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22 Novembre 2015Eric Rohmer (Jan Marie Maurice Schéere; nato a Tulle, nel Limosino, il 21 marzo 1920, ma da una famiglia di origini alsaziane, e morto a Parigi l’11 gennaio 2010), uno dei maggiori esponenti della Nouvelle Vague, è stato, a nostro avviso, uno dei più grandi registi cinematografici in assoluto: quasi tutte le sue opere hanno il carattere di altrettanti classici, tanto più ammirevoli in quanto possiedono, dei veri classici, anche la profondità, mascherata da una sorridente (ed apparente) semplicità; la nitidezza, la sobrietà, il rigore formale, ma anche l’amabilità, la leggibilità, la simpatia umana.
Rohmer è profondo come Bergman, ma senza la sua cerebrale pesantezza; è affascinante come Kurosawa, ma senza la sua epica drammaticità; è intelligente come Truffaut, ma con maggiore bonomia ed autoironia; è fantasioso come Fellini, ma senza le sue sbavature e i suoi barocchismi; ha la densità di un Resnais, ma senza riuscire mai noioso. È un grande, vestito di modestia, di umiltà, di squisita quotidianità: talmente grande che, per riuscire a cogliere la sua grandezza, bisogna affinare particolarmente lo sguardo, che di solito si lascia distrarre dalla quantità.
In tutto il suo cinema, dal principio alla fine, vi è, insieme ad una estrema coerenza di temi e di contenuti – che non diventa mai monotonia, perché egli possiede una capacità quasi prodigiosa di scoprire ed effettuare infinite variazioni sul tema -, un eccezionale rigore etico, che non viene mai meno a se stesso, che evita con superba eleganza e con disarmante facilità tutte le insidie e i trabocchetti dell’ovvio, del banale, del dolciastro, del kitsch: un rigore quasi da prete, se ci è concessa l’espressione, ma nel suo senso migliore. Il rigore del curato di campagna di Bernanos o del monsignor Myrel di Hugo; un rigore ostinato, benché tutt’altro che tetro, anzi, sempre benevolo e sorridente: il rigore di Léon Morin, prêtre, di Béatrix Beck (cfr. il nostro precedente articolo: «Cosa spinge le donne a innamorarsi di un prete?», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 20/09/2011), confezionato con un sorriso che è più cordiale e più indulgente di quello di Jean-Paul Belmondo nel film omonimo di Jean-Pierre Melville. Rohmer, insomma, tiene sempre il punto e non lo molla mai, neanche per una brevissima distrazione: e il punto è l’etica; ma non un’etica astratta, bensì quella che si cala tutti i giorni nelle nostre vite, nelle nostre scelte, nelle nostre azioni, nelle nostre parole e nei nostri silenzi quotidiani.
La maggior parte dei suoi ventitre film si possono raggruppare in tre grandi cicli: i «Sei racconti morali», le «Commedie e Proverbi», i «Racconti delle quattro stagioni».
Ebbene, fin dai «Sei racconti morali» appare questa caratteristica essenziale e irrinunciabile del discorso sull’umano di Eric Rohmer: l’etica; un’etica che non è mai gettata lì, non è mai affidata al caso, non è mai consegnata a personaggi banali e a comportamenti dispersivi (anche se può sembrare, a volte, che sia così), ma che, al contrario, trova sempre un terreno fertile per depositarsi e germogliare nel fondo misterioso della coscienza, per interrogarsi, persino per tormentarsi, e per tendere verso un qualcosa di più alto, un qualcosa di assoluto, Ed ecco perché qualche critico ha parlato di una dimensione "teologica" sottesa al cinema di Rohmer.
Ne «La fornaia di Monceau» (1962), ne «La carriera di Suzanne» (1963), ne «La collezionista» (1967), ne «La mia notte con Maud» (1969; secondo alcuni critici, il vertice dell’itinerario creativo di Rohmer: forse anche per l’interpretazione di un ottimo Trintignant, oltre che per la coraggiosa scelta del bianco e nero), ne «Il ginocchio di Claire» (1970) e ne «L’amore il pomeriggio» (1972: che noi, personalmente, metteremmo al primo posto), costanti, pazienti, incrollabili sono la ricerca, la queste, lo scavo, condotti con una linearità senza fronzoli, con una esigenza quasi luterana, ma anche con una benevolenza che li purifica da ogni tetraggine e con una serietà e con una sorta di purezza che fanno dei personaggi, a loro modo, degli eroi silenziosi, quasi degl’inconsapevoli operai nella vigna del Signore.
Dunque, la produzione cinematografica di Eric Rohmer si può interpretare come un discorso teologico, anche se staccato da una ben precisa religione?
