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Un film al giorno: Ritratto della giovane in fiamme

Che dire di questo film di Céline Sciamma, che, uscito nelle sale nel 2019, ha subito scalato sia le vendite al botteghino, sia i vertici della critica, ottenendo recensioni estremamente lusinghiere e collocandosi, secondo certi critici, fra le pellicole migliori degli ultimi anni? Innanzitutto, che è un bel film dal punto di vista formale. La fotografia di Claire Mathon, in particolare, insieme alle scenografie e ai costumi, è superiore a ogni elogio: la macchina da presa cattura le figure, le superfici, i drappeggi, gli ambienti, con una tale pastosità cromatica, con una tale suggestione di chiaroscuri, da evocare immediatamente una serie di pitture del tardo Rinascimento o meglio del Bracco, in particolare i quadri di Gherardo delle Notti, e più ancora di Georges de la Tour. Le scene in cui qualche candela rischiara fiocamente il buio delle stanze sono in effetti opera di pittura; semmai si può dire che la maestria delle riprese è talmente consumata da provocare un certo qual senso di sazietà, un dosaggio eccesivo di ciò che forse sarebbe stato saggio amministrare con una maggior parsimonia.

Qui, però, finisce l’omaggio dovuto ai meriti del film, e incomincia la parte dolente. La recitazione non supera i limiti di un onesto mestiere: nell’atmosfera asfittica, quasi claustrofobica in cui si svolge l’azione, incentrata su quattro soli personaggi, tutti femminili, e per la maggior parte delle scene al chiuso, le attrici recitano quasi più coi volti, con gli sguardi e i gesti delle mani, e non si può dire che mostrino una particolare bravura. I dialoghi sono quello che sono: secchi, sapidi, galantemente disinvolti: scambi rapidi di battute nei quali si direbbe che la verve e la prontezza nel ribattere e stupire l’interlocutore prevalgano su ogni altra cosa. Insomma, più che un film è un dramma teatrale, fondato su pochissimi personaggi e su poche scene principali; perfino le riprese all’esterno, in riva al mare — il mare roccioso e suggestivo della Bretagna — non allentano il senso di chiuso e di oppressione, anzi lo rafforzano, perché il rumore delle onde che si frangono monotone sulla scogliera e la severità del paesaggio rupestre aggiungono tensione alla vicenda, anziché stemperarla e immettervi una boccata d’aria fresca. Nessuna delle quattro interpreti — Noémie Merlant nei panni dell’artista, Adèle Haenel in quelli della figlia, Valeria Golino in quelli della madre e Luàna Bajrami in quelli della serva poco più che adolescente — si segnala per particolare intensità d’interpretazione. Non basta sgranare gli occhi o sbattere graziosamente le ciglia per descrivere i sentimenti di un animo turbato nel profondo; ci vuole un qualcosa di più, un quid che le vere attrici possiedono naturalmente e che la giovinezza e l’avvenenza fisica, come nel caso delle due protagoniste, o l’arte e il mestiere della recitazione non valgono a compensare, tanto meno a sostituire.

La quale azione è presto detta. Verso la fine del 1700 una nobildonna di una casata in decadenza, che vive su un’isola con la figlia, Héloïse, ha destinato quest’ultima a sposare un nobile milanese, mai visto di persona: costui era fidanzato con la sorella di lei, morta d’improvviso, quindi Héloïse deve sostituire la defunta. Il futuro marito, frattanto, ha chiesto di poter vedere il ritratto della fidanzata: perciò la madre chiama sull’isola una pittrice, Marianne, per eseguire il ritratto della figlia. Bisognerà però agire d’astuzia, in quanto la ragazza non è affatto contenta di quel matrimonio combinato, per giunta al buio: perciò Marianne non dovrà dirle la vera ragione della sua presenza, bensì conquistare la sua fiducia, passare del tempo insieme a lei, memorizzare i tratti del suo volto e poi, la sera, in camera, fissare sulla tela, col pennello, le impressioni e le osservazioni della giornata, eseguendo il ritratto a memoria. Nasce così fra le due giovani donne un rapporto che diventa ben presto confidenziale. Héloïse è molto sola e del tutto inesperta del mondo: ha trascorso diversi anni in convento e non ha mai conosciuto l’amore; si è chiusa in se stessa, dimostra poco interesse per la vita e parla e si comporta come se vi fosse un distacco incolmabile fra lei e il resto del mondo. Nel giro di pochi giorni diventano amiche: Marianne è attratta dalla sua ruvida e un po’ misteriosa semplicità; Héloïse è attratta dalla ventata di vita nuova che l’altra porta con sé, la sua esperienza del mondo e dell’amore, la sua apparente disinvoltura. Apparente, perché Marianne comincia ad essere stranamente turbata dalla frequentazione di quella ragazza scontrosa e indecifrabile; tanto che alla fine decide di confessarle il suo segreto e di mostrarle il ritratto, ormai terminato, per averne un giudizio. Héloïse lo trova molto lontano dalla vera rappresentazione di sé: non vi si riconosce e ha parola dure e sprezzanti per l’opera, che pure è tecnicamente ineccepibile. Turbata, confusa, addolorata, Marianne distrugge il proprio lavoro e con ciò provoca l’ira della madre, che le ordina di andarsene; a quel punto, inaspettatamente, è la stessa Héloïse che interviene per chiedere che Marianne eseguisca il suo ritratto, apertamente e senza finzioni, posando per lei molte ore al giorno: ed è un primo segnale del fatto che ella non vuole separarsi da quella nuova amica, che pure l’ha crudelmente delusa. La madre deve partire e intima alla pittrice di eseguire il lavoro entro la data del suo ritorno: cinque giorni in tutto.

In quei pochi giorni è come se il tempo si dilatasse. Dopo un’alternanza di sospiri, rossori, turbamenti, frasi allusive e quasi balbettate, le due giovani si baciano e infine si confessano i reciproci sentimenti, divenendo amanti nel modo più esplicito. Bisogna dare atto alla regista di non aver ecceduto col registro dell’erotismo: le scene di nudo sono poche e a dire il vero tutt’altro che eccitanti; una sola volta c’è uno scivolone nel cattivo giusto, e non è una scena d’amore fra le due ma del piacere solitario di Marianne che, a letto, non può fare a meno di pensare ad Héloïse. L’erotismo è tutto nei silenzi, nei sottintesi, nell’atmosfera e, naturalmente nei dialoghi. Frattanto la giovanissima cameriera, Sophie, confessa di essere rimasta incinta e di non voler portare avanti la gravidanza. Le due amanti, allora, la prendono sotto la loro "protezione", la sottopongono a una serie di rudimentali pratiche abortive, come farla correre fino all’estenuazione sulla spiaggia, o farla stare in sospensione sopra una tavola, le quali peraltro si rivelano inutili, tanto che alla fine l’accompagnano da un’anziana donna del posto che pratica aborti clandestini. Questa è senza dubbio la parte più brutta del film. La regista ci ha messo tutta la sua cultura femminista e ha inteso celebrare la solidarietà delle donne (notoriamente inesistente) contro l’odioso fardello di un bambino in arrivo, impegnate a lottare contro l’ombra del maschio che si serve della gravidanza per tenerle in suo potere. Di fatto, però, quelle scene hanno qualcosa di scostante, diremmo di repulsivo: le due giovami sembrano delle streghe intente a celebrare un sacrificio umano. Brutta in ogni senso, senza appello. Né la riscatta la scena della festa notturna delle donne dell’isola, tutte con la loro cuffietta ricamata sul capo, che cantano e battono le mani intorno al fuoco, nell’oscurità: anche qui la regista vorrebbe esaltare il mondo "panico" delle donne, vicine alla natura e ai suoi segreti primordiali, ma l’effetto è quello di uno sbiadito e noioso sabba senza mistero e senza terrori. In questa scena l’orlo del vestito di Héloïse prende fuoco, ma lei non ne è affatto turbata e si muove come niente fosse, continuando il suo gioco di sguardi con Marianne, che la osserva affascinata: da qui il titolo del film (anche se chiaramente esso richiama anche le fiamme che si accendono nel profondo). Intanto la passione fra le due protagoniste cresce sempre più, ma incominciano anche i morsi della gelosia: Héloïse presto se ne andrà per sposarsi e a Marianne resterà solo un ricordo struggente. E così avviene: giungono i servi del promesso sposo per accompagnare la ragazza a Milano; torna anche la madre, che ammira il ritratto ormai compiuto, questa volta con piena soddisfazione dell’interessata, e paga l’opera come convenuto. A Marianne non resta che andarsene come Orfeo dalla sua Euridice, lanciandole un ultimo sguardo amoroso (tema toccato nel film quando Heloïse aveva letto da un libro, a voce alta il mito greco) e portare con sé l’immagine dell’amata e le note dell’Estate di Vivaldi, da lei suonata al clavicembalo. Un brano musicale che alcuni anni dopo, a teatro, commuoverà la spettatrice Héloise — ornai sposa e madre — fino alle lacrime: mentre Marianne, da un palco di fronte, la osserverà commossa, senza però farsi vedere.

La storia non ha nulla di originale: e l’originalità nel trattare la psicologia delle due donne avrebbe potuto essere la sola giustificazione di un ennesimo film sul tema dell’omosessualità femminile. Banale e convenzionale è la maniera in cui l’amicizia fra le due si trasforma in passione travolgente: è il solito elogio dell’abbandonarsi ai sensi e alle emozioni, specie se insolite, e ignorare qualsiasi richiamo della ragione e della morale. Un romanticismo d’accatto, quindi, ormai sfruttato fino all’inverosimile, e tuttavia ripresentato qui come se fosse la scoperta più straordinaria del secolo. Lasciatevi travolgere dalle passioni, anche le più disordinate, e nella vostra vita ci sarà qualcosa che potrete poi ricordare per sempre: questa sembra essere la morale della storia, perfino languida nel suo decadentismo. Nessuna delle due donne è sfiorata dall’idea di contestare il proprio destino: né Eloïse di sposare uno sconosciuto solo per compiacere la madre, né Marianna di rinunciare a quello che pare essere il grande amore della sua vita, pur ricca di esperienze (con uomini o con altre donne?, la regista direbbe che la domanda è omofobica). Ridicolo e quasi grottesco è poi il fatto che Marianne ed Héloïse continuino a darsi del voi come il primo giorno, anche dopo aver fatto l’amore ed essersi esplorate sotto le lenzuola. Ci si chiede se abbia avuto un senso, per loro, infrangere tutte le leggi e le convenzioni, visto che intendevano sì assaporare quell’esperienza proibita sino in fondo, ma poi rientrare prontamente nei ranghi, rinunciando a ogni ulteriore velleità trasgressiva. E pertanto un’esperienza erotica senza prospettive, senza domani, senza speranza; e, nel caso sia stata davvero anche un’esperienza sentimentale, un unicum destinato a rimanere in un angolo della coscienza, coccolato nel ricordo, ma non impegnativo nelle rispettive vite future. Una sorta di carpe diem della trasgressione; un frutto proibito colto per il gusto di coglierlo, senza pensare a nulla, senza chiedersi non soltanto se sia giusto — chi mai oserebbe fare una simile domanda, di questi tempi e nel contesto di questa cultura — ma anche solamente se ne valga davvero la pena, nel senso che lo sconvolgimento emotivo da esso provocato supera di gran lunga il piacere assai transitorio, peraltro insidiato, anche in quei pochi giorni, da sentimenti contrastanti come l’ansia, la gelosia e l’amarezza. Patetico, quindi, il tentativo di contrabbandare le due protagoniste per "eroine" della libertà: né luna né l’altra hanno la stoffa delle lottatrici e non si sognano neppure di sfidare davvero la società: si contentano di masticare nell’ombra il frutto del peccato. Sanno solo agire di nascosto, come quando aiutano Sophie ad abortire e poi la conducono dalla vecchia mammana; campionesse della dissimulazione, abusano della fiducia della madre per fargliela sotto il naso. Tanto, questa pare la morale sottintesa, la pretesa di costei di maritare la figlia controvoglia autorizza qualsiasi slealtà valga a "punirla".

Ci può domandare infine se sia giusto parlare di opere che esaltano il disordine delle passioni e contribuiscono alla confusione morale nella quale siamo immersi, e alla quale sono particolarmente esposti i giovani. Crediamo di sì, proprio perché tali opere comunque esistono, e ignorarle del tutto equivale a lasciare il pubblico, quello giovanile specialmente, esposto alla cattiva influenza di mode e modelli che accrescono il disordine e la confusione e indeboliscono i valori e le certezze, a cominciare dall’identità di genere. È chiaro che film come Ritratto della giovane in fiamme godono di tutte le agevolazioni proprio perché contribuiscono ad aumentare il disordine, ciò che le élite globaliste vogliono, e per cui lavorano da anni e da decenni, se non da prima ancora. Dunque, se esiste il veleno, è giusto che qualcuno fornisca anche l’antidoto; vale a dire una lettura di tali opere (film, quadri, canzoni, romanzi, programmi televisivi, ecc.) che aiuti il pubblico di buona volontà ad orientarsi e raccapezzarsi, al netto della retorica falsamente spontanea del sentimento innanzitutto. Ciò a cui stiamo assistendo è, in realtà, un attacco concentrico e ben sincronizzato contro la famiglia naturale; e film come questo servono appunto a scalzare le basi stesse dell’istituto familiare. Essi contrappongono la libertà e la leggerezza della passione alla rigida e opprimente severità della vita familiare, nella quale, oltretutto, c’è un maschio che domina, e una donna che vive sottomessa e ha il solo compito di procreargli dei figli, che si trasformano nelle catene della sua ulteriore schiavitù. Ecco allora che le lunghe sequenze dedicate all’aborto di Sophie — decisamente disgustose, come si è detto — rientrano nel disegno, ormai condotto quasi a temine, di costruire una morale rovesciata, nella quale diventa bene il male, e male il bene. La soppressione del nascituro, in questa prospettiva, è un atto "coraggioso" per affermare la propria indipendenza e respingere il solito ricatto della maternità, escogitato dal perfido maschio per tenere avvinta la propria moglie. Anche l’amore fra uomo e donna viene visto sotto una luce sgradevole, minacciosa: solo fra due donne è possibile l’amore "vero", sembra dire la regista. Ahimè, quante sciocchezze. Il destino della donna non è certo fra le braccia di un’altra donna, ma nell’amare un uomo, creare una famiglia, crescere dei figli.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Dmitry Demidov from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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