
Che cosa possiamo imparare dai nostri sogni infranti
14 Dicembre 2015
Il significato mistico della caverna nella tradizione d’Occidente e d’Oriente
14 Dicembre 2015Ce l’eravamo già domandato molte altre volte, per esempio parlando di un’altra scrittrice di lingua tedesca, l’ebrea-austriaca Elfriede Jelinek (cfr. il nostro articolo: «È onesto "sporcare il proprio nido"? Il caso di Elfriede Jelinek», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 29/06/2011) e torniamo a chiedercelo ancora una volta: la società moderna, già tanto confusa, smarrita, angosciata, ha davvero bisogno di scrittori e filosofi che si adoperano ad aumentare deliberatamente la confusione, lo smarrimento, l’angoscia, senza mai offrire al loro pubblico un raggio di speranza, senza mai indicare una via d’uscita, ma solo compiacendosi e avvoltolandosi nella rappresentazione del fango, della degradazione morale, del male in tutte le sue varie sfumature? Non sarebbe più giusto concludere che, di simili "intellettuali", non sappiamo che farcene; che essi sono peggio che dei parassiti, sono peggio che dei vampiri, perché non solo si nutrono della confusione, dello smarrimento e dell’angoscia della società, ma — con la scusa di rappresentarli: e a che scopo, poi? non sono già ben tristemente noti, per il fatto che li si incontra ogni giorno e dappertutto? — li enfatizzano, li esaltano, li assolutizzano, quasi che, al mondo, altro non vi fosse, all’infuori di essi? Così facendo, infatti — e per il più basso dei motivi, poi: accrescere la propria fama, gratificare il proprio ego, assicurarsi una certa notorietà e/o un certo benessere materiale — essi operano una menzogna consapevole: perché, nella realtà, vi sono, sì, quelle tali cose, ma non quelle soltanto: e mutilare la rappresentazione della realtà della sua parte positiva, luminosa, spirituale, equivale ad un tradimento nei confronti del vero.
Prendiamo il caso di Patrick Süskind (nato ad Ambach, in Baviera, nel 1949), letteralmente esploso nell’Olimpo della celebrità letteraria grazie al suo romanzo «Il profumo», del 1985, che fu subito un "caso", e dal quale il regista Tom Tykwer ha tratto un film, nel 2005, acquistando i diritti cinematografici per una cifra che va, probabilmente, dai cinque ai dieci milioni di euro. Brutto romanzo e brutta storia; la scrittura è piatta, banale, prevedibile; la storia è di un sadismo rivoltante, perché visibilmente compiaciuto, dalla prima all’ultima riga. È come se l’autore si fosse proposto di trascinare nell’inferno del proprio nichilismo i suoi lettori (e gli spettatori del film), immergendoli in un mondo cupo, senza speranza, senza luce, senza fede in alcunché, dominato solo da una cieca violenza e da un destino tanto fatale, quanto incomprensibile.
Affinché il lettore possa farsi un’idea di queste nostre affermazioni, gli proponiamo, qualora non l’avesse già fatto per suo conto, la lettura della prima pagina del romanzo (da: Patrick Süskind, «Il profumo»; titolo originale: «Das Parfum», Diogenes verlag, Zurich, 1985; traduzione dal tedesco di Giovanna Agabio, Milano, TEA, 1988, pp. 9-10):
«Nel diciottesimo secolo visse in Francia un uomo, tra le figure più geniali e scellerate di quell’epoca non povera di geniali e scellerate figure. Qui sarà raccontata la sua storia. Si chiamava Jean-Baptiste Grenouille, e se il suo nome, contrariamente al nome di altri mostri geniali quali de Sade, Saint-Just, Fouché, Bonaparte ecc. oggi è caduto nell’oblio, non è certo perché Grenouille stesse indietro a questi più noti figli delle tenebre per spavalderia, disprezzo degli altri, immoralità, immoralità insomma, bensì perché il suo genio e unica ambizione rimase in un territorio che nella storia non lascia traccia: nel fugace regno degli odori.
Al tempo di cui parliamo, nella città regnava un puzzo a stento immaginabile per noi moderni. Le strade puzzavano di letame, i cortili interni puzzavano di orina, le trombe delle scale di legno marcio e di sterco di ratti, le cucine di cavolo andato a male e di sterco di montone; le stanze non aerate puzzavano di polvere stantia, le camere da letto di lenzuola bisunte, dell’umido dei piumini e dell’odore pungente e dolciastro di vasi da notte. Dai camini veniva il puzzo di zolfo, dalle concerie veniva il puzzo di solventi, dai macelli puzzo di sangue rappreso. La gente puzzava di sudore e di vestiti non lavati; dalle bocche veniva un puzzo di denti guasti, dagli stomaci un puzzo di cipolla e dai corpi, quando non erano più tanto giovani, veniva un puzzo di formaggio vecchio e latte acido e malattie tumorali. Puzzavano i fiumi puzzavano le piazze, puzzavano le chiese, c’era puzzo sotto i ponti e nei palazzi. Il contadino puzzava come il prete, l’apprendista come la moglie del maestro, puzzava tutta la nobiltà, perfino il re puzzava, puzzava come un animale feroce, e la regina come una vecchia capra, sia d’estate sia d’inverno. Infatti nel diciottesimo secolo non era stato ancora posto alcun limite all’azione disgregante dei batteri, così non v’era attività umana, sia costruttiva sia distruttiva, o manifestazione di vita in ascesa o in declino, che non fosse accompagnata dal puzzo.
E naturalmente il puzzo più rande era a Parigi, perché Parigi era la più grande città della Francia. E all’interno di Parigi c’era poi un luogo dove il puzzo regnava più che mai infernale, tra Rue aux Fers e Rue de la Feronnerie, e cioè il Cimitière des Innocents. Per ottocento anni si erano portati qui i morti dell’ospedale Hôtel-Dieu e delle parrocchie circostanti; per ottocento ani, giorno dopo giorno, dozzine di cadaveri erano stati portati qui coi cari e rovesciati in lunghe fosse; per ottocento anni in cripte e ossari si erano accumulati, strato su strato, ossa e ossicini. E solo più tardi, alla vigilia della Rivoluzione Francese, quando alcune fosse di cadaveri smottarono pericolosamente e il puzzo del cimitero straripante indusse i vicini non più a semplici proteste, bensì a vere e proprie insurrezioni, il cimitero fu definitivamente chiuso e abbandonato, e milioni di ossa e di teschi furono gettati a palate nelle catacombe di Montmartre, e al suo posto sorse una piazza con un mercato alimentare.
Qui dunque, nel luogo più puzzolente di tutto il regno, il 17 luglio 1738 nacque Jean-Baptiste Grenouille. Era uno dei giorni più caldi di tutto l’anno. La calura pesava come piombo sul cimitero e spingeva i miasmi della putrefazione, un misto di meloni marci e di corno bruciato, nei vicoli circostanti. La madre di Grenouille, quando le presero le doglie, si trovava all’esterno di un bugigattolo di pescivendolo in Rue aux Fers e stava squamando dei pesci bianchi che aveva appena sventrato. I pesci, pescati presumibilmente nella Senna la mattina stessa, puzzavano già tanto che il loro odore copriva l’odore dei cadaveri…»
Questa è solo la prima pagina, ma crediamo che dia un’idea esatta del tono complessivo di tutto il libro, sia come stile, che come contenuto. È la storia di un serial-killer dotato di un senso dell’olfatto prodigioso, che semina il paese di delitti a sfondo sessuale, come una belva senz’anima; e potrebbe essere stata ambientata benissimo per le strade della New York contemporanea, come fanno tanti scrittori e scribacchini del sottogenere sadico-horror, se non fosse che Süskind aveva bisogno di un contesto particolarmente fetido per far risaltare il senso dell’odorato enormemente sviluppato del suo protagonista, e per tale motivo ha scelto Parigi e la Francia del XVIII secolo. Che poi quel secolo sia stato particolarmente dominato dal fenomeno del cattivo odore generalizzato, è cosa tutta da dimostrare – anche se corrisponde ad un cliché ben sviluppato, e ormai saldamente radicato, nell’immaginario collettivo -, ma che il nostro Autore prende senz’altro per buona e dà semplicemente per scontata, compiacendosi di descrivere quanto puzzasse ogni cosa e ogni persona, sia di sporcizia che di sudore, o addirittura di cadavere e di putrefazione, dall’ultimo popolano fino alla corte di Versailles, compresi il re e la regina di Francia.
In questo ambiente insopportabilmente fetido, nasce l’eroe di questa storia: figlio di una donna sporca e puzzolente, che stava compiendo, al momento delle doglie, una operazione particolarmente puzzolente: squamare dei pesci già sventrati e puzzolenti come non mai. Come stupirsi se, da tanta puzza, è nato un mostro umano dal finissimo odorato? E qui si cade nel più vieto determinismo positivista, alla Taine e alla Zola: l’ambiente, l’eredità, il momento storico: che siano dati questi tre elementi, e avremo, come risultato finale, il destino di ciascun individuo, già bello scritto e fissato in anticipo, più ancora di quello di Edipo, parricida e incestuoso con la madre.
La cosa potrebbe anche andare, anche se non è particolarmente originale — Süskind ha scoperto il naturalismo alla Rougon-Macquart con cent’anni di ritardo, ma fa niente -, se non fosse che lo scrittore tedesco pretende di somministrarci una specie di saggio filosofico travestito da romanzo, e lo si percepisce già dalla prima riga, in quel tono solenne e sentenzioso, in quell’andamento da romanzo tradizionale, con tanto di narratore onnisciente e di morale insita nella vicenda, cui non manca nemmeno la tragica fine dello scellerato protagonista. Se almeno si fosse limitato a scrivere il solito romanzo sadico-noir, così di moda nella letteratura poliziesca di marca anglosassone; se ci avesse ammannito la solita pietanza a base di investigatore (o investigatrice) che ne ha viste tante, ma che il serial-killer di turno riesce ancora a stupire e a far rabbrividire con il genio della sua macabra inventiva, allora avremmo avuto un ennesimo libraccio che solletica i peggiori istinti umani, la perversione sessuale spinta fino alla necrofilia, insomma de Sade più Alberto Moravia, oppure Alberto Moravia più de Sade; e buonanotte a tutti. Ma no: ha voluto fare il grande e spietato analista dell’animo umano; il grande esploratore del sottosuolo — putrido come non mai, ben s’intende, sulla scorta di Freud e del Divino Marchese cuciti assieme in un ibrido mostruoso, ma perfettamente in linea con certe tendenze del tempo nostro.
Quel che vogliamo dire è che la società odierna non ha bisogno di simili scrittori; non sa che farsene di questi sciacalli, di questi avvoltoi, che si nutrono dei cadaveri delle nostre paure, delle nostre perversioni, dei nostri avvilimenti; di queste iene che ululano nella savana inumana delle nostre metropoli, nei deserti infuocati delle nostre anime riarse. Avremmo bisogno di qualche goccia d’acqua, di qualche raggio di sole, di qualche parola di speranza: non di simile robaccia, che non ha neppure il pregio di una scrittura originale o particolarmente raffinata, ma che potrebbe essere quella di moltissimi studenti di liceo, e anche qualcosa di meno. Stiamo facendo del moralismo troppo facile? Stiamo caricando la letteratura d’un peso che non le appartiene, d’una responsabilità che non è sua? Forse. O forse no. Ciascuno giudicherà da sé, sulla base del proprio buon senso e del proprio buon gusto.
Uno scrittore, un romanziere, è legittimato a descrivere gli angoli brutti dell’anima umana, quando lo richiedono le esigenze di ciò che egli vuole raccontare. Questo, naturalmente, a due condizioni: la prima, che egli abbia qualcosa da dire; la seconda, che eviti, per quanto possibile, di attardarsi e di compiacersi eccessivamente nel fango da lui descritto. Patrick Süskind, scrivendo questo romanzo, non aveva assolutamente nulla da dire; e, quanto alla seconda condizione, l’ha calpestata dalla prima all’ultima pagina. Il suo libro vive di puzza, di sadismo e del non-senso dell’esistenza umana, crimine compreso: tale è l’immagine dell’uomo, della società, della storia, che ha voluto regalare al suo lettore; tale la sua filosofia di vita, il suo "insegnamento". Perché ogni scrittore, che lo voglia o no, che gli piaccia o no, è un "insegnante": se non lo fosse, non sentirebbe lo stimolo a pubblicare le sue opere, ma le terrebbe nel cassetto, e, al massimo, le leggerebbe a pochi amici. Se desidera, invece, renderle pubbliche, lo fa perché crede nella validità di quel che ha scritto (o perché vuole guadagnare in fretta tanti soldi, magari facendo leva sulle patologie mentali del pubblico). E, pertanto, è giusto che egli si assuma anche la responsabilità morale del suo "insegnamento"; così come dovrebbero fare, del resto, tutti gli intellettuali che si rivolgono ad un pubblico, dai registi di cinema e teatro, ai filosofi, dai musicisti agli storici.
Lo sappiamo bene: qualcuno penserà che ci piacerebbe mettere il bavaglio alla "sacra" libertà d’espressione, o che vorremmo riaccendere i roghi dei libri e dei quadri dell’arte degenerata, di infausta memoria. Niente affatto. Semplicemente, ci piacerebbe che il pubblico avesse maggiore buon gusto e più buon senso nel premiare le opere che gli vengono proposte. Stiamo esprimendo una opinione e, insieme, un auspicio. Il romanzo è una cosa seria: può avere un’influenza enorme su chi lo legge. Non tutti dovrebbero leggere romanzi, se non ne sanno comprendere il significato; così come non tutti dovrebbero sposarsi e mettere al mondo dei figli, se non son disposti a fare seriamente gli sposi, né i genitori. È un linguaggio troppo duro, questo? Forse non lo è abbastanza…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels