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6 Novembre 2015Marino Moretti è considerato, insieme a Sergio Corazzini e a Guido Gozzano, come il più tipico rappresentante della stagione crepuscolare, con riguardo specialmente alla sua produzione lirica; tuttavia, tenuto conto dell’insieme, assai imponente, della sua opera letteraria, che è, in gran parte, narrativa, si tratta di un giudizio interamente fondato e senz’altro condivisibile?
A nostro avviso, se si guarda a romanzi come «Guenda» (1918), «L’Andreana» (1935), «Anna degli elefanti» (1937), «La vedova Fioravanti» (1941), «La camera degli sposi» (1958), che coprono un arco temporale di oltre quarant’anni, bisogna convenire che i personaggi, le situazioni, gli intrecci, le tematiche, la morale, sono improntati più ad un clima epico e drammatico, che decadentista. Si tratta, beninteso, di una epicità minore, se ci è consentita l’espressione; nondimeno, epica è la serietà con cui sia l’autore che i personaggi prendono la vita, pur se, talvolta, dietro un velo di leggerezza, d’ironia (come in Gozzano), di scherzosità e quasi di parodia: ma si tratta, appunto, di una facciata, che serve a questi umili eroi per mascherare la loro intima pena. Il fondo della narrativa di Moretti — così come, del resto, della sua poesia — è sempre serio: spesso malinconico, qualche volta eccentrico, non di rado patetico; ma, ripetiamo, sempre, al suo fondo, serio: nel senso che i caratteri e le vicende ruotano intorno alla serietà della vita, anche se questa serietà è, talvolta, dissimulata e quasi sdrammatizzata dietro un sorriso bonario o dietro una maschera buffa.
Si prenda, fra tutti, il caso de «L’Andreana» – a nostro parere, la sua opera migliore, il vertice della sua ricerca poetica e della sua maturità di scrittore. Come negare che vi siano elementi tipicamente decadentistici, nel minimalismo di fondo del’intera vicenda, pur se imperniata sul vecchio espediente teatrale dell’agnizione — addirittura uno scambio di bambini nella culla, all’ospedale, che pretenderà un ristabilimento della verità quando le rispettive madri sono ormai avanti negli anni, e si sono costruite una vita intera con quei figli che credevano i loro, per poi scoprire che non lo erano, e dai quali si devono separare, per accogliere quelli "veri"? E come negare che nel personaggio di Mondo, come del resto in quello della Filodima, vi siano dei tratti un po’buffi, da commedia dell’arte, che alleggeriscono la tensione della vicenda e portano una nota di colore nella monotonia di quelle povere esistenze? E tuttavia, né Anita, la figlia dell’Andreana, né Mascia, la ballerina che si allea con lei per mandare in rovina Mondo, né la Ballarin, che riesce a strappare all’Andreana un figlio forte e sano, Fortunato, e gli dà in cambio un figlio malato di tubercolosi, Felice, sono personaggi comici: sono molto seri, invece, e ciascuno di essi è tormentato da un suo dèmone, che lo trascina verso una vita insoddisfacente e infelice. Che dire, poi, della protagonista, di questa forte, sfortunata, eroica figura di donna, tenace, paziente, coraggiosa, indistruttibile, che nessuna sventura e nessuna delusione riescono a piegare, e, soprattutto, alla quale niente e nessuno riescono a rubare una innata dignità, che ha qualcosa di solenne, da antica tragedia greca?
L’eroismo dell’Andreana è un eroismo epico, ovviamente di una epicità moderna e popolare: la stessa che si trova nei «Malavoglia» di Verga; una analoga rassegnazione, o, per dir meglio una analoga accettazione della vita, nella sua interezza (Moretti è uno scrittore cattolico, e la sua visione cristiana del reale si esprime appunto in questo concetto centrale), vale a dire nella buona e soprattutto nella cattiva sorte, nei — rari – momenti felici e nelle lunghe stagioni di avversità, amarezza e solitudine.
L’immagine finale del romanzo, con l’Andreana che trova ospitalità nel quartiere dei pescatori e che riparte coraggiosamente da zero, dopo aver conosciuto il benessere materiale, ma anche le più profonde delusioni affettive e i più strazianti dolori, come la morte del figlio Felice; con questa donna fiera e indomabile, che, venduta la villa e ridotto Mondo a un relitto umano dal fatale incidente automobilistico, si rimbocca le maniche e, non più giovane, riprende senza paura il suo vecchio mestiere di pescivendola, è una immagine superba, "eroica", appunto, nel senso verghiano del termine, ma senza la cupezza quasi disperata del siciliano.
Scriveva Giuseppe Ravegnani in «Uomini visti» (Milano, Mondadori, 1955, vol. 1, pp. 290-99):
«I "ritratti", scritti o detti, di Marino Moretti sono molti. Per essi direi che esiste un’aulica tradizione. Quasi aggiungerei che sopra di lui, sulla sua casa, sul suo studio, su Cesenatico, sul porto di Cesenatico, si è creata una leggenda. Una leggenda che tutto rimpicciolisce e tutto ammorbidisce. Siccome si pretende che Moretti sia lo scrittore dei "toni minori", lo scrittore della "bontà" e del "sacrificio", della "malinconia" e della "rinuncia", lo scrittore dei "vinti" (e vedremo poi come tutte queste definizioni siano soprattutto letterarie, e in sé pigre, in quanto rinunciano a mettere in chiaro l’autentica "posizione" spirituale del narratore), anche l’uomo Moretti viene a portare sul volto una specie d’oziosa decalcomania, che evidentemente s’adegua de partecipa dell’opinione che si ha di una letteratura piuttosto che di un’altra: di una letteratura che "grosso modo" si vorrebbe indicare come crepuscolare, quando invece, persino nel suo linguaggio, essa è realista. Infatti, a proposito dell’animo di Moretti uomo, abbiano letto ch’esso è timido, gentile, mite, bonario, remissivo, pieghevole, benigno; cioè abbiamo fatto la conoscenza di aggettivi qualificativi che, pur non essendo falsi, sono però esatti e veri soltanto in parte. […]
Dunque, una volta per sempre, messe da parte le etichette, diamo a Moretti quel che gli spetta. E non dico la cattedra di Maestro… ma dico l’esatto riconoscimento delle qualità e del carattere della sua arte, sopra cui l’equivoco dei toni grigi e crepuscolari pesa tuttora. È mio convincimento invece che sin dai lontani giorni delle novelle, sin dal primo romanzo, "Il sole del sabato", con quella Barberina la cui umiltà è tutta armata, fino agli "Uomini soli"; marino Moretti altro non sia che un autentico narratore verista, forse il solo e più forte narratore verista che l’Italia abbia avuto dopo Verga. Pensate a "La voce di Dio"; pensate a "L’Andreana", pensate a certi racconti degli "Uomini soli" (e cito "Dar moglie al cavaliere"). Tutti i "personaggi" morettiani, donne e uomini, molti dei quali altamente drammatici, pur se si muovono in un ambiente disadorno e forse monocolore, chiudendo poi con la morte i loro delusi destini (o con la rinuncia o con la sconfitta o con la rassegnazione, le quali equivalgono altrettante morti!), questi "personaggi", dico, non stanno di fronte alla vita come inerti e ignare vittime, né sono mai degli assenti, degli sprovveduti, degli abulici, cioè gente sacrificata in anticipo, senza lotta, senza desiderio di lotta. Al contrario, persino con caparbietà, persino con audace rancore, persino con coraggio (un coraggio fatto di silenzio, cioè, fra i coraggi, il più difficile e il più esigente) essi cercano, voglio, perseguono, anelano alla gioia e alla felicità, reagendo, difendendosi, resistendo, opponendo proprio cotesto silenzio alle grida e alle offese dell’esistenza: un silenzio però più creante di cento parole, più operoso di cento azioni, più vivo e vitale di cento gesti. Infatti, dove stiano di casa a proposito di questo Moretti, la malinconia crepuscolare e la noia del vivere, io non so. Il dolore è ben altra cosa. Domando quale sia il romanzo di Marino che metta in campo un "personaggio", il quale sul serio abbia noia della vita, anche se la vita, nella filosofia dello scrittore, si svolga quasi sempre all’ombra d’una fatalità arcigna, dura, grassa, violenta, malvagia e soprattutto ingiusta. Non uno; e nemmeno se cerchiamo tra i molti "personaggi" delle novelle e dei racconti. […]
Dov’è dunque il "vero" Moretti? Io direi che è dovunque, nei racconti, nei romanzi, nei libri di memoria, in una fedeltà a se stesso e alla sostanza del suo animo che è commovente. Per lui, in tanti e tanti anni, non ci sono state mode, tendenze, ismi, salti di generazioni, valica menti di gusti mondani o da caffè: Mai egli ha abdicato alla sua natura, al suo modo di guardare, al suo cuore; mai egli ha ceduto al denaro degli uomini e alle lusinghe della fama; mai egli è montato su una bigoncia da predicatore alla ricerca di applausi e di lettori. Uomo schivo, sensitivo uomo, uomo ripiegato in sé, forse anche un po’ Cireneo dei suoi umori, egli si è soltanto disteso e raccontato nei suoi libri, fedelissimo sempre alla verità e alla realtà, guardate con attrito pungente, con uno sguardo talora anche irritato, o scanzonato, o ironico, ma uno sguardo che è sempre di lui, mai toccato dal variare dei tempi e delle così dette "poetiche", mai sfiorato dai modi e dai libri degli altri.»
Tutto vero e tutto giusto. La grandezza di Marino Moretti è proprio in questa indefettibile fedeltà a se stesso, in questa coerenza esigente, che ne fa, davvero, quasi un unicum nel panorama letterario italiano del Novecento. Dalla prima raccolta di poesie, «Il poema di un’armonia», che esce nel 1903, in pieno clima decadentista, quando l’autore è appena diciottenne, all’ultima opera in prosa, «Il libro dei miei amici. Ritratti letterari», che è del 1960, e infine al «Diario senza le date», del 1974, cinque anni prima della sua morte, il lunghissimo itinerario creativo dello scrittore passa imperturbabile attraverso numerose stagioni ed esperienze, dominate da questa o quella rivista, da questa o quella avanguardia (e perfino neoavanguardia!), che si snodano e si accavallano con ritmo sempre più rapido e incalzante, quasi frenetico, dal futurismo all’ermetismo, al neorealismo, all’esistenzialismo, al Gruppo ’63. Moretti se ne sta un po’ in disparte, schivo, solitario, chiuso in se stesso; ma non astioso, non cinico, mai beffardo, anche se — talvolta — ironico. Moretti non disprezza, né condanna alcuno, ma va per la sua strada, tutto assorto nel suo mondo interiore, nella sua incessante ricerca: la quale a torto potrebbe sembrare centrata soltanto su di sé, perché nello scavo della propria infanzia e giovinezza, del proprio passato, della propria famiglia, del proprio paese, egli trova l’umanità intera (ah, quella Cesenatico dei pescatori e dei pescivendoli, quella città vecchia piena di poesia, quel piccolo porto di mare che è come una minuscola finestra, aperta più verso l’interno che verso l’esterno, e così ricca di umanità, di figure caratteristiche e commoventi, di piccole tragedie quotidiane e di grandi illusioni perdute: quanto l’ha amata, quanto l’ha sviscerata, senza mai idealizzarla, ma, anche, senza mai perdere la tenerezza e la bonarietà verso di essa, come un uomo che resta fedele per sempre alla donna amata, per tutta la vita, anche quand’ella invecchia e mostra le rughe; anche quando lo delude con i suoi capricci e i suoi colpi di testa; e anche se lascia intravedere, di quando in quando, dei tratti di piccineria e di vera e propria meschinità!
Lo sguardo di Moretti è sempre affettuoso, anche se privo d’illusioni: egli è un grande pessimista che non si aspetta nulla di buono dalla vita, perché sa che ogni felicità, se pure arriva, è destinata a non durare: radicatissimo, in lui, è il senso della precarietà delle cose, della fuggevolezza della gioia, della imperscrutabilità del destino, più avverso che amico degli uomini, più propenso a spezzare i loro sogni che a sostenerli nelle loro speranze. Eppure Moretti non piomba mai nella disperazione, non cede mai alla sventura: come i suoi personaggi più caratteristici, che non si arrendono, che lottano, che sono disposti a qualsiasi sacrificio per non perde del tutto i loro sogni, per non ammainare la bandiera del loro idealismo, per non scordarsi del grande segreto della bontà, che addolcisce le pene e sparge un balsamo sulle ferite più profonde. E qui viene fuori il fondo cristiano, anzi cattolico, dell’autore: quell’esile filo di speranza che, però, è praticamente indistruttibile, tenace come lo sono le reti dei pescatori, che sempre vengono gettate in acqua e sempre vengono tirate a riva, sia che la pesca sia stata favorevole e abbondante, sia che neppure un solo pesce sia rimasto preso in esse.
Il mondo poetico di Marino Moretti è epico, perché epica è la forza d’animo che tirano fuori, quando tutto sembra ormai perduto, i suoi personaggi migliori, i più rappresentativi della sua filosofia: secondo la quale la vita è lotta, ed è una lotta incessante, che riserva ben poca felicità agli individui; e, tuttavia, una lotta alla quale non ci può sottrarre, perché solo attraverso il crogiolo della sofferenza si forgiano i valori, si trasfigurano gli egoismi, si purificano le passioni. E che la vita sia lotta, lo sa bene l’Andreana: fiera e forte figura di donna che non teme la povertà, la solitudine, le umiliazioni sociali. E lo sa bene Moretti, il quale, fin da giovanissimo, sceglie lo pseudonimo di Aliosha, come il più giovane dei fratelli Karamazov di Dostoevskij: l’unico, fra i quattro, il quale ha compreso che la vita, in definitiva, è una vocazione all’amore, alla benedizione, al perdono, e giammai una discesa nei tenebrosi e sterili deserti dell’astio, del rancore o della brama di vendetta…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels