
L’arroganza scientista di padre Gemelli e la lunga tribolazione di San Pio da Pietrelcina
1 Dicembre 2015
Il pensiero di Giuseppe Toniolo sul rapporto tra fede, ragione e storia
2 Dicembre 2015Caterina Percoto è stata una importante scrittrice friulana della seconda metà dell’Ottocento: nacque a San Lorenzo di Soleschiano, nel comune di Manzano, il 12 febbraio del 1812 e si spense a Udine, il 15 agosto del 1887, all’età di settantacinque anni. Non ha lasciato un capolavoro, né un singolo libro che sia rimasto particolarmente impresso nella memoria dei lettori; nondimeno, per la costanza del suo impegno di scrittrice (anche in lingua friulana, ma principalmente in italiano), per i suoi ferventi sentimenti patriottici, che ne fecero quasi una icona delle lotte risorgimentali, nonché per la sua amicizia e i suoi intensi rapporti con notevoli scrittori e intellettuali dell’epoca, da Carlo Tenca a Francesco Dall’Ongaro, si fece conoscere e apprezzare in ambito nazionale, incontrando anche la simpatia e la recensione favorevole del "vate" Giosuè Carducci, e vedendosi assegnati dal ministro della Pubblica istruzione, Cesare Correnti, prestigiosi incarichi. Fra l’altro, ebbe la soddisfazione di vedersi offrire la direzione dell’Educandato Santa Chiara (oggi Uccellis), a Udine, lo stesso nel quale aveva studiato ella stessa da bambina e da adolescente e del quale avrebbe poi sempre conservato un cattivo ricordo, per il tipo di educazione ricevuta dalle suore clarisse; e si prese anche l’ulteriore soddisfazione di rifiutare l’incarico.
Il capolavoro di Caterina Percoto non è rappresentato una singola opera, ma dall’insieme della sua produzione letteraria, specialmente in prosa (meno valida è quella poetica), e specialmente dai racconti e dalle novelle, ove — talvolta – raggiunge risultati di indubbia efficacia, nel clima generale della tendenza realistica allora dominante in Italia e in Europa, e nei quali mostra uno speciale interesse per la realtà locale della "piccola patria" friulana, per le sue antiche tradizioni paesane, e, all’interno di esse, per la vita delle classi popolari, specialmente quelle del mondo rurale (atteggiamenti che le valsero, anche e soprattutto nella cerchia dei suoi conoscenti diretti, lo scherzoso, ma sostanzialmente affettuoso, appellativo di "contessa-contadina").
Il suo amore per il popolo e per l’ambiente rurale friulano si esprime anche nelle forme di una attenta e sensibile osservazione della natura, dei monti, dei boschi, delle acque, in cui vi è ancora un riverbero del sentimento romantico della natura (come, del resto, in Carducci: che appunto in Friuli, e precisamente in Carnia, ambienta la sua famosa poesia «Il comune rustico», composta dopo un soggiorno nel paese di Arta Terme), ma già filtrato, qui e là, da uno spirito nuovo, che prelude — ma molto alla lontana — all’atteggiamento decadentista, o, quanto meno, a un aspetto centrale del modo di porsi decadentista di fronte alla natura: il panismo. Insomma: la natura, per Caterina Percoto, è qualcosa di più, invero molto di più, che un semplice "fondale" per l’ambientazione delle sue storie (come invece lo è ancora, sostanzialmente, proprio nel citato «Comune rustico»): essa è, se non la protagonista, quanto meno una co-protagonista, una presenza importante, viva, arcana, possente, affascinante, e anche, talvolta, vagamente misteriosa, pur se sostanzialmente amica e perfino materna. In ogni caso, è dotata di una esistenza propria, di un’anima propria, di una "cifra" che non si lascia interpretare interamente per via razionale e che, certo, non è possibile ricondurre e "spiegare" entro i rigidi schemi della scienza e del pensiero "positivo".
È possibile, a nostro avviso, istituire un raffronto con un altro scrittore del Nordest dell’Italia, ma appartenente alla generazione successiva (di trent’anni più giovane, infatti), il vicentino Antonio Fogazzaro, del quale ci siamo già altre volte occupati, anche, specificamente, per questo particolare aspetto (cfr. il nostro articolo: «Fogazzaro poeta della natura inquietante in chiave quasi espressionista», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» in data 07/08/2015).
