
Le Filippine cristiane sono l’eccezione che conferma la regola
30 Novembre 2015
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30 Novembre 2015In un mondo impazzito, tutto è possibile; anche che a capeggiare il "partito" dei fautori della pace a oltranza, della pace contro tutte le guerre, sia stato un personaggio come il marchese De Sade; magari con la motivazione — come è stato, appunto, il suo caso – che lo Stato non deve pretendere di avere il monopolio della violenza, perché la violenza è un fatto privato e spetta ai singoli uomini esercitarla in santa pace (scusate il bisticcio di parole), cioè senza nessun rompiscatole che venga a guastarne il sacrosanto divertimento.
Il problema della pace assoluta, in effetti, è molto, ma molto più complesso e intricato di come se lo immaginano i suoi più ingenui sostenitori, convinti che basti dire: "abbasso la guerra!" perché tutte le guerre finiscano, ora e per sempre. Si tratta di vedere, infatti, se la guerra non sia, per caso, connaturata alla condizione umana; dopo di che, si tratta di vedere se sia preferibile puntare su un obiettivo massimalista, encomiabile, ma irrealistico, o su di una strategia minima, tendente non a eliminare totalmente la pratica della guerra, ma a limitarla e, per quanto possibile, disciplinarla e "umanizzarla", togliendole almeno gli aspetti più crudeli e devastanti.
Se la guerra è ineliminabile, perché l’aggressività fa parte della natura umana, allora il volerla cancellare non solo è irrealizzabile, ma finisce per reprimere energie distruttive che, costrette a nascondersi a livello pubblico, riemergono a livello privato, ad esempio nella violenza domestica, o, comunque, nella violenza individuale, come quella di un criminale seriale, il quale si accanisce sadicamente su delle vittime inermi, per il puro gusto di farlo. E questo è, appunto, il caso del marchese De Sade, vero figlio della "filosofia" illuminista: dal che si vede quanto hanno mancato il bersaglio quanti hanno voluto vedere in lui e nelle sua opera, nonostante tutto, una espressione dello spirito libertario e anti-assolutista, e quindi, perché no?, un compagno di strada o un precursore del pacifismo e dell’anti-autoritarismo odierni.
Se, invece, la tendenza bellicosa fa parte della natura umana ed è, pertanto, pressoché ineliminabile, forse sarebbe più saggio fare in modo che essa rimanga circoscritta entro un ambito limitato (quello degli eserciti di professione, per esempio), che non dilaghi a colpire l’intero meccanismo vitale di una società, che non divenga "guerra totale", mirante alla distruzione assoluta del nemico, e alla cancellazione delle sue tradizioni, dei suoi modi di vita, dei suoi modelli di riferimento spirituali, perché solo così si potranno contenere i suoi danni più gravi ed evitare che si trasformi in uno strumento di distruzione assoluta; cosa che, in passato, anche per il modesto sviluppo tecnologico degli ordigni bellici, non era mai stata possibile.
Non bisogna, tuttavia, sopravvalutare il ruolo che ha giocato la tecnica, e specialmente la tecnica nucleare, nella trasformazione della guerra da istituzione permanente, ma tutto sommato "controllata" delle società umane, a minaccia di annientamento totale della vita sul nostro pianeta; perché, se è chiaro che lo sviluppo di una tecnica bellica sempre più potente — atomica, chimica, batteriologica — moltiplica esponenzialmente il pericolo globale, è altrettanto chiaro che non la tecnica in sé, ma un cambiamento ideologico deve aver causato il nuovo orientamento verso la guerra totale, verso la guerra come esperienza assoluta, nella quale il destino di un popolo intero – e, tendenzialmente, di ogni popolo — viene drammaticamente messo in gioco, una volta per tutte, come sul tavolo di una roulette. Il che, ad esempio, è quanto accadde alla Germania hitleriana, sia per volontà del suo folle capo, sia per quella dei suoi nemici, tesi a ottenerne la "resa incondizionata", magari sotto una montagna impressionante di macerie e sui corpi di milioni di civili massacrati nei bombardamenti aerei di tipo terroristico.
