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5 Dicembre 2015«La bestia nella giungla» (titolo originale: «The Beast in the Jungle») è un racconto che fa parte di una raccolta di scritti vari intitolata «La parte migliore» («The Better Sort»), pubblicata nel 1903 — ma tradotta in italiano solo nel 1942 -, opera di Henru James, il grande scrittore americano, naturalizzato britannico (nato a New York nel 1843 e morto a Londra nel 1916), autore di importanti romanzi, noti in tutto il mondo — ma andiamoci piano nel qualificarli "capolavori" — quali «Tutore e pupilla» (1871), «Roderick Hudson» (1875), «Ritratto di signora» (1881), «Principessa Casamassima» e «I Bostoniani» (1886), «Ciò che sapeva Maisie» (1897), «L’età ingrata» (1899) e «Gli ambasciatori» (1903).
John Marcher conosce, in Italia, una sua compatriota, Mary Bartram, per la quale prova una immediata e viva simpatia; la ritrova poi a Londra, e fra i due nasce una amicizia intensa e commovente, che durerà fino alla morte. Si frequentano quasi ogni giorno, vanno a teatro, al ristorante, parlano di tutto, stanno bene l’uno con ‘latra: a John, tuttavia, non viene mai in mente che lei, forse, desidererebbe un passo avanti da parte sua, e, quanto a sé, respinge perfino l’idea di stabilizzare il loro legame, di fidanzarsi e di sposarla. Il perché risiede in una sorta di presentimento che egli prova sin da ragazzo, e che ha confidato a Mary: ossia che, nella sua vita, vi sia, in agguato contro di lui, un evento oscuro, simile a una belava acquattata nella giungla, pronto a investirlo con forza terrificante, e rispetto al quale egli deve tenersi costantemente pronto, per non esserne travolto. Come potrebbe sposarsi, legare al suo destino quello di un altro essere umano, in simili condizioni? Non sarebbe, da parte sua, un atto di estremo egoismo?
E così passano gli anni, nulla cambia nella vita di questa strana coppia che non è una vera coppia; finché Mary si ammala e John, non essendole neppure parente, non può assisterla come vorrebbe. Fa solo in tempo a ricevere, dalle labbra esangui di lei, un’ultima, strana rivelazione: Mary afferma di sapere, e di aver visto, la "bestia" tanto temuta dal suo amico, anzi, di averla veduta compiere il balzo su di lui. In un primo tempo egli s’immagina che ella abbia voluto dirgli che la "bestia" era il suo amore per lei e il senso di perdita per la sua morte; solo molto più tardi capirà la verità, che è completamente diversa.
Recandosi al cimitero, dopo un viaggio in Oriente fatto allo scopo di distrarsi dai tristi ricordi, vede, non lontano dalla tomba dell’amica, un uomo dall’espressione stravolta per il dolore, e rimane come folgorato: capisce, cioè, che quello sconosciuto, per soffrire così tanto, doveva aver perso una persona preziosissima, insostituibile: e solo allora John capisce che anche lui ha perso la cosa più preziosa della sua vita, ma senza essersene reso conto, per cui la "belva" non era l’amore, e neppure la perdita, ma la sua incapacità di vivere i propri sentimenti e di riconoscerne la bellezza, mancando, in tal modo, il senso della sua stessa vita. Ed è una scoperta agghiacciante, annichilente, perché ad essa non vi è più alcun rimedio possibile.
