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Nietzsche e il proletariato come classe impossibile

Da quando esiste la scuola pubblica, anzi, da quando esiste una opinione pubblica, ci è sempre stato detto e ripetuto che uno dei meravigliosi progressi della modernità, rispetto all’Ancien régime, è consistito nel superamento della società per ordini e nella sua sostituzione con la società per classi: e ciò come conseguenza, diretta o indiretta, della Rivoluzione industriale.

Di fatto, la Rivoluzione industriale ha prodotto una nuova classe sociale: il proletariato operaio; e che ciò sia stato un progresso indiscutibile, rispetto ai lavoratori agricoli presenti all’interno del vecchio ceto borghese, o Terzo stato, è tutto da dimostrare. In ogni caso, la classe operaia è sempre stata presentata come un fattore progressivo, rispetto al feudalesimo (magari ignorando il fatto che, quando comparve la prima, il secondo era già scomparso da alcuni secoli): queste "lettura" è sempre stata condivisa da liberali e marxisti, singolare convergenza delle due ideologie dominanti della modernità, storicamente nemiche. Sul piano politico. I liberali volevano dimostrare che il progresso aveva favorito anche le masse; i marxisti, che lo sfruttamento dei lavoratori su scala industriale aveva permesso loro di forgiare le armi per la loro stessa liberazione. Due ideologie del Progresso, che avevano e hanno molte più cose in comune di quanto comunemente si creda (così come si assomigliano più di quel che appaia lo Stato liberale e lo Stato comunista: entrambi basati, a ben guardare, su un fondo di totalitarismo ideologico, consistente nel negare il contributo al progresso medesimo di qualunque opposizione vera).

A quanto pare, nessuno — né allora, né, tanto meno, oggi — ha osato sollevare la domanda più radicalmente scomoda dal punto di vista del politicamente corretto; se, cioè, la classe operaia sia davvero una classe, o se non sia, per caso, una classe "impossibile": un aggregato casuale e strumentale di individui atomizzati, senza radici, senza identità, senza appartenenza ideale, senza più retroterra sociale, senza valori civili o religiosi: pura carne da lavoro, da pagarsi a un tanto il chilo, come bestiame, e da sfruttare senza alcun riguardo, come si sfruttano i buoi o i cavali da tiro, anzi, in maniera ancor più "scientifica" e sistematica, perché il contadino, di solito, prova un certo affetto per i suoi animali da lavoro, che sono anche i suoi compagni di fatica, mentre il capitalista moderno non ha la benché minima considerazione dell’operaio di fabbrica o del minatore, non li vede nemmeno, alla lettera, perché vive in un altro mondo, e la fabbrica o la miniera, per lui, sono solo un’appendice dei suoi più vasti interessi finanziari, della speculazione, delle spregiudicate manovre di borsa, e ad un simile capitalista l’operaio interessa quanto le api di un alveare interessano all’apicoltore, forse anche meno.

Eppure, a denunciare la "impossibilità" della classe operaia non si è levato alcun economista, alcun pensatore politico, alcun sociologo, ma solo un filosofo che aveva anche l’anima del poeta: il buon vecchio Nietzsche; sì, proprio lui, il profeta del Superuomo e dell’Eterno ritorno dell’uguale; lui, il pensatore aristocratico, il banditore della Volontà di potenza, lo spregiatore del socialismo e di ogni forma di populismo, l’odiatore delle masse, del loro "risentimento", del loro istinto gregario e pecorile, della loro pretesa di essere divenute, chi sa come, le protagoniste del progresso e della storia, solo perché la vita moderna le aveva scaraventate al centro della scena.

Le espressioni che egli adopera per denunciare lo stato di sfruttamento, di alienazione, di abbrutimento degli operai, ridotti al ruolo di veri e propri schiavi del capitalismo avanzato, sono più dure e sferzanti di quelle mai usate da Marx e dai suoi seguaci; ma un eguale disprezzo, anzi, se possibile ancora più grande, egli lo rivolge appunto ai leader socialisti, che di quel gregge, di quelle mandrie, di quelle masse abbrutite e disorganizzate e caotiche, senza dignità, senza rispetto di se stesse, ridotte alla pura lotta perla sopravvivenza, avrebbero voluto fare niente meno che le armate con le quali instaurare il regno universale del livellamento, dell’appiattimento e della servitù generalizzata, imposte direttamente dallo Stato medesimo.

Scriveva dunque Friedrich Nietzsche in «Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali» (titolo originale: «Moregenröthe»; traduzione dal tedesco di Fabrizio Desideri, Roma, Newton Compton, 1981, libro terzo, 206):

«LA CLASSE IMPOSSIBILE. — Povero, lieto e indipendente! — queste cose insieme sono possibili, – e agli operai, della schiavitù della fabbrica, non saprei dire niente di meglio, posto che essi non avvertano in generale come un’INFAMIA il venir ADOPERATI in tal modo, ed è quel che accade, come ingranaggi di una macchina e, per così dire, come tappabuchi dell’umana arte dell’invenzione! Puah! Credere che attraverso un salario più elevato possa esser cancellata la sostanza della loro miseria, cioè la loro condizione di impersonale asservimento. Puah! Lasciarsi convincere che attraverso un potenziamento di questa impersonalità si possa, all’interno del congegno meccanico di una nuova società, trasformare in virtù l’infamia della schiavitù. Puah! Avere un prezzo, per il quale non si è più persone, ma si diviene ingranaggi! Non siete voi i cospiratori, nell’attuale follia delle nazioni che vogliono anzitutto produrre il più possibile ed essere il più possibile ricche? Starebbe a voi presentare il conto: quali grandi somme di valore INTERIORE vengono gettate per un tale obiettivo esteriore! Ma dov’è il vostro valore interiore, se non sapete più cosa voglia dire respirare liberamente? Se non avete neppure un poco, voi stessi, in vostro potere? Se troppo spesso avete disgusto di voi stessi come di una bevanda stantia? Se prestate ascolto al giornale e sbirciate il vostro vicino, eccitati dal rapido salire e discendere di potenza, denaro e opinioni? Se non avete più fiducia nella filosofia che si veste di stracci, nella franchezza di chi è senza bisogni? Se per voi è divenuta motivo di scherno la volontaria e idillica povertà, la mancanza di professione e di matrimonio, quale dovrebbe proprio confarsi ai più spirituali tra voi? Non risuona sempre, invece, ai vostri orecchi, il piffero dei socialisti acchiappa topi, che vi vogliono eccitare con assurde speranze? Che vi ordinano di essere PRONTI e niente altro che questo, pronti dall’oggi al domani, cosicché non facciate altro che aspettare qualcosa dall’esterno e per il resto viviate come avete finora vissuto — sinché questa attesa non divenga fame e sete e febbre e follia, e alla fine sorga il giorno della "bestia triumphans" in tutta la sua maestosità? Invece ognuno dovrebbe pensare dentro di sé: "Meglio emigrare, in selvagge e fresche regioni del mondo cercar di divenir padrone e, soprattutto, padrone di me stesso; cambiando luogo finché continua a ammiccarmi un qualche segno di schiavitù; non scansare l’avventura e la guerra e per i casi peggiori tenersi pronto alla morte; purché finisca questa indecente condizione di schiavitù, purché cessi questo inacidirsi e invelenirsi e questo fare i cospiratori!". Questo sarebbe il giusto modo di pensare: gli operai in Europa d’ora innanzi dovrebbero dichiararsi COME CLASSE una impossibilità umana, e non solo, come per lo più avviene, come qualcosa di duramente e inopportunamente organizzato; essi dovrebbero introdurre nell’alveare europeo l’epoca dei grandi sciami migratori, quali finora non si erano mai visti, e, attraverso questa azione di libertà di emigrazione in grande stile, protestare contro la macchina, contro il capitale e contro la scelta che adesso li minaccia, quella cioè di DOVERE diventare o schiavi dello Stato o schiavi di un partito sovversivo. Che possa alleggerirsi di un quarto dei suoi abitanti! Ad essa e a loro il cuore si farà più leggero! Solo nella lontananza, nelle imprese di entusiaste spedizioni di colonizzatori si riconoscerà con precisione quanta buona ragione e equità, quanta sana diffidenza la madre Europa abbia incarnato nei suoi figli, – questi figli che non potevano più sopportare di restare accanto a lei, la vecchia donna ammuffita, e correvano il rischio di diventar cipigliosi, irascibili e avidi di godimento come lei. Le virtù dell’Europa con questi operai se ne andranno in giro al di fuori dell’Europa; e ciò che all’interno della patria cominciava a degenerare in pericoloso scontento e in delinquenziale inclinazione, al di fuori di essa acquisterà una selvaggia e bella naturalezza e si chiamerà eroismo. — Così, alla fine, ritornerebbe di nuovo un’aria più pura anche nella vecchia Europa, adesso sovrappopolata e tutta intenta a covare dentro di sé: Che manchino pure, allora, le "forze del lavoro"! Forse si rifletterà allora sul fatto che ci si è abituati a tanti bisogni solo dal momento in cui divenne così FACILE soddisfarli, – e alcuni bisogni si tornerà di nuovo a disimpararli! Forse allora si faranno venir qui dei CINESI: e questo porterebbe con sé il modo di vivere e di pensare che conviene a laboriose formiche. Anzi, essi potrebbero nel complesso aiutare a infondere nel sangue di questa inquieta Europa, che si sta logorando, qualcosa della calma e contemplatività asiatica, e — cosa di cui c’è maggiormente necessità — qualcosa della asiatica RESISTENZA e STABILITÀ.»

È questo, confessiamolo, un Nietzsche un po’ inedito e simpaticamente scapigliato, un po’ Jack London e un po’ Bakunin; addirittura profetico quando parla dell’immigrazione degli stranieri, che verranno chiamati a rimpiazzare i ranghi vuoti dell’Antico Continente; ma terribilmente inattuale quando invoca una sorta di fuga di massa dalla vecchia Europa per un quarto dei suoi abitanti, quei milioni di operai che si abbrutiscono in un lavoro alienante, e che i pifferai magici del socialismo vorrebbero far marciare verso una impossibile rivoluzione la quale, ben che vada, metterà lo Stato al posto del capitalista nel serrare le loro catene.

Singolarmente acuta anche la sua critica ai leader socialisti, i quali, alla "classe" dei lavoratori di fabbrica, domandano solo di tenersi pronta, cioè di attendere il momento favorevole per scatenare la rivoluzione: aspettandolo dall’esterno. In quell’aspettare un ordine che deve venire dall’alto, dai capi socialisti, dalle circostanze favorevoli, sta tutta la beffa e si rivela tutta la disonestà intellettuale del socialismo: che non sprona gli operai di fabbrica a divenire uomini, a rivendicare fin d’ora la loro dignità di esseri umani, il loro rifiuto del giogo servile, appunto perché, in realtà, quel che vogliono è di poter dirigere quelle masse abbrutite, continuando a far leva sui loro istinti gregari, sulla loro perdita di autonomia, dignità e capacità di discernimento dei loro veri interessi. Il socialismo non vuole incoraggiare gli operai a pensare con la loro testa: vuole inquadrarli, perché, per fare la "sua" rivoluzione, a nome delle masse sfruttate, ma, in effetti, per conto di se stesso (il tutto eufemisticamente denominato "dittatura del proletariati": oh, ma solo temporanea, si badi, e, in ogni caso, nell’interesse dei lavoratori!), non gli servono persone capaci di pensare, ma solo pecore pronte ad obbedire: ad obbedire, domani, ai leader rivoluzionari, così come oggi obbediscono agli ordini dei capisquadra e dei capireparto.

Quanto alla "proposta" che gli operai disertino in massa la vecchia Europa e che se ne vadano a colonizzare, avventurosamente ed eroicamente, le terre vergini degli altri continenti (una reminiscenza personale, quella della sorella Elisabeth e del cognato Bernhard Förster, emigrati nel Paraguay alla testa d’una colonia di tedeschi "ariani" e antisemiti?), essa può sembrare ultra-romantica e salgariana, nonché un po’ in odore di colonialismo e, forse, di razzismo; può ricordare il "White man’s burden" di Rudyard Kipling, la "missione di civiltà" dell’uomo bianco, facendo montare in furore la nostra cultura politicamente corretta, progressista, democratica ed egualitaria (anche se Nietzsche, subito dopo, e quasi per bilanciare la proposta "imperialista", auspica una contro-migrazione cinese in Europa e invita perfino gli Europei a "sinizzarsi", ossia a diventare più calmi, contemplativi, resistenti e "stabili"). Pure certi romanzi di Jack London, del "socialista" Jack London, facevano montare in furore i socialisti benpensanti e perfino certi suoi maldestri lettori e ammiratori (che non avevano capito nulla del suo messaggio), per esempio «Avventura», in cui non nascondeva il suo disprezzo per certe razze primitive, come i Melanesiani, e sosteneva il buon diritto dei bianchi a far fruttare quelle terre, altrimenti condannate all’abbandono e alla barbarie (e quanti sanno che dei socialisti ortodossi come Antonio Labriola esortavano l’Italia ad occupare Tripoli, dieci anni prima che Giolitti lo facesse davvero?). Tuttavia, a ben guardare, c’è poi tanta differenza fra quel che dice Nietzsche e quel che affermava Giovanni Pascoli, nel discorso sulla Grande Proletaria che si è mossa, ossia sull’invito ad un colonialismo proletario, che aprisse nuovi sbocchi e offrisse nuove opportunità di lavoro ai proletari?

Sempre inattuale, il buon vecchio Friedrich; sempre tremendamente scomodo, allora come oggi: impossibile manipolarlo a piacere (sebbene ci provino in così tanti, che lo si direbbe lo sport preferito dagli intellettuali di ogni possibile tendenza). Eppure la storia gli ha dato ragione: il ceto contadino ha dato all’Europa una civiltà millenaria; la classe operaia, che cosa ha dato, all’Europa e a se stessa? Non ha dato nemmeno una vera rivoluzione, perché tutte le "rivoluzioni" socialiste sono state, in realtà, delle controrivoluzioni: con lo Stato "rosso" al posto dei vecchi capitalisti-usurai…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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