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Quante bugie nella ciceroniana «Pro Milione» per scagionare un ben tristo personaggio

Come è noto, l’orazione «Pro Milione» di Marco Tullio Cicerone, la perla della sua carriera di avvocato e uomo politico e, forse, la migliore in assoluto di tutta la letteratura latina, sia per l’eleganze dello stile che per la sagacia e l’estrema abilità dell’argomentazione, non fu mai pronunciata, o, almeno, non fu pronunciata così come noi la possiamo leggere attualmente. Quando il suo autore, nel gennaio del 52 a. C., si trovò circondato, sulle tribune del Foro, da una immensa folla tumultuante di partigiani del defunto Clodio, e vide, in alto, il volto severo di Pompeo, al comando di una tale schiera d’armati, che pareva di trovarsi in un accampamento militare, si perse d’animo e non riuscì a parlare con la sua abituale naturalezza. Tremava tutto da capo a piedi, riferisce Plutarco (a differenza del suo difeso, Milone, che non aveva perso, nemmeno in quel frangente, l’insolenza e la sfrontatezza di sempre); tentò di parlare, nonostante tutto, ma con voce esitante, interrompendosi, mentre la folla tumultuava più che mai, e, alla fine, il suo discorso risultò completamente incomprensibile, e rimase interrotto. Solo più tardi, passata la burrasca, Cicerone riprese in mano l’orazione, la modificò, la perfezionò e, infine, la pubblicò nella versione che noi ora possiamo leggere, facendone il suo capolavoro. Si dice che Milione, leggendola, abbia commentato che le cose sarebbero andate diversamente, se il suo avvocato avesse potuto pronunciarla. Invece era stato condannato per l’assassinio di Clodio, a larghissima maggioranza, e aveva dovuto prendere la via dell’esilio, verso Marsiglia.

I fatti sono ben noti, specialmente per l’arringa difensiva di Cicerone, ma anche grazie ad altre fonti. Il 18 gennaio del 52 Clodio e Milone, i due eterni nemici politici, l’uno testa calda dei populares, l’altro uomo di spicco degli optimates, si erano incrociati sulla Via Appia, per puro caso, presso Boville, poco fuori di Roma, con i rispettivi sgherri armati: i soliti schiavi e gladiatori che sempre li scortavano e che tante violenze avevano seminato nella vita pubblica romana, uccidendo, incendiando, saccheggiando e terrorizzando gli esponenti dei due maggiori partiti che si disputavano il potere nella Repubblica ormai morente. Strano destino, il loro: si odiavano personalmente; si erano fatti il maggior male possibile, con ogni mezzo, legale e soprattutto illegale; non sognavano altro che di riuscire a distruggere l’altro; e adesso si incontravano, così, per uno scherzo del caso, quando non erano pronti, né materialmente, né psicologicamente, e avrebbero preferito essere ben lontani l’uno dall’altro. Clodio, specialmente, si trovava, in quel momento, in uno stato di evidente inferiorità: i suoi accompagnatori erano molto meno numerosi di quelli del rivale, per cui non aveva alcun interesse ad attaccar briga: e infatti i due uomini si sfiorarono e proseguirono, guardandosi in cagnesco, avendo dato ordine ai loro sgherri di non fermarsi e di non compiere, né raccogliere, alcuna provocazione.

Ma era destino che non finisse così a buon mercato: quando già le due file di sgherri stavano per separarsi, le due retroguardie vennero alle mani, non si saprà mai per colpa o per responsabilità di chi; gli altri, a quel punto, accorsero per dare man forte ai loro compagni, ormai impegnato in una lotta sanguinosa; e lo scontro divenne aperto e generale. Non ci volle molto perché i clodiani, non più di una trentina, avessero la peggio; lo stesso Clodio venne ferito, mentre si affannava — ironia della sorte: proprio lui, il facinoroso e il violento per eccellenza! — a calmare i bollenti spiriti; i suoi uomini lo trasportarono in una taverna che sorgeva sulla strada, barricandola per vender cara la pelle; ma Milone, a quel punto, decise di chiudere la partita una volta per tutte e diede ordine di assaltarla. Così Clodio venne trascinato fuori e finito, direttamente sulla strada: il suo cadavere venne abbandonato a terra e raccolto, poco più tardi, da un senatore che passava di lì, Sesto Tedio, e riportato a Roma, dove il suo arrivo suscitò una immensa agitazione tra la folla. Tanto Clodio che Milone si erano candidati, per quell’anno, ad un’alta carica politica: il primo alla pretura, il secondo al consolato: l’eccidio di Boville aveva sciolto per sempre il nodo della loro eterna rivalità.

La ricostruzione più probabile dei fatti è quella riassunta da Paolo Fedeli nel saggio introduttivo della edizione da lui curata della famosa orazione ciceroniana (da: Cicerone, «In difesa di Milone», Venezia, Marsilio Editori, 1990, pp. 11-12):

«La mattina del 18 gennaio Milone si stava recando a Lanuvio, dove, in qualità di dittatore di quel municipio, doveva presiedere alla nomina di un flamine; lo accompagnavano la moglie Fausta, l’amico Marco Fufio e un codazzo di schiavi e di gladiatori, due dei quali (Eudamo e Birria), erano famosi per la loro bravura. Poco oltre Boville, verso l’ora nona, i Miloniani incrociarono lungo la Via Appia Clodio di ritorno da Ariccia, dove si era recato il giorno prima per tenere un discorso ai decurioni di quella città (si trattava con ogni probabilità di un incontro elettorale, in quanto Clodio era candidato alla pretura); Clodio procedeva a cavallo avanti ai suoi ed era seguito da circa 30 schiavi armati di spada: le sue forze, dunque, erano in quella circostanza nettamente inferiori rispetto a quelle di Milone. Furono i gladiatori della retroguardia di Milone ad attaccare rissa con gli schiavi di Clodio: quando questi accorse per sedare la rissa, Birria gli trafisse la spalla con la lancia. Mentre lo scontro assumeva proporzioni generali, Clodio fu portato dai suoi in un’osteria, dove si cercò di curare la sua ferita; Milone, nell’apprendere che l’odiato rivale era stato colpito, ordinò ai suoi di dare l’assalto all’osteria: temeva, infatti, di incorrere nella vendetta di Clodio, se questi fosse rimasto in vita. L’assalto all’osteria, guidato da Marco Sauferio, ebbe un rapido esito: condotto fuori con la forza, Clodio fu finito dai Miloniani e il suo cadavere venne lasciato ai margini della strada.»

L’arringa di Cicerone, dicevamo, è un capolavoro assoluto dell’oratoria latina: ma guai se lo storico dovesse prendere per buone le affermazioni di quell’abile avvocato, che, per di più, era legato da amicizia, o, quanto meno, da solidarietà politica, con l’accusato, mentre aveva cento motivi di odio e di rancore nei confronti della vittima, alla quale, fra le altre cose, doveva la sua precedente condanna all’esilio, la confisca dei beni, il saccheggio della sua casa sul Palatino. Dire che Cicerone odiava Clodio è ancora poco: lo detestava addirittura, lo aborriva con tutte le sue forze; oltre alle ragioni di astio privato, egli vedeva in lui l’esponente della sfrenata demagogia popolare, l’ambizioso amorale e senza principi, il violento matricolato che ha tradito la sua classe per farsi agitatore delle plebi. In breve: a Cicerone, uomo d’ordine e strenuo difensore del Senato, Clodio appariva più o meno come un Catilina redivivo: e si sa quanto Cicerone abbia contribuito alla condanna e alla rovina finale di Catilina e quanto le sue orazioni contro di lui siano riuscite a consegnare alla posterità un ritratto che sarebbe totalmente negativo, se, a correggerlo, e sia pure solo in parte, non si contrapponesse lo scritto di un altro grande autore, lo storico Sallustio, ben più equanime nel presentarci le ragioni che portarono Catilina a tramare contro la Repubblica per attuare un vero e proprio colpo di stato e suscitare una rivoluzione sociale.

Nel caso della «Pro Milone», il correttivo alla smaccata faziosità ciceroniana ci è offerto proprio da un commentatore di Cicerone, Quinto Asconio Pediano, un letterato che lascia intendere come Milone fosse realmente colpevole, e meritasse la condanna che gli venne inflitta, perché volle la morte di Clodio quando questi era ormai ridotto all’impotenza, ferito e barricato in quella tale osteria: il suo fu, pertanto, un assassinio a sangue freddo, ordinato senza alcuna necessità difensiva, come invece nell’orazione si sostiene. Tutta la tesi dell’arringa, infatti, è svolta sul filo di questo ragionamento: l’incontro fra i due leader politici fu casuale; Milone, che viaggiava insieme alla moglie, non l’aveva voluto, né, tanto meno, programmato; egli non avrebbe desiderato altro che di evitare il suo rivale e proseguire per i fatti suoi. Furono gli uomini di Clodio, invece, ad attaccar briga; l’uccisione di Clodio, in ultima analisi, non fu che il risultato di quell’attacco improvviso e ingiustificato: e, fu, dopo tutto, la giusta punizione per tutti i suoi crimini.