Di questo avviso, fra gli altri, è il saggista ed esperto di cinema Sandro Toni, di cui riportiamo questo passaggio (da: «Cinema di tutto il mondo», a cura di Alfonso Canziani, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1978, p. 390):
«Nel 1962 Rohmer inizia a girare quel corpus di sei film che costituiscono il ciclo dei "racconti morali", i primi due dei quali girati in 16 mm e ancora inediti: si tratta di "La boulangère de Monceau" ("La fornaia di Monceau", 1962) e di "La carrière de Suzanne" ("La carriera di Suzanne", 1963). Gli altri quattro film sono: "La collezionista" ("La collectioneuse", 1967), "La mia notte con Maud" ("Ma nuit chez Maud", 1969), "Le genou de Claire" ("Il ginocchio di Claire", 1970) e "L’amour, l’après-midi" ("L’amore, il pomeriggio", 1972). La morale rohmeriana consiste soprattutto in un’etica dell’immagine cui è affidato il compito di rappresentare la realtà non nella sua accezione naturalista ma nella sua composizione sociale, il che significa spogliarla di ogni spettacolarità con un’opera di sfrondamento di tipo bressoniano.
Quanto alla struttura narrativa lo schema di Rohmer è addirittura elementare nella sua semplicità, componendosi essenzialmente di una situazione data, della possibilità-desiderio di cambiarla, della riflessione, del ritorno alla situazione originale. E tale procedimento, per ricordare ancora Bresson, è traducibile nello schema teologico del precetto, insidiato dalla tentazione, contrastato dalla preghiera e risolto con il trionfo del bene. In questo senso il mondo di Rohmer non prevede cambiamenti, significa la più totale sfiducia nelle possibilità di modificare la realtà. Le motivazioni d Rohmer non sono tuttavia di tipo religioso, ma totalmente laiche e logiche, una logica che la forma dei suoi film traduce perfettamente. Si veda da questo punto di vista la splendida trascrizione che egli ha fatto in "La marchesa von O…" ("La marquise von O.", 1977) del racconto di H. von Kleist, che sembra però modificare seppure non sostanzialmente le sue posizioni…»
Piuttosto che una teologia senza religione, la produzione cinematografica di Eric Rohmer si potrebbe interpretare, invece, in maniera diametralmente opposta: ossia come un cinema profondamente religioso, ma di una religiosità senza teologia, cioè senza un Dio ben definito, o forse, addirittura, senza alcun dio.
Qual è il Dio di Rohmer, infatti? Non è abbastanza chiaro che si tratta di un Deus absconditus, che gioca un poco a rimpiattino con gli uomini; ma che sembra sempre suggerire loro, con il buon vecchio Pascal: «Voi non mi cerchereste, se non mi aveste già trovato»? Il regista della leggerezza, il regista che sa fare dei gran film con mezzi decisamente modesti, possiede il sorriso di don Bosco e la benevolenza universale di San Francesco; la sua formazione, inoltre, è stata cattolica; pure, nel suo cinema Dio è una specie di convitato di pietra: tutti lo attendono, pur senza nominarlo, ma Lui no arriva mai. Oppure era già lì, fin dall’inizio, e gli uomini non sono stati capaci di accorgersene, di intuirne la presenza numinosa.
Sia come sia, il discorso poetico di Rohmer parte dall’uomo e all’uomo ritorna; tutta la sua parabola non si allontana un istante, non devia di un centimetro dalla riflessione sulla condizione umana, con pensosa serietà vestita di tenera e indulgente ironia; nondimeno, si ha sempre la netta, nettissima impressione che l’uomo sia al centro, ma non sia il fine della ricerca cinematografica e "filosofica" di Rohmer; al contrario: che l’uomo sia proiettato alla ricerca di una Verità superiore, per la quale valga la pena di vivere e lottare — anche d’illudersi, qualche volta; ma da non dimenticare mai. Anche perché, se per caso gli uomini e le donne si dimenticano di essa, è lei che torna a bussare alla loro porta; non c’è modo di eluderla: è come un parente povero che bussa e ribussa alla nostra porta, senza mai stancarsi, e magari anche nel cuore della notte.
E la religione di Rohmer? Non è una religione definita; non è neppure un vago deismo alla Rousseau; è legata alla vita, ai suoi ritmi, alle sue stagioni, alle sue incertezze, ai suoi dubbi, alle sue domande, alle sue piccole e grandi sofferenze, le quali, talvolta, schiudono la porta ad un bene più grande, a una pienezza più vera. Eppure non è nemmeno una religione buonista e zuccherosa, una religione di tipo New Age, tutta spiriti buoni e natura amica e pratiche salutistiche o meditative; no: niente del genere, assolutamente. Semmai, è il contrario di tutto questo: è rigore, fedeltà a se stessi, incapacità di mentire su ciò che è essenziale. Se pure la vogliamo definire, in prima approssimazione, come una religione dell’uomo, sia ben chiaro che quest’uomo è estremamente esigente con se stesso e che non se l’è creata per assolversi con maggiore facilità, tutto al contrario, se l’è creata per passare al setaccio la propria anima, senza concedersi sconti o indulgenze. E rifiutando costantemente la tentazione d’imboccare le scorciatoie. Gli uomini e le donne di Rohmer sono veri uomini e vere donne, perché, pur nella loro fragilità (a volte estrema), rifiutano le scorciatoie per principio; se, in un momento di stanchezza o di paura, ne imboccano una, fatti appena pochi passi, si fermano e tornano indietro. Preferiscono tutti i rischi e le fatiche di un lungo viaggio, tutte le incognite di un sentiero che non si sa dove andrà a sboccare, alle mediocri sicurezze del compromesso, della viltà, dell’infedeltà a se stessi.
Il tipico personaggio di Rohmer, uomo o donna che sia, , fondamentalmente, un puro; non diciamo un ingenuo: ma certamente un idealista, e sia pure a modo suo. E anche, di solito, un poeta: nel senso che possiede occhi per la bellezza, e ne rimane ogni volta conquistato. Non solo la bellezza fisica, la bellezza di un sorriso, di un paesaggio o di un giovane corpo: ma la bellezza come dimensione dello spirito, come preannuncio dell’Assoluto.
Ed eccoci di nuovo alla teologia. Gli uomini e le donne di Rohmer sono intriganti, perché cercano — ciascuno a suo modo — l’Assoluto; anche se, il più delle volte, non lo sanno, anzi, non ne hanno neppure una vago barlume. E anche se si tratta di ragazze di facili costumi che collezionano amanti, e si portano nel letto un uomo diverso ogni notte (come in «La collezionista»), o di giovani mariti in crisi che flirtano con l’idea dell’adulterio (come in «L’amore nel pomeriggio»), anche allora conservano pur sempre una traccia, un ricordo di una certa quale purezza originaria, che non è la purezza "naturalistica" di Rousseau o del "buon selvaggio", ma proprio quella di Adamo ed Eva prima del Peccato originale.
In questo senso, Rohmer è sicuramente un regista cristiano: perché possiede il senso del mistero e il senso del bene e del male. Non è uno dei tanti cattivi maestri del relativismo contemporaneo, spacciato per "libero pensiero", per "pensiero adulto", per "religione adulta". Adulta o non adulta, la religione, per esistere, non può separarsi dal mistero del bene e del male; se lo fa, non è più religione: è filosofia antropocentrica, e perciò una cattiva filosofia. Nell’uomo c’è un mistero, perché c’è una ferita originaria; ma c’è anche una sia pur vaga reminiscenza dell’Assoluto, che prende la forma della nostalgia, oppure, quando è proprio inconsapevole, di una vaga e sognante malinconia. I film di Rohmer sono dolcemente malinconici, perché negli uomini e nelle donne, nei ragazzi e nelle ragazze che li popolano, vi è l’aspirazione ad una dimensione di vita più alta e più pura, una specie di nostalgia delle altezze, e, insieme ad essa, intrecciata con essa, vi è anche un commovente struggimento di non poterci arrivare, o di non sapere quale sia la porta giusta fra le mille e mille stanze della casa. Oppure trovano la porta, o immaginano d’aver capito quale sia quella giusta, ma non ne possiedono la chiave; si frugano in tutte le tasche, ma niente, la chiave non salta fuori: eppure la felicità si direbbe proprio lì, vicinissima, a un passo di distanza, oltre la soglia. Possibile che la vita sia tutta una ironia?
I personaggi di Rohmer sono personaggi alla ricerca: tentano tutte le porte, una dopo l’altra, e frugano in tutte le tasche alla ricerca della chiave: sanno, o intuiscono, di averla, però, al momento decisivo, non riescono a trovarla. E tuttavia continuano a cercare: lo fanno con timore e tremore, che solo l’inarrivabile levità del suo tocco di regista riesce a sdrammatizzare, salvandoli dal destino di grigiore e pesantezza che incomberebbe su di loro, qualora fossero affidati a una mano più goffa, meno aerea. Si può dire, allora, che ogni singolo film di Rohmer è anche un romanzo di formazione: proprio nel senso de «Le illusioni perdute» di Balzac o de «L’educazione sentimentale» di Flaubert. Ogni esperienza di vita è una lezione preziosa, per chi ha conservato lo stupore e l’incanto del mondo. Ed è appunto questo che salva e redime gli uomini e le donne del cinema di Rohmer, anche nei frangenti più insidiosi: l’avere conservato, in qualche angolo dell’anima, l’incanto del mondo…
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