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Il mondo in un muro: vita e bellezza sono ovunque, per chi le sa vedere

Può darsi che qualcuno dica di non aver mai visto un lichene; sarebbe più esatto dire che egli non ha mai visto un vecchio muro. E può darsi che qualcuno veda un vecchio muro tutti i giorni — magari perché si tratta del muro di casa sua — e non abbia mai visto di quali e quante forme di vita esso è la casa, il nido, il rifugio e la fonte di nutrimento: vuol dire che quella persona non ha mai avuto occhi per vedere, non ha mai gettato lo sguardo al di là della superficie.

C’è un mondo intero, tutto intorno a noi, fatto di vecchi muri, di rocce, di piante rampicanti, di canneti, di ruscelli, di pietraie, di brughiere, di boschetti, che attende solo di essere scoperto, e, prima ancora, di essere riconosciuto: perché lo abbiamo guardato chi sa quante volte, ma realmente visto, mai, neppure una.

Non occorre andare in Africa o in chissà quali Paesi esotici; non occorre fotografare leoni, antilopi e gazzelle: le meraviglie della natura sono tutto intorno a noi, anche qui e adesso, anche nel cuore di un centro urbano, nel bel mezzo del traffico automobilistico che non si ferma un solo istante, neanche di notte.. In un vecchio cortile abbandonato, in una fabbrica ormai chiusa, sulla massicciata di una ferrovia, in un sottopasso stradale, perfino lungo le rive di un canale sporco e mal tenuto: ovunque la vita erompe vittoriosa, pullula instancabile, e conduce strenuamente la sua battaglia, si riproduce, passa la mano a delle nuove generazioni.

Non vi è asfalto così uniforme, che un fiore non riesca a spuntarvi, sfruttando la più piccola zolla di terriccio e la più avara goccia di pioggia; non vi è tetto o camino o grondaia ove qualche cespuglio d’erba non riesca a mettere radici o dove qualche uccello non sia capace di fare il suo nido; non vi è fossato lungo un muretto, né cumulo di terra smossa, né rottame di automobile abbandonata da chissà quanti anni, tutto arrugginito, che non possa offrire un riparo e una dimora a una flora e ad una fauna incalcolabile di esseri piccoli e, talvolta, anche grandicelli. Perfino dai buchi di un tombino, dalle oscure profondità di un pozzo sotterraneo, qualche macchia verdastra di muschio o di lichene riesce ad arrampicarsi, o a scendere – secondo i punti di vista -, fino al limite estremo della luce, fino a dove l’ultimo raggio di sole non arriva a frugare, neppure a mezzogiorno, quando la luce cade a perpendicolo e fruga negli estremi anfratti della terra.

È soltanto l’abitudine, unita a una buona dose di pigrizia intellettuale, che ci impedisce di vedere tutto questo e di goderne lo spettacolo, a un tempo grandioso e commovente. Quanto poco basta, quanta poca terra, quanto poca luce, quanto poco nutrimento, perché centinaia e migliaia di creature riescano a ritagliarsi uno spazio in cui vivere: creature di cui non sospettiamo neppure l’esistenza, convinti, come siamo, che non vi sia nulla, specialmente in città, oltre le case, le strade, le automobili; al massimo, ci accorgiamo di questi ospiti sconosciuti quando una colonia di formiche giunge a minacciare le nostre piante sul terrazzo, o quando i piccioni del tetto di fronte sporcano la nostra bella vettura parcheggiata sulla via, strappandoci una sorda imprecazione, perché dovremo provvedere a pulirla: come se non avessimo già tanti pensieri e preoccupazioni!

Per noi, le formiche, i piccioni, i gatti randagi, gli insetti, sono tutti, più o meno, dei clandestini. Quando la loro presenza diventa molesta o invadente, ci aspettiamo che le autorità comunali provvedano alla "disinfestazione": non dubitiamo neppure per un attimo, difatti, che il mondo intero sia stato fatto per nostro uso e consumo, e che la città, in particolare, essendo un prodotto del lavoro umano, abbia il diritto di restare immune dalla incomoda presenza di piante e animali non desiderati e non autorizzati.

Possibile che quell’edera selvatica non avesse altro luogo da scegliere, per insediarsi senza permesso alcuno, che la parete posteriore del mio garage? E possibile che i ragni non avessero altro luogo in cui fare le loro tele fastidiose, che le scale della mia cantina, o della mia soffitta? E tutti quei piccoli scorpioni, quegli scarafaggi: dovevano proprio eleggere a loro abitazione il ripostiglio dove tengo gli attrezzi da giardino? Via: si direbbe che abbiamo deciso di farmi un gran dispetto; o che non abbiamo altro modo di passare il loro tempo, che quello di farmi sprecare il mio, costringendomi a dar loro la caccia dappertutto. E mi fanno pure spendere dei soldi, per procurarmi i prodotti chimici con i quali sloggiarli, se proprio non se ne vogliono andare, dopo che ho tentato con il rimedio più tradizionale della scopa e della pattumiera!

Così scriveva il naturalista Gerald Durrell nel più noto dei suoi libri di carattere divulgativo, «La mia famiglia e altri animali» (titolo originale: «My Family and Other Animals», 1956; traduzione dall’inglese di Adriana Motti, Milano, Adelphi, 1975, 1999, pp. 151-153):

 

«Il muro tutto crepe che circondava il giardino lungo la casa era per me un ricco terreno di caccia. Era un vecchio muro di mattoni che un tempo era stato intonacato, ma ormai questa pelle superficiale era verde di musco, tutta piena di bolle e di grinze per l’umidità di molti inverni. L’intera superficie era un’intricata mappa di crepe, alcune larghe parecchi millimetri, altre sottili come capelli. Qua e là l’intonaco si era staccato a grosse falde, lasciando scoperte le file di mattoni rosa che sembravano costole. A guardarlo con sufficiente attenzione, su quel muro c’era un vero e proprio paesaggio; nei punti più umidi, i tetti di cento minuscoli funghi, rossi, gialli e marrone, stavano raggruppati l’uno accanto all’altro come villaggi; montagne di musco color verde bottiglia crescevano in ciuffetti simmetrici come se qualcuno li avesse piantati e potati; nei punti ombrosi, foreste di piccole felci zampillavano dalle crepe ricadendo languidamente come fontanelle verdi. La cima del muro era una landa deserta, troppo arida perché potesse viverci qualcosa tranne un po’ di musco rugginoso, troppo calda per tutto tranne che per i bagni di sole delle libellule. Alla base del muro cresceva una profusione di piante, ciclamini crochi, asfodeli, che spingevano di forza le loro foglie tra i mucchi di tegole rotte e scheggiate che ingombravano il posto. Tutta questa striscia era protetta da un labirinto di rovi che, quand’era la stagione, si riempivano di frutti turgidi e succosi, neri come l’ebano.

Gli abitanti del muro erano una massa eterogenea, e si dividevano in lavoratori diurni e lavoratori notturni, in cacciatori e in prede. Di notte i cacciatori erano i rospi che vivevano tra i pruni, e i gechi, pallidi, traslucidi e con gli occhi sporgenti, che vivevano nelle crepe più alte. La loro preda era la popolazione di stupide e distratte tipule che ronzavano e zigzagavano  tra le foglie; le falene di tutte le forme e dimensioni, falene striate,intarsiate, quadrettate, maculate e chiazzate, che svolazzavano in soffici nuvole lungo l’intonaco rugoso; gli scarabei, rotondetti e sobriamente vestiti come uomini d’affari, che con dignitosa efficienza andavano a sbrigare le loro faccende notturne. Quando l’ultima lucciola aveva trascinato a letto sulle montagne di musco la sua lanterna di smeraldo smerigliato, e il sole sorgeva, il muro veniva invaso dall’altro gruppo di abitanti. Qui era più difficile distinguere le prede e i predatori, perché tutti sembravano indiscriminatamente magiari tra loro. Sicché le vespe cacciatrici andavano in cerca di bruchi e di ragni; i ragni andavano a caccia di mosche;  le libellule, grosse, fragili e rossastre, si cibavano di ragni e di mosche;  e le rapide, agili, multicolori lucertole si nutrivano di tutto.

Ma tra la comunità del muro, i più pericolosi di tutti erano gli esseri più timidi e riservati; a meno di cercarlo, a malapena ne vedevate uno, eppure nelle crepe del muro dovevano essercene centinaia e centinaia. Bastava infilare pian piano una lama di coltello sotto un pezzo di intonaco staccato e sollevarlo leggermente dai mattoni, e appiattito là sotto ecco un piccolo scorpione nero lungo pochi centimetri, che sembrava fatto di cioccolata lucida. Erano creature dall’aspetto strano, con quel loro corpo ovale e piatto, le zampe storte nettamente disegnate, le enormi chele come quelle dei granchi, bulbose e articolate come un’armatura, e la coda come un filo di perline scure che terminava in un pungiglione che pareva  una spina di rosa.  Lo scorpione se ne stava perfettamente  immobile se lo studiavate, limitandosi ad alzare la coda con un gesto difensivo di avvertimento se lo infastidiva il vostro respiro troppo forte. Se lo tenevate troppo a lungo al sole, vi girava le spalle e si allontanava, per poi infilarsi lentamente ma risolutamente sotto un altro pezzo d’intonaco.»

In questo brano di prosa vi è un concentrato dello stupore, ella scoperta gioiosa, della inesauribile capacità di sorprenderci che possiede la natura, anche nei suoi aspetti più dimessi e quotidiani, anche nei suoi angoli più angusti e apparentemente banali. Cosa c’è di più banale di un vecchio muro screpolato, consunto dalle intemperie, ruvido e rugoso come la pelle di un vecchio animale, come la terra di un campo riarsa dalla siccità? Apparentemente, nulla si muove alla sua superficie: solo un insetto, di tanto in tanto, che zampetta solitario; solo qualche piccola felce, o qualche misero ciuffetto d’erba selvatica che ha trovato, chi sa per quale miracolo, una minuscola zolla su cui è attecchito il suo seme, e qualche goccia d’acqua piovana che le ha permesso di nascere e svilupparsi, stentatamente, a dispetto di tutto, come un bimbo nato per sbaglio, non voluto e non amato, eppure affamati e assetato di vita, vita, vita!

Eppure, ecco il prodigio: da quella crepa a fior d’intonaco escono altri insetti, dieci, cento; sollevando quello strato di pittura secca, si scoperchia una intera città sotterranea: sono decine e forse centinaia gli esseri che si mettono a correre in ogni direzione, accecati dalla luce del sole, sorpresi dal calore diretto dell’aria. E ciascuno di essi, ciascuno dei minuscoli scorpioni, è, a sua volta, un universo in miniatura: un essere completo, ben formato, perfetto in se stesso, meravigliosamente attrezzato per affrontare la vita, per procurarsi il nutrimento, per riprodursi e condurre così al proprio fine la sua esistenza. E poi i bruchi, i ragni, le mosche, le vespe, le libellule: tutta una fauna in miniatura, sorprendente, fatta di creature eleganti, resistenti, agilissime, dalla vitalità inesauribile: creature che certamente sopravvivrebbero alla maggior parte delle catastrofi dalle quali l’uomo verrebbe spazzato via, irreparabilmente…

Che grande mistero; quale fonte inesauribile di riflessioni, di ragionamenti, di interrogativi: e tutto questo in pochi metri quadrati d’un vecchio muro calcinato dal sole e sferzato dagli agenti atmosferici; di un vecchio muro che non serve più a nulla di buono e che certamente, prima o dopo, qualche umano si deciderà a buttar giù per costruire, al suo posto, una bella casa moderna, confortevole, razionale, magari coi pannelli solari sul tetto, con le condutture dell’acqua calda e fredda, con tutti gli elettrodomestici necessari, il computer, il televisore ed il telefono; una bella casetta con il prato all’inglese davanti, abbellito dalle rose o dai tulipani, falciato una volta al mese e spruzzato abbondantemente con qualche prodotto antiparassitario che tenga lontane le zecche, le pulci, le zanzare e chissà quanti altri terribili e implacabili nemici dell’uomo e della sua meritata pace domestica.

Tuttavia, finché ciò non avverrà, in quel vecchio muro accarezzato dal sole del Mediterraneo c’è racchiuso, come in uno scrigno prezioso, il grande mistero del mondo intero: perché vita e bellezza sono ovunque, si celano ovunque, pronte a rivelarsi a chi le sappia vedere. Ma, come in certe fiabe, alle anime grette ed egoiste, alle anime affaccendate solo di se stesse e a rincorrere il denaro, quel mondo meraviglioso non si lascerà vedere. Il segreto della bellezza, infatti, è che essa si trova nell’occhio che guarda e che sa vedere, molto prima che nelle cose stesse. Delle cose in sé, noi non possiamo sapere proprio nulla: quel che di esse vediamo è solamente l’apparenza, la superficie ingannevole e sempre cangiante. La bellezza è il prodigio che si rivela a chi lo sa vedere e non a chiunque. Il medico che diventa assuefatto al mistero del corpo, il naturalista che diventa assuefatto al mistero delle rocce, delle piante e degli animali, l’astronomo che diventa assuefatto al mistero del cielo, delle stelle e delle galassie: tutti costoro hanno peso l’incanto del mondo e non riescono più a vedere nulla, per quanto guardino e per quanto credano di sapere e di aver capito. Ma chi ha smarrito l’incanto del mondo non vede l’essenziale e non comprende l’essenziale.

L’essenziale è invisibile allo sguardo volgare, si sottrae alla mente calcolatrice. Finché ci si pone di fronte alla natura come di fronte ad una proprietà, di cui l’uomo avrebbe — chi sa come e perché — il diritto esclusivo e indiscriminato di sfruttamento, oltre a quello di scaricare senza riguardi ogni genere di rifiuti industriali, certo non si riuscirà a vedere, né, tanto meno, a comprendere, alcunché.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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