Ma sono tutti, dal primo all’ultimo, argomenti speciosi, che non reggono nemmeno al vaglio della logica, per quanto Cicerone sia abilissimo nel tentare di presentarli come ineccepibili. Se gli uomini della scorta armata di Clodio erano in netta inferiorità numerica, come mai furono così pazzi da assalire quelli di Milone? Quanto al fatto, poi, che Milone viaggiasse insieme alla moglie, che significa? Nessuno contestava il fatto che i due nemici si fossero incontrati per caso; il problema non era quello, ma il fatto che Clodio fu ucciso quand’era già ferito e non costituiva alcuna minaccia per Milone. È piuttosto chiaro, invece, quello che accadde in quella situazione concitata, con Clodio già ferito e barricato nella casa coi suoi seguaci: Milone, uomo pratico e senza scrupoli com’era, si rese conto che, giunte le cose a quel punto, lasciare l’opera a metà avrebbe significato esporsi ad un gravissimo pericolo futuro; Clodio non gliel’avrebbe mai perdonata e, appena tornato in città e ristabilito, avrebbe fatto di tutto per vendicarsi. Meglio agire per primo, dunque, avendo il vantaggio momentaneo dalla sua. Al resto, si sarebbe pensato dopo.

Questa, senza dubbio, è la verità di come andarono le cose; e invano Cicerone infiora il suo discorso con l’eleganza di cui è maestro, con tutti i sottili artifici del suo stile elegantissimo, per confonderci le idee e farci credere ciò che non è credibile: che Clodio, trovandosi alle prese con un nemico che odiava, sì, ma che, in quel particolare momento, era tanto più forte di lui, abbia tentato di ucciderlo. Nemmeno un Cicerone riuscirebbe a persuadere una qualsiasi giuria di una tale assurdità; e perfino Milone, crediamo, avrà ironicamente sogghignato nell’ascoltare, o, più tardi, nel leggere, quel fioritissimo discorso: nemmeno lui, il diretto interessato, avrà potuto riconoscersi nel personaggio di cui parla Cicerone, un pacifico cittadino che se ne va a spasso con la moglie e che non cerca affatto guai, ma che si limita a difendere la propria vita da un pericolo mortale ed immediato; per cui, se Clodio è rimasto ucciso, tanto peggio, se l’è proprio cercata: ma Roma non ha peso proprio nulla, al contrario, la società si è finalmente sbarazzata di un facinoroso della peggiore specie. Se Cicerone proprio non si mette a ballare sulla pira del morto, poco ci manca. E tutti sapevano quanto l’oratore odiasse Clodio, per fatto personale; tutta la folla lì riunita sapeva perfettamente quanto egli avesse il dente avvelenato nei confronti del leader popolare. Cicerone avrebbe potuto darla ad intendere a un pubblico straniero, quel che si vuole, persiano o magari, chissà, cinese: non certo ai cittadini dell’Urbe, che conoscevano perfettamente tutti gli antefatti.

Parliamoci chiaro: Milone non era migliore di Clodio. Tutto quello, o quasi, che Cicerone dice contro Clodio, avrebbe potuto dirlo contro Milone. Erano entrambi dei violenti, dei faziosi, dei demagoghi della peggiore specie: senza scrupoli, senza pudore, senza il minimo senso del diritto e dello stato. Per loro, la politica consisteva nell’eccitare le folle, nel provocare la rissa, nel sopraffare fisicamente l’avversario, nel terrorizzarlo, nel ridurlo al silenzio. Erano entrambi il risultato di una società smarrita, di uno stato alla deriva, di una cultura senza più valori, senza più fede, senza più ideali: pura e semplice lotta per il potere, per il denaro, per le gozzoviglie. Il popolo romano stava ormai assumendo definitivamente l’aspetto che avrebbe poi conservato per tutti i quattro secoli e mezzo dell’Impero: una turba di fannulloni perennemente eccitati e in cerca di novità, di turbolenze, di piaceri; una massa di manovra a disposizione di qualunque ambizioso, da corteggiare, da adulare, da circuire con i metodi più spudorati e grossolani; un coacervo  dalle cento lingue e religioni diverse, fatto di parassiti senza dignità, senza onore, senza radici, senza memoria, che vive nell’eterno presente del degradante panem et circenses.

Semmai, dei due, era Clodio che rappresentava, bene o male (più male che bene) un partito che non era solo un coagulo d’interessi egoistici, ma anche, e fino ad un certo punto, un’idea: l’idea democratica, dell’ascesa sociale, della cittadinanza, del merito, del progresso (nel senso migliore e non abusato dell’espressione), insomma l’idea che Cesare avrebbe posto al centro della propria azione politica e sociale; certo, mescolata a mille scorie e inquinata da mille egoismi privati, da mille ambizioni sfrenate. Milone rappresentava solo e unicamente l’egoismo di classe, la conservazione (nel senso peggiore del termine), la grettezza di un Senato arroccato a difesa dei propri privilegi e dimentico del pubblico bene e di ogni passata grandezza.

Il minimo che si possa dire di Cicerone è che, avendo deciso di difendere un ordine sociale le cui basi morali erano venute meno da gran tempo, gli era impossibile restare nell’ambito dell’etica…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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