Così riassume il senso di questa notevole opera di Heny James il saggista americano Stephen Kern nel suo libro «Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento» (titolo originale: «The Culture of Time and Space, 1880-1918», Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press, 1983; traduzione dall’inglese di Barnaba Maj, Bologna, Il Mulino, 1988, 1995, pp. 207-208):
«… Pochi anni dopo [la pubblicazione di "Cuore di tenebra" di Joseph Conrad, nel 1899] fu scritto un altro racconto su una giungla, su un viaggio e sul vuoto: "La belva nella giungla" (1903), di Henry James. Esso narra di John Marcher, il quale è persuaso che lo attenda uno strano e raro destino, accovacciato come una bestia nella giungla, pronta a balzare e ad ucciderlo. Egli conquista l’affetto di May Bartram, che si impegna a spiare e ad attendere con lui e con il passare degli anni giunge a comprendere, ma senza dirglielo, che cosa sia la bestia. Anche Marcher [si intende: come Kurtz, il personaggio-chiave di "Cuore di tenebra"] è un uomo del suo tempo- di belle maniere, disciplinato, riservato, e, fatta eccezione per la sua dipendenza da May, autonomo. Ogni cosa nella sua vita è in ordine — la sua libreria, il suo giardino in campagna, i suoi sentimenti. Quando May si ammala seriamente, egli prevede che il senso di perdita che proverà per la sua morte deve essere la bestia, ma ella gli dice che essa ha già fatto il balzo e che egli ha mancato di osservarlo: la sua spiegazione è confusamente negativa: "la vostra incapacità di rendervi conto di esso è la stranezza NELLA stranezza". Ella lo confonde ancora di più dicendo di essere contenta "di essere stata in grado di vedere che cosa esso NON è". Alla fine, Marcher apprenderà il significato di questa seconda negazione: che la bestia non era il suo amore per lei e il suo senso di perdita. Dopo la morte di lei, deve attendere da solo qualcosa che è già accaduto ma egli non comprende ancora. Un anno dopo, mentre rende una delle sue deferenti viste alla tomba di lei, egli osserva un altro uomo profondamente abbattuto dal dolore. Marcher si rende conto che il volto dello straniero mostra un’intensità che egli non ha mai sentito: egli guarda indietro alla tomba di May e improvvisamente vede la bestia. Il nome sulla lapide sepolcrale diventa "il vuoto risuonante della sua vita": ella era ciò che aveva mancato e che era il suo destino speciale — "egli era l’uomo del suo tempo, l’uomo cui nulla sulla terra doveva accadere". Era stato anestetizzato dalle raffinatezze della civiltà moderna e non poteva provare alcun sentimento profondo per lei, né prima n dopo la sua morte. La bestia nella giungla era questo: una mancanza di sentimento. Questo non era uno spirito attivo di negazione, come Mefistofele nel "Faust" di Goethe, ma un vuoto interiore, simile al vuoto che risuonava dal silenzio della tomba di May.
La sua intuizione terrificante, come le parole in punto di morte di Kurtz [il protagonista di "Cuore di tenebra"], sono due forme della negatività…»
La belva in agguato, dunque, non era l’amore di John Marcher per Mary Bartram, e nemmeno il senso di perdita per la morte di lei, bensì la sua stessa incapacità di amare e perfino di riconoscere i propri sentimenti, anche solo allo stato potenziale: non una presenza, dunque, ma un’assenza, un vuoto, una impossibilità. Il male ha due facce: quella attiva, faustiana, impersonata da Kurtz, e quella passiva, addirittura inconsapevole, impersonata da John. E, fra i due, è quest’ultimo il più tipico rappresentante della "malattia" dell’uomo moderno, la malattia provocata da un eccesso di civilizzazione: la totale, definitiva anestesia delle passioni, l’assenza di sentimento, la mutilazione profonda e irreparabile della propria stessa umanità. L’uomo moderno è malato non perché in lui ci sia il seme di cattivi pensieri o di cattive azioni, ma perché egli non sa, né può amare, e, forse, neppure odiare: è regredito allo stadio dell’accidia permanente, come, in fondo, aveva lasciato intravedere sin dai suoi esordi, se è vero che il primo uomo moderno, in letteratura, è rappresentato da messer Francesco Petrarca (cfr. il nostro precedente articolo: «Francesco Petrarca e lo spirito della modernità», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 10/05/2007).
È quasi superfluo aggiungere che i critici di tendenza psicanalitica freudiana hanno visto, nei timori di John Marcher/Henry James, i sintomi tipici del panico omosessuale: figuriamoci se si lasciavano scappare la ghiotta e banalissima occasione di fare i superpoliziotti psichici dell’inconscio, appioppando patenti di omosessualità repressa al disgraziato di turno. Nondimeno, ammesso e non concesso che si possa fare l’equivalenza fra John Marcher ed Henry James, che cosa cambierebbe? Uomini terrorizzati dal matrimonio ce ne sono sempre stati e sempre ce ne saranno; che siano tutti degli omosessuali latenti, ne dubitiamo alquanto; e tuttavia, torniamo a chiedere: che importanza può avere, ai fini della comprensione del racconto? Forse è molto meglio stare al quesito che l’Autore ci pone: ossia se, per caso, la nostra vita non ci scorra fra le dita senza che ce ne accorgiamo, e la nostra grande occasione non svanisca mentre l’abbiamo a portata di mano, solo perché non la sappiamo vedere. È troppo banale, questa domanda? Non ci sembra.