Nel caso di Fogazzaro, per analizzare il suo sentimento della natura avevamo preso in considerazione un brano notissimo tratto dal romanzo «Malombra» (terminato nel 1880 e pubblicato nel 1881), con la descrizione dell’Orrido di Osteno, in Lombardia, presso il Lago di Lugano; per Caterina Percoto, abbiamo pensato di scegliere la descrizione delle bellissime Cascate di Salino, presso Paularo, in Carnia (da non confondere con le cascate omonime, e più famose, situate nel Parco nazionale dell’Aspromonte, in Calabria). In entrambi i casi, si tratta di uno squarcio di natura selvaggia, incontaminata, di una bellezza primitiva e quasi esotica — la Percoto e i suoi amici si sono addirittura forniti di una "guida", come si trattasse di una spedizione in paesi lontani, salvo poi rammaricarsi della sua inesperienza -, il che ci permette di cogliere con maggiore evidenza le analogie e le differenze nel sentimento della natura che caratterizza i due scrittori, separati, dopo tutto, da una manciata di anni appena, nonché da una distanza geografica e culturale, in ultima analisi, abbastanza modesta.
Ed ecco il racconto della Percoto, nel racconto «Un’escursione in Carnia» (in: Caterina Percoto, «Voci dai campi e dai monti», a cura di Mirella Lirussi, Trieste, Agenzia Libraria Editrice, 1996, pp. 286-92):
«Ci avviammo che il sole cominciava a lasciare nell’ombra il dorso de’ monti, alle cui falde noi andavamo costeggiando il torrente.
Oltrepassata la punta di Dierico che di rimetto a noi, di là del Chiarsò si protendeva nelle ghiaie in una verde eminenza terminata dalla chiesetta e dal suo maestoso campanile, c’internammo nei monti e salimmo sino al villaggio di Salino; poi fatto un breve giro tornammo sino a discendere verso la caduta. Ivi la montagna incavata e scoscesa si presenta come un ampio circo, le cui muraglie a strati orizzontali, di un bel marmo rosso venato di bianco, sono sormontate da un ciglio di verdura, fra i cui sterpi tremolanti si precipita la corrente.
A misura che discendi la luce si fa più quieta e più mite, come la dolce penombra dell’interno di un tempio, e senti il fragore assordante dell’acqua e la freschezza ch’ella vi spande. A forza di correre sempre nello stesso sito pare vi abbia formato una specie di colonna o di lastra di marmo rosso che s’erge fino alla sommità della rupe e ai cui piedi si raccoglie un limpido lago, che poi diviso in ruscelli spuma pe’ grebbani del buratto e si nasconde abbasso tra il verde.
Ti ricordi negli anni infantili di aver mai provato a prenderete dal fuoco un tizzo ardente, e girandolo veloce in ampie ruote a fargli segnare nell’aria una specie di solco luminoso, che dalla maggiore o minore larghezza chiamasi fettuccia o filo? Il moto di quell’ampio volume d’acqua che si precipita lungo le scanellature della sua rossa colonna ha qualche cosa di simile. Due o tre strisce bianche cadono giù di tutta altezza tanto veloci, che all’occhio ti sembrano immobili.
Alcuni sprizzi rompono di sopra nei sassi, e in forma di minutissima pioggia o di fior di farina le fanno velo trasparente, di modo che ti si presentano in un colpo due diversi movimenti, e talvolta a seconda che la percuote la luce diversi colori, e benanche tutte le gradazioni dell’iride. Il luogo è chiuso da tre lati, e gira come la curva d’un anfiteatro; sul capo l’azzurro dei cieli, e dirimpetto, in lontananza, i picchi fantastici della nuda "serenata" [dalla Serenata del Cicco, ossia il Monte Cucco]. Assorti in religioso silenzio contemplammo per un istante quel magnifico spettacolo, mentre l’alito invisibile dell’acqua c’irrorava i capelli di finissime goccioline, e ci metteva nelle membra una specie di brivido.
Lì, dinanzi all’altare di quella naiade capricciosa, salutammo il professore, e tornati alla luce del sole continuammo il nostro viaggio. Il "canale" andava sempre più restringendosi, la via tagliata nel dosso della rupe era fiancheggiata da faggi giganteschi, i cui tronchi vestiti di musco e sdraiati quasi in linea orizzontale lasciavano pendere le chiome sull’alveo del torrente, che in alcuni luoghi s’inabissava tanto profondo da non poterlo discernere coll’occhio; ma il suo iracondo muggire tra i dirupi ce ne avvisava la presenza.
Ogni qual tratto scorgevo precipitarsi dal monte qualche rivo impetuoso che ne ingrossava la corrente. Mi sta sempre dinanzi agli occhi uno che sbocca con gran furia di sotto ad un arco che serve di sostegno alla strada. Colla rapidità del fulmine ei si slancia nell’abisso, e alcuni alberi cresciuti a stento tra le aride rovine della montagna sfasciata gli protendono dinanzi a guisa d’un velo verde gli esili rami seminati di rade foglie, dietro le quali lo vedi passare spumante e bianco.
Intanto la strada andava lentamente discendendo verso il letto del torrente. Ci avevano detto che per ovviare di guadarlo bisognava rintracciare un viottolo che serpeggia tra le falde dei monti. Ci accorgemmo che la nostra guida era mal pratica del sito: eravamo stati così contenti di essa nella mattina che commettemmo il grave fallo di non cambiarla a Paularo con una del paese, che per la consuetudine conoscesse meglio quella via. Il nostro uomo, giunti a questo passo, dovette confessarci che da oltre a sei anni non aveva transitato per di lì, e anche allora venendo con un carro aveva tenuto la strada bassa, cioè per l’alveo. Ci mettemmo insieme a cercare del viottolo. Non era possibile sbagliare, perché l’acqua dava sotto alle montagne, e alle loro falde appariva un solo sentiero praticato nel sasso.
A misura che lo salivamo esso andava facendosi sempre più arduo talmente, che più d’una volta pensai che se si avesse dovuto tornare addietro per di lì, sarebbe stato un mal affare la discesa.»
Nel brano della Percoto manca, o è assai ridotto, il sentimento dell’inquietudine: la natura è vista, sì, come una forza grande e possente, come una presenza primordiale e maestosa, non però inquietante, pur se, per certi versi, sottilmente ambigua e quasi inafferrabile: come inafferrabile sembra il movimento della cascata, che la scrittrice friulana, in un vero pezzo di bravura, e con pochi tratti appena, delinea in maniera efficacissima: due o tre fili d’acqua che precipitano in basso con tale vertiginosa velocità, da apparire fermi e bloccati, come per magia.
Abbiamo detto, infatti, che, in Caterina Percoto vi è, talvolta, come un vago presentimento di quell’insieme di stati d’animo e quella particolare sensibilità che troveranno piena espressione, di lì a poco, nel movimento decadentista; ma ella, personalmente, non farà in tempo a parteciparvi, pur se appena pochi anni la separano dalla stagione di Antonio Fogazzaro, Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio. Per cui la Cascata di Salino, sul torrente Chiarsò, in Carnia, così come ce la rappresenta la Percoto, non possiede quella oscura dimensione allusiva, perfino un po’ paurosa, che ha, nella pagina di Fogazzaro, l’Orrido di Osteno, formato dal torrente Telo in Val d’Intelvi (e che è ricordato, guarda caso anche un una poesia di Luigi Pirandello).
In Caterina Percoto, figlia della stagione naturalistica, prevale un atteggiamento aperto e sensibile, sì, ma anche distaccato, in certo qual modo, nei confronti dello spettacolo di una natura forte e primitiva, con la quale non si scherza, ma che, se può stupire e persino incutere una certa soggezione con la sua smisurata imponenza, è pur sempre altra cosa dal soggetto umano e dalla coscienza umana che la registra, la ammira, forse anche la teme. Mentre nel Decadentismo vi è, sotto sotto, una segreta corrispondenza e quasi una identità fra l’io individuale e il grande tutto della natura (panismo), derivante da una intuizione non traducibile in concetti razionali: l’io e il mondo sono una cosa sola, anche se la nostra coscienza lo ignora — o, per dir meglio, lo ignora fino a quando si lascia dominare e trascinare dall’istanza razionalista: perché tutto cambia e tutto diventa chiaro, mediante una fulminea epifania, allorché la razionalità si abbandona e lo stato di coscienza ordinario, dominato da questa, si appisola, anche solo per un attimo.
Insomma: perché avvenga la rivelazione suprema, nella quale cadono i veli della realtà fittizia, e il mistero si affaccia con prepotenza improvvisa, è necessario che prenda il sopravvento uno stato di coscienza alterato, come avviene specialmente nel sogno, nella visione, nell’allucinazione, nel presentimento (e «Malombra» è costruito, appunto, su di una oscura vicenda di reincarnazione, o forse, semplicemente, su di una ossessione psichica, spinta fino al delitto e al suicidio): ma questo passo verrà compiuto solo con il Decadentismo. Nel mondo di Caterina Percoto, le cose sono ancora se stesse, non hanno smarrito la loro fisionomia, non sono diventate l’occasione affinché si manifesti la realtà "altra", celata dietro la loro superficie. È ancora un mondo realistico, oggettivo, nel quale una escursione in montagna, per quanto emozionante, per quanto avventurosa, per quanto capace di offrire emozioni strane e indefinibili, appartiene, pur sempre, all’universo noto della vita concreta, inscrivibile nella mappa concettuale definita dalla razionalità e dalla scienza. E tanto basta a far sì che la Percoto e Fogazzaro, per quanto vicini, siano separati da una frontiera invalicabile…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels