
Che errore stuzzicare la malizia dei bambini. O forse è qualcosa di peggio?
30 Ottobre 2015
A quale genere di vita apparteneva la creatura «piovuta» ad Omsk una notte del 1927?
1 Novembre 2015È possibile affidare la politica a delle persone che ignorano completamente la scienza della politica, e che si limitano a gestire il potere come possono, meglio (o peggio) che possono, così, vivendo alla giornata, improvvisando, come dei dilettanti, senza un progetto coeso, senza una conoscenza specifica, senza un supporto concettuale rigoroso del loro agire e del loro operare?
Può sembrare una cosa impossibile e incredibile, eppure questa, a un dipresso, è la situazione nella quale attualmente ci troviamo: i politici del sistema democratico, nella sua versione plutocratica e demagogica, non si preoccupano minimamente di sapere cosa sia la scienza della politica; o, se si preferisce — non cambia poi molto, se si guarda alla sostanza delle cose: il concetto è quello — l’arte della politica (perché qualsiasi arte, dalla pittura alla poesia, dall’architettura alla musica, è anche una scienza); non la studiano, non la meditano, non si confrontano con essa: ritengono che sia una cosa riservata agli storici o ai filosofi della politica, e che non riguardi affatto loro, che si occupano di cose molto più serie e concrete: si occupano di governare.
Eppure, fin dai tempi di Francis Bacon, è ormai anche troppo chiaro che «sapere è potere»: da cui non deriva che si debba fare propria la filosofia, brutalmente strumentale e calcolante, di Bacone (noi, personalmente, crediamo l’esatto contrario), ma certamente implica che con questa realtà ci si debba confrontare: non si può fare finta che non esista, o che, quanto meno, non ne esista la possibilità. Sapere, in politica cos’ come nella scienza, è la possibilità di agire in maniera consapevole e adeguata: non obbligo di agore; soltanto possibilità. L’errore dei "baconiani", di ieri e di sempre, è proprio quello di confondere possibilità e necessità; e di dare per scontato che tutto ciò che può essere fatto, debba anche essere fatto.
Resta comunque il problema: chi non sa, non può nulla; ma chi sa, può, se lo ritiene giusto, se le circostanze lo esigono, se l’interesse generale lo richiede. Tale dovrebbe essere il compito della politica: agire in vista del pubblico bene; realizzare, per quanto possibile, la giustizia e la pace fra gli uomini. Tuttavia, perché ciò accada, o perché ciò sia realmente possibile, bisogna che i politici sappiano e possano: se sanno, ma non possono; o se possono, ma non sanno, là è tradita la politica, la funzione politica viene meno, si eclissa. E gli uomini sono abbandonati a se stessi. Peggio ancora: sono abbandonati, ma dormano sonni (più o meno) tranquilli, perché s’immaginano che chi deve agire, agisca, e agisca nella maniera appropriata ai loro interessi. Per cui la situazione odierna si può paragonare a una nave da crociera che se ne vada alla deriva, con il comandante, il pilota e tutto l’equipaggio impotenti, o ubriachi, o drogati; e con i passeggeri che, avendo pagato il biglietto, se ne stanno tranquilli e sereni, convinti di trovarsi in buone mani.
Come si è creata questa situazione, assurda e pericolosa? Per svariati motivi; ma due spiccano fra tutti: uno fisiologico, l’altro specifico. Il motivo fisiologico è che, nella democrazia moderna, dominata dai poteri occulti della finanza, il potere politico è svuotato e delegittimato alla radice: per cui i politici, tanto se sono al governo, quanto se sono all’opposizione, si limitano sostanzialmente a recitare un gioco delle parti, nel quale né gli uni, né gli altri, sono capaci di esercitare un potere effettivo: si limitano a fingere di averlo, mentre, in realtà, sono ridotti a prendere ordini da un potere che è al di sopra della politica, e che, se non si comportano secondo le intenzioni di chi li ha spinti nelle posizioni che occupano, li può sostituire in qualsiasi momento con dei burattini più docili. Il motivo specifico, invece, è che in una democrazia formale e demagogica, non solo non è necessario, ma non è nemmeno utile conoscere e applicare la scienza della politica.