Al contrario: siamo dell’opinione che Henry James, qui, abbia messo veramente il dito sulla piaga: che abbia riconosciuto e individuato, con estrema chiarezza e precisione, un tratto essenziale della malattia della modernità: la disumanità, la mancanza di affettività, l’incapacità di vivere realmente la propria vita. Anche John Marcher, come Zeno Cosini, come Leopold Bloom, come il Signor K. de «Il processo» e come Marcel de «La ricerca», è un inetto; e, come tutti loro, in qualche oscura maniera, anch’egli viene fuori da un lembo della veste del protagonista dei «Ricordi dal sottosuolo» del geniale Dostoevskij. E tuttavia, a nostro avviso, James non ha saputo spingere veramente a fondo la sua intuizione: non è stato capace di esplorare quella giungla ove la bestia se ne sta acquattata, di batterla in astuzia, come solo i grandi cacciatori sanno fare; o forse, come John Marcher, non lo ha voluto fare, perché trattenuto da qualcosa.
Noi crediamo che, a trattenerlo, sia stata la sua formazione positivista, di uomo del tardo XIX secolo, figlio di una razionalità improntata alla lettura scientifica del mondo: ha intuito, bensì, che quest’ultima non era tutto, che non esauriva veramente il quadro, che non era capace di spiegare la cosa più importante, cioè il senso finale di ogni cosa; ma è rimasto sulla soglia, intimidito dalla sua stessa intuizione, e non ha osato varcarla, prigioniero dei suoi schemi mentali di uomo razionale, che crede essenzialmente ai "fatti" e diffida di tutto il resto. In altre parole, la domanda che poniamo è la seguente: e se la bestia in agguato nella giungla, fosse veramente una bestia? Se ciò di cui essa è il simbolo non fosse una assenza, ma una presenza? E se questa presenza non fosse, o non fosse solamente, interna all’uomo, ma esistesse anche fuori di lui, oggettivamente, e, perciò, tanto più paurosamente e minacciosamente verso di lui?
Maurizio Blondet, in un recentissimo articolo, ha espresso un pensiero profondo, parlando della strage compiuta a San Bernardino, in California, il 2 dicembre 2015. Si è chiesto cosa possa avere spinto un giovane padre e una giovane madre a lasciare la loro figlioletta di sei mesi, a uscire dalla casa che avevano da poco acquistato, e a recarsi a compiere una tremenda missione di morte, nella quale hanno ucciso più persone che potevano, sapendo che, alla fine, sarebbero stati uccisi a loro volta; e ha risposto che il Diavolo deve essere entrato nella mente o piuttosto nell’anima di quelle persone. Così come deve essere entrato nell’anima di tante, troppe altre persone apparentemente normali: e non parliamo solo del fenomeno del terrorismo, ma di infinti altri casi di avidità, superbia, lussuria, gelosia, invidia, crudeltà e ingiustizia di ogni genere, che culminano, sempre più spesso, in atti di violenza quasi inconcepibile, mostrando una malizia che si direbbe superiore a quanto sia possibile alla sola malizia umana (che pure è assai grande).
Insomma, cari cittadini del terzo millennio, tutti figli o nipoti o pronipoti della cultura illuminista, scientista, positivista, razionalista e materialista: siamo proprio sicuri che il Diavolo non esista? Siamo proprio convinti che il Male, in forme sempre più raffinate, sempre più gratuite, sempre più allucinate e devastanti, e capace di spingere le persone ad ignorare persino i sentimenti più naturali — come il sentimento di protezione di un genitore nei confronti del proprio figlio ancora piccolino – sia solo una assenza di bene, un vuoto, una mancanza? E che la sua spiegazione, la sua origine, vadano cercati sempre e solo dentro l’uomo? Non sarà, questo, l’ultimo travestimento assunto dalla superbia umana, la quale, pur di affermare l’io, pretende di negare, oltre a Dio, anche il Diavolo, come se l’uomo, da solo, fosse capace di tutto il bene o di tutto il male del mondo? Come se nulla esistesse all’infuori dell’uomo; e che la belva, se pure esiste, giace dentro di lui, per cui, in un certo senso, una volta scovatala, egli la potrebbe facilmente neutralizzare? Non è forse questa la grande illusione della psicanalisi, specialmente freudiana: di poter trovare nell’uomo stesso, portatore della propria malattia, anche la ricetta per la sua guarigione? Ma come potrebbe un malato guarire gli altri malati; come potrebbe un cieco, guidare una folla di ciechi?
Ecco: se John Marcher non ha saputo vedere la bestia che c’era dentro di lui, forse il suo creatore, Henry James, non ha avuto il coraggio di fare il passo ulteriore, e riconoscere la bestia in agguato fuori di lui (e di noi): tanto più pericolosa, perché il suo richiamo desta un’eco nelle profondità della nostra anima; e, per giunta, la nostra cultura è cosiffatta, da impedirci di vederla e riconoscerla…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels