavamo all’inizio. Perché, anche se la parola diventa obsoleta e la persuasione si serve di altre strategie, diverse dal discorso franco e diretto, resta comunque il fatto che la persuasione continua ad esistere come bisogno del potere, e oggi, anzi, tale bisogno è più forte e imperioso che mai, forse proprio perché la parola "tradizionale" ha peso la sua antica presa sull’immaginario sociale. Ma il fatto che il discorso della persuasione sia portato avanti dai cartoni animati televisivi o dagli spot pubblicitari, o addirittura dai messaggi subliminali, dei quali la mente conscia non si accorge neppure, non significa che la persuasione non sia più necessaria; al contrario: si potrebbe dire, semmai, che l’era della società di massa è caratterizzata proprio da un eccesso, da una ipertrofia, da una elefantiasi della persuasione, dilagante ovunque, nelle modalità più raffinate e indirette, ma tanto più terribilmente efficaci della "semplice" parola.
In buona sostanza, riteniamo si possa dire che sia la retorica, sia la filosofia, perdono la loro ragion d’essere in una società che si disinteressa del vero e del giusto. In una società edonista, atomizzata, spiritualmente e culturalmente distrutta secondo il volere dei poteri forti, e poi "ricostruita" sullo stampino del relativismo e dell’indifferentismo, che tutto livella e tutto equipara, cose, beni, valori, ideali, in una marmellata ove tutto è omologato sulla misura del consumo e del profitto, gli esseri umani, declassati a banali consumatori e rassegnati contribuenti, non sentono più il bisogno, né, tanto meno, il gusto, della verità e della giustizia. "Vero" diventa ciò che appare tale; e "giusto", ciò che conviene o produce un utile.
In un certo senso, potremmo anche dire che la società contemporanea è una società post-umana, perché il bisogno della verità e della giustizia è sempre stato alla radice del vivere in maniera autenticamente umana, vale a dire in comunione con i propri simili. Un Robinson gettato sulle pietraie d’un pianeta disabitato non si sentirebbe interpellato né dalla verità, né dalla giustizia, perché non avrebbe neppure la speranza di un interlocutore; ma, a quel punto, anche il suo statuto ontologico scadrebbe ad un livello sub-umano. Oggi, noi tutti siamo stati retrocessi ad un livello sub-umano dall’avvento della società di massa e dallo strapotere della tecnica, che ci ha relegati nella condizione di variabili secondarie del progresso tecnologico. Abbiamo vissuto, nelle nostre persone, sulla nostra pelle, una mutazione antropologica della quale a stento ci siamo resi conto. Fra noi e i nostri nonni, si è aperto un abisso, non solo quantitativo, ma anche qualitativo, che niente e nessuno sembra in grado di colmare. Noi non siamo più noi, e neppure ce n’eravamo accorti. Se qualcuno incomincia ad accorgersene, costui è già sulla strada per riconquistare la perduta umanità; ma per chi non se ne rende conto, non vi è più speranza di redenzione possibile dall’inferno della reificazione. Da esseri umani, siamo stati retrocessi a cose.
Ormai, anche nei piccoli paesi si assiste all’introduzione delle più raffinate strategie di distruzione della nostra umanità. Sui tavoli dei ristoranti di McDonald’s compaiono dei tablet, per la delizia specialmente dei bambini, i quali potranno mangiare e rincretinirsi, contemporaneamente, navigando sulla rete informatica, senza neanche subire il "fastidio" di dover tirare fuori di tasca lo strumento desiderato, e continuando a ruminare beatamente le bistecche estrogenate e a trangugiare bicchieroni di Cola-Cola. Questo è un furto di umanità, e, nello stesso tempo, un furto d’infanzia. Le generazioni future disimpareranno a guardare il mondo: non riusciranno a staccare lo sguardo dallo schermo del loro tablet o del loro smartphone. A quel punto, sia parlare per convincere, sia parlare per cercare il vero, diverranno imprese non solo impossibili, ma inutili: non serviranno più…
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