In un sistema di democrazia formale e demagogica, dominato dai burattinai dell’alta finanza e della grande industria internazionale, quel che si chiede al politico-burattino è di dare l’impressione di accontentare l’elettore, facendo ogni sorta di promesse, minimizzando le difficoltà, nascondendo gli inconvenienti e i pericoli, assicurando il minimo dei sacrifici e dei doveri e garantendo, almeno a parole, il massimo dei diritti e dei vantaggi. Per esempio, si può promettere agli elettori che verrà abolita una certa tassa o una certa imposta; non importa se quella medesima tassa o quella stessa imposta verranno reintrodotte, di lì a poco tempo, sotto una formula diversa, designandole con un altro nome o con un’altra sigla: dal momento che ciò che conta non è la sostanza delle cose, ma la mera apparenza.
In queste condizioni, la scienza della politica non serve a nulla; per cui è inutile studiarla, ed è folle tentare di tradurne in pratica gli insegnamenti. Ecco perché la classe politica attuale, in Italia specialmente, ma un po’ ovunque nel mondo cosiddetto democratico – e, in realtà, plutocratico — è arrivata ad un punto quasi inverosimile d’ignoranza: non è certo la cultura ad essere richiesta agli uomini e alle donne i quali, oggi, imboccano le strade della politica. Non è che vogliamo idealizzare la vecchia classe politica, quella di una o due generazioni fa; sappiamo bene che aveva anch’essa i suoi limiti, a volte pesantissimi, tanto sul piano del condizionamento ideologico, quanto su quello del servilismo verso il proprio apparato, ed anche sul versante della corruzione. E tuttavia, nel complesso, era infinitamente migliore di quella attuale: perché essa era formata, in prevalenza, da persone che sapevano, anche se, di solito, non potevano; mentre ora è formata da persone che non sanno, non possono e nemmeno vogliono. Da persone giunte ai vertici del "potere" (o del simulacro del potere) attraverso ignobili intrallazzi e degradanti forme di prostituzione, anche di tipo sessuale, ma che brillano per la loro clamorosa, colossale, quasi inverosimile ignoranza.
Sarebbe interessante mettere un atlante geografico fra le mani di un rappresentante "medio" della classe politica attuale, e domandargli di trovare, entro un tempo ragionevole, questo o quello stato, questa o quella città, conosciuta a livello internazionale. Oppure rivolgergli qualche domanda, sia pure modesta e superficiale, sulla storia, anche recente, del nostro Paese (per non parlare dell’Europa o del mondo): crediamo che il risultato di una simile inchiesta sarebbe oltremodo scoraggiante. Ora, se questo avviene per la geografia e per la storia, figuriamoci per la scienza della politica. Perché essere capaci, occorrendo, di citare qualche nome, qualche fatterello, potrebbe anche rientrare nel copione del politico-burattino, servo e demagogo nello stesso tempo; ma la scienza della politica, a che cosa mai gli potrebbe servire? Forse a misurare la distanza abissale che si è spalancata fra ciò che la politica dovrebbe fare e dovrebbe essere, e quello che essa, effettivamente, fa, ed è?
Osservava, a questo proposito, già trentacinque anni or sono — perché non stiamo parlando di questioni che erano assolutamente imprevedibili, o che siano piovute dal pianeta Marte, ma di problematiche che erano prevedibilissime, e che avrebbero dovuto sospingere la politica stessa a cercare i possibili correttivi – il filosofo Giovanni Sartori (in: G. Sartori, «La politica. Logica e metodo delle scienze sociali», Milano, Sugarco Edizioni, 1979, pp. 184-5):
«Nelle scienze per antonomasia, chi ha in mano la teoria ha in mano anche la pratica. Non si può dire al fisico: tu studia l’atomo, a fare la bomba atomica ci penso io. Né si può dire al medico: tu scrivi i tuoi trattati, e a curare gli ammalati provvederà un altro. Cioè a dire, in moltissimi casi non c’è sdoppiamento tra chi sa e chi fa. Ma nel settore politico, chi ha in mano la teoria non ha in mano la pratica, e cioè il potere di applicarla. Se questa è una situazione anomala, non è del tutto ingiustificata. La differenza tra il caso della scienza politica, e quella delle altre scienze, ha una sua profonda ragion d’essere. Questa: che le altre scienze studiano come manipolare ‘cose’; laddove la scienza politica investe la manipolazione di ‘uomini’. Per la maggior parte delle altre scienze il problema è accertare fin dove il sapere ci consenta di arrivare. Per la scienza politica il problema è anche, e in più, di stabilire ‘quanto potere’ conviene attribuire a alcuni uomini. La perplessità è: è prudente dare il potere di ‘tradurre in pratica il sapere’?
Questa perplessità si riflette nella tesi di chi vede nello sdoppiamento tra lo scienziato della politica e il politico senza scienza, un modo di neutralizzare l’uno con l’altro. Gli si può dar torto? Se si pensa che il nostro sapere è giunto a un punto nel quale non è difficile attuare una ‘ingegneria dell’anima’, e se si considera che il problema è di attribuire ad alcuni uomini un potere che li metta in grado (volendo) di trattare altri uomini come ‘animali da vivisezione’, non sarò certo io a raccomandare imprudenze. Ma concedere che è prudente sdoppiare – in sede politica – il potere dal sapere, non equivale affatto a dire che chi ‘fa politica’ ha titolo per ignorare lo studioso del fare politica. Il politico ascolta, o quantomeno interpella, l’economista. Perché non interpella, o interpella assai meno, il politologo? Si risponderà che il primo è assai più avanti del secondo. Ma questa risposta non convince fino in fondo. Per poco avanti che sia, il politologo è sempre immensamente più avanti del politico. La risposta vera temo dunque che sia un’altra: che il guaio sta – quantomeno in casa nostra – in un diffuso, colossale, e davvero colpevole ‘analfabetismo politologico’. La nostra classe politica è davvero fatta, oramai, di animali antidiluviani, che sanno talmente poco, o talmente nulla, da non sapere nemmeno che la scienza politica esiste. Con questo, in breve, è detto tutto. Ed è anche detto con quale speranza (che è sempre l’ultima dea) questo corso viene pubblicato e ora si conclude: che la scienza politica, come qui tratteggiata, serva a educare persone serie e, per quanto possibile, addestrate ad affrontare i sempre più aggrovigliati problemi che ci stanno franando addosso: non soltanto, ma certo anche, per ignoranza, per sbagli a catena.
Se dunque, in Italia, è più esatto parlare di ‘inefficacia’ che non di efficacia della scienza politica, la colpa non è della scienza. Sarà anche una scienza gracile; ma il rimedio è nell’irrobustirla, non certo nell’ignorarla. UN SAPER PER APPLICARE PUR SEMPRE OCCORRE; e occorre sempre più.»
La domanda, giunti a questo punto della nostra riflessione, è e rimane sempre la stessa: in che modo si può uscire da una simile situazione?
Come si vede, ci troviamo in presenza di un circolo vizioso. La politica è degradata al ruolo di serva del potere finanziario; la scienza della politica insegna a governare secondo giustizia e nella ricerca del pubblico bene; dunque, se la politica non è più in grado di perseguire — tranne che a parole — la giustizia e il pubblico bene, allora nemmeno la scienza della politica serve più a qualcosa, e tanto vale che i politici continuino ad ignorarla. Dobbiamo allora rassegnarci a questa ignoranza, a questa impotenza, a questa spiacevole commedia, cui si è ridotta la funzione politica?
Noi non lo crediamo. È proprio sulla stanchezza, sullo scoraggiamento e sulla rassegnazione che contano i veri padroni della politica: i detentori di uno smisurato, abnorme, delirante potere finanziario, fatto in gran parte di cambiali inesigibili e fondato su quantità di denaro inesistente. Questo potere è abbastanza folle e abbastanza cinico da non escludere alcuna "soluzione" al corto circuito che la sua stessa preponderanza ha provocato: ivi compresa l’opzione militare globale, ossia la terza guerra mondiale. Quella dopo la quale gli esseri umani, o quelli che di loro esisteranno ancora, ricominceranno a combattersi non più con le bombe all’idrogeno o con le armi chimiche e batteriologiche, ma, al massimo, a colpi di clava.
La nostra reazione, allora, deve partire da un soprassalto di consapevolezza, da una riassunzione di responsabilità. Una volta accettato lo schema democratico, bisogna riscoprire l’importanza del dovere civico, mentre, finora, ci siamo trastullati quasi esclusivamente con la rivendicazione dei diritti, sempre più azzardati, sempre più artificiali, sempre più divisivi. Non esiste democrazia senza assunzione di responsabilità — e di sacrificio, anche personale – da parte di tutti e di ciascuno: nell’Ancien régime bastava che al governo pensassero in pochi, il sovrano e i suoi ministri; ora devono pensarci tutti, però in maniera cosciente e costruttiva.
La scienza della politica deve tornare all’ordine del giorno: deve entrare a far parte della formazione culturale del cittadino. Solo così, diffondendola fra la gente, anche i politici si sentiranno obbligati a conoscerla, a studiarla, a cercare di applicarla. Questo li metterà in rotta di collisione con il potere finanziario: tanto meglio. Esso è un cancro che va affrontato e, per quanto doloro sia, estirpato. Forse è già tardi; forse è sopravvenuta la metastasi. Ma bisogna tentare, finché c’è una possibilità…
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