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27 Novembre 2015Forse molti ignorano che lo scrittore toscano Giuseppe Giusti (Monsummano, Pistoia, 1809 – Firenze, 1850), universalmente noto come l’autore della patriottica, ma anche umanissima «Sant’Ambrogio» e della corrosiva, risorgimentale «Il re travicello», è stato anche un vivo ammiratore e cultore di Dante e ha lasciato, nel "corpus" della sua vasta produzione letteraria, anche parecchi scritti danteschi.
Fra essi spicca il notevole saggio epistolare «Delle tre fiere dantesche», indirizzato a un ammiratore siciliano che aveva scritto, a sua volta, un lavoro di esegesi dantesca nel quale proponeva una sua interpretazione delle tre fiere, nel primo canto della «Divina Commedia», e del mostro mitologico Gerione, descritto nei canti dal XVI al XIX dell’«Inferno»; saggio dal quale traspare il grande amore e la vivace partecipazione del Giusti all’opera del nostro massimo poeta, e che qui riportiamo integralmente (in: «Giuseppe Giusti. Tutte le opere», Firenze, Casa Editrice Gasparo Barbèra, 1968, pp. 352-354):
«Stimatissimo signore,
Agostino Gallo m’ha dato da parte sua lo scritto che riguarda Dante. Io la ringrazio doppiamente, perché ella, sebbene non mi conosca, ha voluto farmi un dono così gentile, e perché credeva che nessunissimo sentore di me potesse aversi costà in Sicilia, terra sempre cara alle Muse. Comunque sia, per farle vedere che ho letto subito e con tutta l’attenzione questo suo scritto, e le dirò quello che me ne pare colla schietta libertà d’un amico.
Accetto l’interpretazione che ella dà a quel verso, "L’ora del tempo e la dolce", ecc.:
"Sì che a bene sperar m’era cagione
Di quella fera a la gaetta pelle,
L’ora del tempo e la dolce stagione";
e credo anch’io che Dante scegliesse l’ora del mattino e la stagione di primavera per accennare alla creazione o alla rigenerazione della natura, ovvero più particolarmente a quella dell’uomo.
Io pure richiesto una volta a scrivere per certe feste che si fanno di maggio nel mio paese, volgendo la parola a Dio, tra le altre scrissi questa strofa:
"Bello dei nostri cuori
Farti santo olocausto in Primavera,
Or che l’erbe novelle e i nuovi fiori
Tornan la terra alla beltà primiera,
e rammentar ne giova
quell’aura di virtù che ci rinnuova".
Che poi nella Lonza sia adombrata la discordia italiana, e che la corda gettata a Gerione simboleggi la verità, io non posso acquietarmici, e le dirò il perché, così alla buona, come se conversassimo tra noi per passatempo.
Nelle indagini critiche il meglio io credo che sia procedere colla logica la più semplice, ossia, per dirla in volgare, col senso comune. Quando poi in queste indagini ci veggiamo preceduti da persone che per i tempi nei quali hanno vissuto, per conformità d’opinioni e di studi, per lume di tradizione s’accostavano più all’autore preso in esame, mi pare che sia la più propria, specialmente in fatto di allegorie e di storie, di starsene a loro. Ora tra i commentatori di Dante, Pietro Alighieri è figliuolo, l’Ottimo è contemporaneo, o del padre o dei figliuoli; il Boccaccio, il Laneo, il Buti, sono vissuti con quelli coi quali era vissuto Dante: vuol ella che noi, venuti cinquecento tanti anni dopo, sappiamo più di loro i fonti ai quali Dante attingeva, le passioni che l’agitavano, le persone e le cose alle quali alludeva nella Commedia, lo stile dei tempi? Concedo che abbiamo fatti grandi passi in tutti i rami dello scibile, ma non ne viene per questo che delle cose antiche noi possiamo saperne più di quelli che vi si trovarono in mezzo. Ora tutti quei commentatori s’accordano a dire che la Selva è il secolo traviato, la Lonza è figura dei piaceri del senso, il Leone delle superbe ambizioni, la Lupa dell’avarizia, e, o volere o non volere, tutti i passi del Poema concorrono a fare accettare questa interpretazione primitiva e semplicissima. Veda, per esempio, quanto è strano dire che la Selva è l’esilio, che la Lonza è Firenze o l’Italia divisa in Bianchi e in Neri, in Guelfi e Ghibellini, che la Lupa è la corte di Roma. La Selva non è l’esilio, perché Dante finge il viaggio nel 1300 e fu esiliato nel 1302; non è l’esilio, perché dalla Selva passando a veder le pene infernali, gli viene predetta oscuramente quella disgrazia, poi più chiaramente nel "Purgatorio", quindi apertissimamente nel "Paradiso". Se la Selva fosse l’esilio, Dante avrebbe detto, a 35 anni mi trovai nell’esilio, e via facendo, mi fu predetto l’esilio: che discorso è questo? Per lo stesso discorso le fiere non possono essere né Firenze, né Francia, né Roma, perché di queste il poeta non aveva ancora sentito il morso. E poi per qual ragione simboleggiare quelle tre potenze nelle tre fiere? Rispondono, per necessità di setta; ma questi son miseri ripieghi di noi paralitici: e poi veda bella prudenza di Dante! Che bisogno aveva di parlare di Firenze per simboli, uno che la ferisce con amara ironia nel canto di Sordello e in cento altri luoghi? Che paura aveva della casa di Francia l’uomo che la fa venire da un macellaio spiattellatamente? Chi poteva persuadere di ficcare di nascosto il Papa e la Curia romana nella Lupa, in Pluto, ecc., uno che piantò Niccolò, Bonifazio e Clemente all’Inferno, Adriano tra gli avari nel Purgatorio? Che fa fare quelle sonore invettive a san Pietro nel Paradiso? Che dice dei dignitari della Chiesa:
"Cuopron de’ manti lor gli palafreni,
sì che duo bestie van sott’una pelle"?
Si dir che cominciò colla prudenza e che poi questa prudenza gi scappò? No, diremo piuttosto che
"Per apparer ciascun s’ingegna e face
Sue invenzioni"…
Immagini d’essere in tre: ella, io e un terzo; immagini che noi due volessimo parlare delle cose nostre in modo da non essere intesi da quell’altro, e che dopo averne parlato in gergo, finissimo per parlarne in termini chiari e lampanti: quel terzo ci prenderebbe o per matti, o per isbadati, o per incoerenti; Dante non ha nessuna di queste magagne, perdio!»
Il metodo critico adottato dal Giusti, se così possiamo chiamarlo, è, dunque, fondamentalmente, il metodo del buon senso; lo dice lui stesso: nel leggere Dante è cosa opportuna affidarsi al senso comune; e il senso comune suggerisce di dare la preferenza alle interpretazioni dei contemporanei di Dante, o ai commentatori che vissero poco dopo di lui, perché, mano a mano che ci si allontana dagli anni nei quali fu composta la «Commedia», si rischia di perdere di vista proprio quello che, per Dante e per i suoi contemporanei, era chiaro ed evidente, ma poi, con l’accumularsi della polvere del tempo, ha cessato di essere tale.
Certo, questo è puro buon senso; e il buon senso non ha mai fatto del male a nessuno. Altrettanto sensata è l’osservazione che il progresso delle scienze e del sapere procede, indubbiamente, lungo la strada della verità; anche se questa, a dire il vero, è già una concessione alla filosofia del progresso; che non è di matrice illuminista, come generalmente si pensa, se è vero che il primo a formularla è stato un filosofo medievale, vissuto a cavallo fra l’XI e il XII secolo: «Diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti». Ma ha ragione il Giusti a correggerla con la riflessione che i moderni, delle cose antiche, non ne sanno più di coloro che vissero allora.
Detto questo, ci sembra che il ragionamento del Giusti, nel demolire le ingegnose interpretazioni del suo corrispondente siciliano, appare, nondimeno, un po’ ristretto, un po’ chiuso, un po’ provinciale, in quel raccomandare e sbandierare buon senso e ancora buon senso, nonché fiducia incondizionata nei commentatori antichi; perché, se si trasformano tali osservazioni in un sistema ermeneutico rigido, ne deriva che i lettori e gli studiosi delle età successive non hanno proprio niente da dire che meriti di essere preso in considerazione, e tanto vale che stiano zitti per sempre e si lasciano guidare ciecamente da coloro i quali li hanno preceduti, solo perché questi hanno avuto la ventura di vivere cinque secoli prima.
Venendo allo specifico. Che la selva oscura rappresenti l’esilio, ci sembra cosa che il Giusti esclude a ragion veduta. Dante non avrebbe potuto esordire, all’inizio del poema, ponendo se stesso nella selva del’esilio, e poi, nel corso delle tre cantiche, per bocca delle anime che, via, via, gli rivolgono delle profezie sempre più nitide, alludere al suo futuro esilio. Questo è il classico caso ne quale il buon senso deve prevalere, perché le ragioni del buon senso sono evidenti: contrastarle, infatti, equivarrebbe ad andare contro la cronologia della vita di Dante, e sappiamo bene che non si deve mai litigare con i fatti, ma solo cercare di spiegarli. Qui non è questione d’altro che di procedere secondo le regole della logica: contraddire la cronologia implicherebbe una contraddizione logica.
La stessa cosa, tuttavia, non ci sembra che si possa dire anche per l’interpretazione allegorica delle tre fiere in senso politico-morale. Senza dubbio bisogna seguire i commentatori più antichi, laddove essi ci assicurano che la lonza simboleggia il peccato della lussuria; il leone, la superbia; e la lupa, l’avarizia. Questo, però, non esclude che sia possibile vedere anche altri significati allegorici nelle tre fiere: e precisamente il comune di Firenze, nella lonza; il regno di Francia, nel leone; e la Curia romana, nella lupa. Sarebbe coerente con il pensiero politico e morale di Dante attribuirgli l’idea di rappresentare nella lonza anche la dissolutezza dei Fiorentini; nel leone, anche la superbia di Filippo il Bello; e infine, nella lupa, anche la cupidigia di Bonifacio VIII.
A questo punto, il Giusti rimette in campo la cronologia. Dante colloca il suo viaggio nel 1300, ossia prima del suo esilio; pertanto, ne trae la conclusione che egli non può rappresentare quei sentimenti, fortemente negativi, che proverà per i suoi concittadini, per la monarchia francese e per la corte papale, solo a partire dalla fine del 1301 o dal principio del 1302, cioè, appunto, con l’inizio del suo ventennale esilio. Qui, però, il ragionamento del Giusti non ci sembra altrettanto solido di quello relativo alla selva. Anche se il Dante uomo, nel 1300, non aveva ancora sperimentato i morsi dell’esilio, non ne consegue che egli non potesse già nutrire sentimenti alquanto critici nei confronti dei suoi concittadini, o della monarchia francese, o del potere temporale della Chiesa, specialmente se quest’ultimo era nelle mani di un uomo come Bonifacio VIII.
Secondo il Giusti, sarebbe assurdo pensare che Dante scrittore potesse retrodatare, diciamo così, i sentimenti e i giudizi di Dante personaggio della «Divina Commedia»; e perché mai?, domandiamo a nostra volta. Le tre fiere non possono rappresentare Firenze, la Francia e Roma, perché il Dante personaggio del suo poema, nel 1300, «non ne ha ancora sentito il morso». Ma il Dante uomo, sì che l’ha sentito: a meno di tornare alla vecchia opinione, secondo la quale Dante avrebbe composto i primi sette canti dell’«Inferno» prima dell’esilio, opinione avvalorata dal Boccaccio in due distinte versioni, ma ormai abbandonata pressoché da tutti i dantisti. Ai tempi del Giusti, probabilmente, essa era ancora in auge, anche se non condivisa da tutti. Oggi la maggioranza degli studiosi propende a ritenere che Dante abbia incominciato la composizione del suo immorale poema verso il 1306-07, mentre si trovava in Lunigiana, ospite dei conti Malaspina. Tuttavia, anche se la vecchia ipotesi sulla stesura dei primi canti dell’«Inferno» prima dell’esilio si potesse sostenere, non ne deriverebbe che Dante dovesse fingere neutralità o indifferenza verso i tre centri di potere su indicati. Egli ce l’aveva con Firenze, con la Francia e con il papa, non solo perché furono all’origine delle sue disgrazie politiche, come farebbe un qualsiasi botolo rancoroso, ma perché vedeva in esse la negazione della sua concezione politica e morale. Anche se questa sarebbe giunta alla piena espressione solo con il «De Monarchia», composto nel 1312-13, Dante poteva avere ben visto in quei tre potentati, le forze che si opponevano alla sua idea di pace e giustizia universale: e aver proiettato la sua avversione ad essi fin dall’epoca del suo viaggio ultraterreno, cioè al 1300…
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