Ebbene: siamo d’accordo con lo storico Franco Cardini nel ritenere che quel momento-chiave, quel momento-cesura, che segna realmente la discontinuità fra il prima e il dopo, fra la vecchia e la nuova maniera di concepire e di fare la guerra, vada individuato nella fase giacobina della Rivoluzione francese, con l’insorgere dell’idea del "popolo in armi" e del progetto di diffusione universale della liberté, fraternité ed egalité: progetto che regalò all’Europa e al mondo oltre venti anni di guerra continua e, all’interno della Francia stessa, il primo progetto di eliminazione sistematica di un popolo intero, quello della Vandea, refrattario a siffatti ideali (cfr. il nostro articolo: «Inizia nel segno dei "diritti dell’uomo" il primi genocidio della storia moderna», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 03/12/2014, e su «Il Corriere delle Regioni» il 04/12/2014).
Scrive Franco Cardini nel libro «Quella antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra al Medioevo alla Rivoluzione francese», (Milano, Mondadori, 1995, pp. 441-443):
«…Konrad Lorenz ha visto nelle armi nucleari una discriminazione assoluta rispetto alla funzionalità della guerra come forma di rapporto umano: quindi in fattore destabilizzante che ha radicalmente modificato il fenomeno guerra rendendolo non più funzionale e quindi privo di eticità<) nel mondo nel quale attualmente viviamo. Ma, se le armi nucleari sono il risultato di una corsa al reciproco superamento tra le parti avverse, resta da individuare il momento nel quale la guerra ha cessato di essere un modo di risolvere certi contrasti e al tempo stesso una sorta di rito, di "iudicium dei": insomma ha cessato di venir confinata nella propria sfera, per dilagare al di fuori di essa.
Ora, la guerra del lungo periodo fra XI e XVIII secolo sembra aver costantemente cercato (sia pure con qualche lunga parentesi, specie fra Cinque e Seicento) di non perdere di vista certi valori irrinunziabili, di rimaner circoscritta ai combattenti e alle ragioni per cui era di volta in volta scoppiata, e non di coinvolgere la società nel suo complesso arrestandone tutte le funzioni vitali, insomma di autolimitarsi. Gli ideali cavallereschi prima, il diritto internazionale poi, la meditazione dei filosofi settecenteschi infine, sono stati tentativi differenti di umanizzare e umanizzare i conflitti, poiché era palese utopia l’evitarli del tutto e in tutto. Lo stesso tendere della guerra a trasformarsi in una sorta d’istituzione permanente, il suo "cronicizzarsi" pare aver condotto all’instaurarsi d’un equilibrio tra fattori demografici, sociali, politici, produttivi, religioso-mentali all’interno della società europea preindustriale. Il fenomeno della guerra totale è rimasto sostanzialmente estraneo a quel mondo, che anzi ha assistito, nel XVIII secolo, a un grande sforzo anche intellettuale per ulteriormente umanizzare e limitare i conflitti.
Senza dubbio, questa guerra misurata, combattuta magari anche con impegno ma senza passioni nel senso emozionale del termine, poteva sembrare a sua volta un fatto alienante se non addirittura immorale. E non era difficile proporre, attingendo alla storia o alla filosofia, dei modelli alternativi a questo "affare dei re". Si poteva ad esempio rivendicare un ruolo all’antico sogno irenistico, magari rivisitato in termini libertini. è quanto ad esempio fave a Donatien-Alphonse François de Sade riproponendo il concetto di guerra come "magnum latrocinium" e rivendicando, nella "Défense du crimine", il diritto alla violenza privata, individuale, della quale la persona era stata espropriata in quanto lo stato se ne era impossessato. Su questa via, scorgendo appunto nella guerra il risultato più tragico di tale esproprio, il De Sade aveva agio di proporre una società integralmente irenistica nella quale però l’assassinio sarebbe stato un "liberatorio" sfogo passionale dell’individuo.
Oggi è di moda pensare al Divino Marchese come a un profeta per l’età presente, e forse anche per la futura: e può darsi che non ci si sbagli Certo è che, ai suoi tempi come più tardi,il "no" alla guerra si è sovente tradotto – quando lo si è voluto sottrarre a concrete ragioni storiche e politiche -, quando ci si è rifiutati di sottoporlo a un disegno credibile e verificabile di convivenza internazionale – in un "no" alle sue limitazioni, alle sue norme.
Ma il De Sade viveva in un tempo nel quale era convinzione diffusa che la guerra sarebbe gradualmente andata scomparendo dal teatro dei rapporti umani, magari per venir sostituita con qualche altra, più raffinata, forma di conflitto. Progresso? Allorché la civiltà dei lumi si fece da parte per cedere il posto al nascente romanticismo, si cominciò a pensarla diversamente. La guerra, allora – come ribadiva Wilhelm von Humboldt -, poteva venir colta nel suo convergere con la "Bildung", nel suo carattere formativo attraverso il quale – nella tensione delle risorse dell’uomo – le civiltà pervenivano alla massima realizzazione di se stesse. In questo senso il von Humboldt poteva considerare "salutare" la guerra, preoccupandosi per una sua possibile scomparsa dalla storia del mondo a additare il suo ideale di uomo in guerra nel guerriero antico e nel suo sacrificio personale, contrapposto alla disumanizzazione del soldato moderno ridotto a un ingranaggio anonimo e perduto nella massa degli anonimi come lui candidati all’umiliazione e all’annichilimento. Che questa posizione potesse essere "pericolosa" e suscettibile di strumentalizzazioni e degenerazioni, va da sé; resta il fatto che il Von Humboldt cercava nella guerra stessa, e generosamente, , l’uomo e la sua libertà
Ormai, in questo scorcio del XX secolo, nessuno crede più sul serio né a una "naturale" scomparsa della guerra dalla faccia della terra come risultato del progresso umano – ché anzi le minacce di distruzione dell’umanità si sono semmai accresciute col perfezionarsi della tecnologia – né alla possibilità che a tali minacce si fornisca una risposta liberatoria globale, capace nel nome d’una qualche generosa utopia di veramente mutare le spade in falci e le lance in vomeri…»
Qualcuno, arrivati a questo punto del nostro ragionamento, potrebbe rifiutarsi di ammettere che esista un qualcosa di simile alla "natura umana"; qualcuno che, in nome del pragmatismo, ma anche del volontarismo, potrebbe sostenere che l’uomo è ciò che di esso vogliamo fare, qui e ora: non una "natura", ma un divenire, sul quale è possibile agire a piacere, per manipolarlo, modificarlo, e, quel che più conta, migliorarlo. Non è forse questa la cosa più importante e più degna di tutte: agire sulla infinita perfettibilità dell’essere umano?
Quest’ultima idea, in realtà, nasconde un sofisma; e il sofisma, a sua volta, nasconde un disegno di dominio radicale, pericolosissimo per l’uomo stesso, addirittura satanico. Sì: l’uomo è perfettibile; ma non è vero che egli sia infinitamente perfettibile, perché, se così fosse, allora l’uomo potrebbe far di se stesso una creatura superiore all’umana: potrebbe far di se stesso un dio. Invece l’uomo deve accettare i propri limiti; pur sforzandosi di perfezionarsi moralmente e spiritualmente, deve accettare l’idea che egli rimarrà pur sempre una creatura, e quindi un essere imperfetto (tanto è vero che i più consapevoli della loro imperfezione sono proprio coloro ci quali, secondo il giudizio della massa, si sono innalzati molto al di sopra del livello comune: i santi). L’uomo, quindi, è un essere imperfetto che tende a perfezionarsi, ma sapendo che non potrà modificare la propria natura; ossia che non potrà diventare altro da quel che egli è, almeno nella presente dimensione spazio-temporale — di quel che sarà nella dimensione dell’eterno, ciò è oggetto della Rivelazione.
Smascherato il sofisma della perfettibilità, resta da smascherare il disegno di dominio radicale e satanico che si cela dietro di esso: il disegno di voler fare dell’uomo un dio; l’ambizione dell’uomo di potersi trasformare in Dio e di poter rivaleggiare con Lui, oppure di escluderlo totalmente, dal momento che non v’è bisogno di due dèi nell’orizzonte della vita umana, quando uno è più che sufficiente. Diabolico, perché l’uomo, se vuol mettersi al posto di Dio, non può diventare che la Sua contraffazione, la Sua scimmia: il Diavolo, appunto. E questo, sì, che è alla sua portata: dal momento che non richiede uno sforzo impossibile, ma rientra nel regno del possibile; gli basta lasciarsi andare al suo lato peggiore: quello di Caino, di Erode, di Giuda.
Giungiamo, così, a una conclusione che solo in apparenza è sorprendente. Il pacifismo totale è una aspirazione alla perfezione; e, come tale, è una cosa buona fino a quando conserva la consapevolezza del proprio limite, una cosa folle e malvagia allorché pretende di potersi inverare, qui e ora, senza residui, magari a colpi di risoluzioni delle Nazioni Unite. La guerra è una realtà negativa, senza dubbio. Ma c’è qualcosa di ancor peggiore: la negazione della finitezza umana e, con essa, la pretesa di fare dell’uomo, Dio, e del mondo, il Paradiso. Perché ne deriverà l’Inferno…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels