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Hedda Gabler, la donna che non può amare perché sa solo invidiare e distruggere

La modernità ha visto affacciarsi alla ribalta un nuovo tipo di donna, prima assai raro, che gli psicologi di tendenza freudiana definiscono "fallica", ma che si potrebbe semplicemente definire frigida: costituzionalmente incapace di amare, tutta incentrata su se stessa, tutta presa da se stessa, rivale dell’uomo più che sua potenziale collaboratrice e compagna; una donna che non ha nulla da dare al "tu", perché vive solamente nel cerchio stregato del proprio "io", e che nutre invidia e rancore verso i successi del maschio, per cui non le resta che ostacolarlo, combatterlo e compiacersi se lo vede cadere.

Questo nuovo tipo femminile è stato magistralmente rappresentato da Henrik Ibsen nel 1890, attraverso la figura inquietante della protagonista del dramma «Hedda Gabler». Hedda è una donna di quasi trent’anni che ha sposato, senza amore, Jörgen Tesman, solo per continuare a fare la signora, dopo la morte del padre, un generale di carriera. Tesman è un mediocre che aspira a una cattedra universitaria e sta per ottenerla, quando si fa vivo un antico amore di Hedda, Ejlert Lövborg, il quale ha portato a termine un libro dal quale spera di ottenere quella stessa cattedra. È il libro che Hedda non ha saputo ispirargli, ma ora glielo ha ispirato un’altra donna, Thea Elvested, che si è innamorata di lui e lo ha incoraggiato nel suo lavoro. Metaforicamente, Lövborg ha partorito quel figlio che Hedda non ha saputo o voluto dargli, quasi certamente perché, nemica della propria femminilità, non ha voluto "sottomettersi" a lui, rendendolo padre (e divenendo madre). Adesso, però, che un’altra lo ha reso padre, la gelosia di Hedda si somma alla paura che suo marito non ottenga più la cattedra universitaria, per cui ella si rivolge con odio contro quel figlio dell’altra, il manoscritto, che, in stato di ubriachezza, Lövborg smarrisce. A ritrovarlo è proprio Jörgen, che lo porta a casa, e ciò permette a Hedda di impadronirsene: lo legge, si rende conto che è un lavoro eccellente e che la commissione non esiterà a premiare il suo autore, affidandogli la cattedra. A Lövborg, che, disperato, va alla sua ricerca, ella si guarda bene dal dire che lo ha trovato; non solo: allorché l’uomo manifesta il proposito di uccidersi, Hedda lo incoraggia a farlo, e arriva al punto di offrirgli l’arma con cui portare a compimento l’insano gesto. Poco più tardi viene a sapere che Lövborg, effettivamente, si è ucciso, anche se non nella maniera eroica e "nibelungica" che, nella sua mente esaltata, aveva immaginato: l’uomo è morto in un bordello, si è sparato al ventre e non alla testa, e, per giunta, probabilmente il colpo è partito accidentalmente, per cui non si è trattato neppure di un suicidio. Comunque, ora che Lövborg è morto, a Edda non resta che distruggere il pericoloso manoscritto, il "figlio dell’altra", gettandolo nel fuoco, per rendere il suo delitto perfetto. Ma perfetto non è stato, dal momento che il giudice Brack sospetta la verità, avendo appurato che la pistola con cui Lövborg si è dato la morte apparteneva a Hedda: e adesso minaccia di valersi di questa informazione, se ella non gli si concederà. Come se non bastasse, l’onesto Jörgen e l’afflitta Thea si stanno dando da fare per ricostruire il manoscritto perduto, materializzando lo spettro di una resurrezione del "figlio" di Lövborg. Ce n’è abbastanza perché Hedda, spinta ormai nell’angolo, decida di uccidersi.

Hedda è il prototipo della donna moderna, molto più di Nora, la protagonista (troppo celebrata dalla cultura femminista, e completamente fraintesa) di «Casa di bambola», non solo per la sua frigidità, per l’odio della propria femminilità, per l’assoluta incapacità di darsi, di donarsi, di aprirsi all’amore, all’amicizia e alla collaborazione con l’uomo; ma anche, e soprattutto, per la sua sterile gelosia postuma, in questo caso nei confronti di Thea e del suo "bambino", il manoscritto di Lövborg; per il suo rancore implacabile, che la rode e la rende maligna e distruttiva; per la sua totale chiusura al bene, alla speranza, anche nei confronti della propria vita: per cui, dopo aver distrutto l’esistenza altrui, passa a distruggere la propria, seminando ovunque, tutto intorno a sé, desolazione, frustrazione e morte. A Hedda, che insegue un sogno impossibile di auto-affermazione — impossibile, perché non ha nulla da affermare, non avendo compreso che l’unica maniera di affermarsi è quella di donare se stessi a qualcuno o a qualcosa, un’idea, un progetto, una speranza -, non resta altro da fare che impegnarsi con tutte le sue forze per distruggere i sogni altrui, le altrui speranze; e, in particolare, per dirigere il proprio rancore viscerale contro la figura del maschio, al quale non ha saputo donarsi (Lövborg) e nel quale non sa vedere niente di buono (Jörgen): è simile a Emma Bovary quanto al disprezzo del proprio marito, e, nello stesso tempo, è come una Anna Karenina che, non avendo saputo decidersi per l’amore di Vronskij, tenta di risarcire se stessa nel disegno di provocare la rovina di lui. Insomma, Hedda non è più una donna, una persona, ma è diventata un demone della distruzione e della morte: che, quando non ha più nessuno cui fare del male, nessuno da annientare, si riduce ad annientare se stessa, come lo scorpione che inoculi il proprio veleno nel suo stesso corpo.

Ci sembrano molto pertinenti, a questo proposito, le osservazioni sviluppate da Karl Stern (1906-1975), già professore di psichiatria al’università di Ottawa, un ebreo tedesco di indirizzo freudiano che si era convertito al cattolicesimo (da: K. Stern, «Fuga dalla donna»; titolo originale: «The flight from woman», New York, 1965; traduzione dall’inglese di Marilinda Machina, Edizioni Paoline, Roma, 1970, pp.170-173):

«… Streghe e sirene, arpie e gorgoni, Scilla e la Sfinge erano abbastanza malvagie. Ma la loro malvagità era nulla in confronto a quella di Hedda Gabler, la figlia del generale, che conservava le sue pistole sempre perfettamente cariche in quel salotto borghese in uii, fino a poco prima, la buona, vecchia zia Tesman non aveva fatto che ricamare pantofole per il nipote. A differenza di quei personaggi mitici, Hedda era "la cosa reale". Una nuova epoca era iniziata. E, se sprechiamo tanto spazio […] per analizzare il carattere dell’eroina di Ibsen in "Hedda Gabler", è soltanto perché ella rappresenta tutte le altre "Hedda di cui abbonda la scena della vita. Hedda è un "tipo" e, dal suo debutto ad oggi, ha raggiunto una validità classica. Ibsen, come tutti i grandi psicologi, è un moralista. E, sebbene il drammaturgo, per l’integrità, si trattenga da una morale esplicita, per noi spettatori questa morale è implicita.

Soltanto la complementarietà può renderci disinteressati. L’io può perdersi soltanto in un "altro", in qualcosa che lo nega. È la complementarietà che mobilita la nostra generosità. Di conseguenza, la donna fallica che rinnega l’altrui personalità non può amare. Tutto quanto può fare competere, ma anche questo è spesso soltanto illusorio. Se il compagno è più debole di lei, le cose non funzionano "perché" è più debole. Se invece è più forte di lei, le cose non funzionano perché è più forte. Nessuno dei due è in gradi di vincere. Nel primo caso è il disprezzo che impedisce a questa donna di amare, nel secondo caso è l’invidia. […]

Questo tipo di donna non è capace di collaborare. Avendo letto gran parte della letteratura femminista, mi affretto ad aggiungere che la parola "collaborare" non implica affatto un senso di schiavitù. Non è intesa come un termine androcentrico. È soltanto una bella espressione, che si riferisce ugualmente all’uomo e alla donna. Infatti, come la donna, nel suo supremo atto creativo, ha bisogno di concepire attraverso il maschio, così l’uomo, nella sua attività creativa, ha bisogno di un misterioso "concepimento" da parte della donna. "Misterioso" perché non si tratta di un processo cellulare. Altrimenti, il parallelo è esatto. La funzione è similmente catalitica. Ci si stupisce di apprendere come fosse fugace l’incontro di Dante con Beatrice, ma pare che per questa "procreazione" del figlio dell’uomo da parte della donna basti la semplice "presenza", una presenza catalitica, senza specificazione quantitativa. Dev’esserci, in un modo o nell’altro, una donna perché accada qualche cosa: avevano ragione gli antichi quando parlavano d’una Musa.

Questa forma di concezione stranamente invertita sembra rintracciabile, con un po’ di fortuna, in ogni atto creativo. Io non so fino a che punto si possa sostenere quest’analogia. Ma quella generosità che chiamiamo paternità, e che consiste nel dedicarsi all’essere che la compagna ha generato, nell’accettarlo come proprio nonostante si sia stati così poco implicati nel processo creativo, quella stessa generosità viene manifestata da una donna normale nei confronti del lavoro del marito. Pertanto, la parola "collaborazione" non ha un significato derogatorio, né androcentrico. Il padre è "l’ispiratore" ed il collaboratore della maternità così come la donna è "l’ispiratrice" e la collaboratrice della creatività maschile.

Ora, la donna che non accetta la propria femminilità rifiuta questo ruolo.

Quando Hedda brucia il manoscritto di Lövborg, ella dice: "Ora brucio il tuo bambino, Thea… testolina ricciuta!… Il bambino di Thea e di Ejlert Lövborg… Ecco, lo brucio, lo brucio, il bambino!". Questo spiega quanto ho appena detto. È Lövborg che ha generato e Thea Elvsted, la rivale di Hedda, ha nutrito la sua creatura. Per chi studi attentamente il dramma di Ibsen, la rivalità di Hedda verso Thea non è che un tratto accidentale. Ella non è tanto la rivale di un’altra donna, quanto la rivale dello stesso Lövborg. Hedda Gabler doveva uccidere il "bambino" di Lövborg, in un modo o nell’altro. Un tempo, molto prima dell’inizio del dramma, ella ha tentato di essere la Musa di Lövborg, ma non è riuscita a donarsi a lui, né in questo senso né sessualmente. Dall’esperienza clinica di situazioni simili direi che non ne fu capace perché egli era troppo forte. Per lei, questo tipo di "donazione" avrebbe significato il proprio annientamento.»

Discorso chiarissimo, ma probabilmente troppo duro da accettare per le sensibili orecchie della cultura femminista oggi imperante e imperversante. L’uomo e la donna si realizzano, nell’amore come nella vita, se sono capaci di collaborare e disposti a farlo: altrimenti falliscono. Il compito dell’uomo è collaborare con la donna per farle avere dei figli, e poi sostenerla e prendersi cura della prole; il compito della donna è collaborare con l’uomo per aiutarlo a partorire i suoi "figli", cioè le sue opere dell’ingegno, del lavoro, dell’arte, e poi sostenerlo nello sforzo di coltivarle e nutrirle. Sembrerebbe semplicissimo e chiarissimo: ma ecco che le femministe e i loro amici intellettuali "progressisti" di sesso maschile, prontamente insorgono: «Ma come! Forse che noi donne dobbiamo accontentarci di mettere al mondo solo dei bambini, mentre l’uomo si prende la parte migliore, e mette al mondo delle opere d’arte, delle imprese economiche, delle gesta eroiche? Non sia mai; anche noi vogliamo e possiamo creare delle grandi opere, delle opere immortali: il nostro destino non è, non deve essere, quello di dedicarci solo ai pannolini da cambiare, all’educazione dei bambini, ad accudire i figli e il marito e a vivere di una vita riflessa!».

Ora, a parte il fatto che vedere la maternità come un destino di serie B, rispetto alla carriera professionale o alla creazione artistica o alla ricerca scientifica e filosofica, la dice già lunga sulla deformazione mentale di questo nuovo tipo di donna, che rifiuta la maternità perché, in fondo (anche sen non osa ammetterlo), odia se stessa; resta il fatto che quasi in nessun campo, a parità di condizioni — dalla letteratura al pensiero, dallo sport alla scienza — la donna è in grado di superare l’uomo. Lo supera, eventualmente — ma è proprio necessario concepire il rapporto uomo/donna come una competizione incessante? — là dove prevalgono la sensibilità, la grazia, la delicatezza: nella musica (in parte), nella danza, nella recitazione. Il fatto è che il progetto sociale — dalla piccola società familiare, alla grande società nazionale e internazionale — si regge sulla collaborazione fra uomo e donna, in ciò che essi hanno di migliore, in ciò per cui sono naturalmente portati, in ciò che sanno fare meglio. È chiaro che una donna, eccezionalmente, può anche fare la camionista o la paracadutista, meglio di certi uomini: ma non sarà in quegli ambiti che la donna, in quanto donna, potrà mai dare il meglio di se stessa.

Il dramma è che la modernità, con l’ausilio della tecnica, e con l’edonismo sotteso allo stile di vita consumista, mette tutto alla portata di tutti: alla portata di una sessantenne, la maternità; alla portata di una coppia di omosessuali maschi, l’adozione di un bambino. Lo abbiamo chiamato progresso, ma è il peggiore dei regressi: un delitto e un tradimento nei confronti della natura. Con quale diritto affermiamo una cosa del genere? Con il diritto che deriva dall’osservazione della realtà. Le persone, uomini e donne, che hanno intrapreso la via di questo tipo di progresso, appaiono più realizzate, più felici, più in pace con se stesse? Brilla, nei loro occhi, la consapevolezza di una vita bene spesa…?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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