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L’Impero ottomano è decaduto perché privo di un’idea e di un’etica

L’Impero ottomano ha conosciuto una fase di rapida ascesa, una stagione di splendore anche’essa relativamente breve, e poi dei lunghi secoli di decadenza: una decadenza così lunga e sfibrante che, a partire dall’inizio del XIX secolo, esso era noto alla diplomazia internazionale come "il grande malato d’Europa", e tale rimase fino alla sua ingloriosa caduta, come effetto della Prima guerra mondiale.

Ora, mentre quasi tutti gli storici non sono più disposti a considerare, come lo pensavano Gibbon o Montesquieu, che quella dell’Impero bizantino sia stata solo una continua, incessante, millenaria storia di decadenza, nel caso dell’Impero ottomano si farebbe fatica a trovare più di un pugno di storici disposti a negare che gran parte della vicenda dell’Impero ottomano e della civiltà turca non siano state altro che una lunghissima e sempre più accentuata decadenza.

L’Impero ottomano, dopo che Maometto II ebbe conquistato Costantinopoli e i Balcani, e dopo aver minacciato il cuore dell’Europa sia dal mare che da terra, già a partire dal XVI secolo era avviato sulla strada della decadenza: incapace di rinnovarsi, di dotarsi di una sua scienza e di una sua tecnica, di sviluppare una sua industria, di incoraggiare la formazione di una classe media capace di soddisfare la domanda interna e di ingaggiare una concorrenza con l’esterno, nonché di creare una classe di governo tratta dalla stessa dinastia regnante. Mentre, in Europa, i Borboni, gli Asburgo, gli Stuart, gli Hannover, gli Hohenzollern, i Romanov, i Savoia, davano ai rispettivi Paesi non solo i sovrani, ma anche i principi del sangue, ammiragli e generali di prim’ordine, in Turchia i parenti stretti del sultano venivano barbaramente assassinati per prevenire possibili congiure di palazzo e, con ciò, i sovrani ottomani si trovavano a regnare in una assoluta, disumana solitudine, circondati solo da eunuchi, giannizzeri e da gran visir che dovevano risponde con la loro testa di ogni eventuale insuccesso (come accadde a Kara Mustafà dopo la sconfitta nella battaglia sotto le mura di Vienna del 1683).

Essi regnavano con il terrore, ma non appresero mai il vero segreto del governo: quello di farsi amare dai sudditi e di sviluppare delle forze sociali sulle quali la monarchia potesse poggiare il proprio potere. Se i Turchi ottomani si fossero trovati nelle condizioni di Venezia, a dover lottare, cioè, contro un nemico cento volte più potente, il loro impero sarebbe andato in briciole nel giro di qualche decennio: la loro fortuna fu quella di aver a che fare con degli stati cristiani divisi e perennemente discordi. Sarebbe bastata una lega fra l’Ungheria, i regni balcanici e Venezia, e la marcia trionfale della Mezzaluna si sarebbe infranta già nel XV secolo. Pur così disuniti com’erano, i piccoli regni e principati cristiani dell’area carpatico-danubiana riuscirono a tenere in scacco gli Ottomani piuttosto a lungo. Il principe di Valacchia, Vlad Tepes, sconfisse più volte gli eserciti del sultano e si divertì a far impalare migliaia di prigionieri turchi. Il sovrano ungherese Mattia Corvino non solo li tenne a bada, ma donò alla sua patria una stagione gloriosa, sia sotto il profilo politico e militare che artistico e culturale. Nella piccola Albania, Giorgio Castriota, detto Scanderbeg, umiliò più volte l’arroganza ottomana, facendo mordere la polvere ai suoi "invincibili" guerrieri. Il generale veneziano Marcantonio Bragadin, a Cipro, tenne a bada una marea turca, sotto le mura di Famagosta, con un pugno di difensori, prima di dover cedere e venire catturato e massacrato a tradimento; così come un pugno di navi e di soldati genovesi e veneziani erano stati sufficienti a ritardare la caduta dell’ormai indifesa Costantinopoli per diversi anni. C’è da chiedersi cosa avrebbe potuto fare l’imperatore Costantino XI Paleologo, se avesse potuto disporre d’un vero esercito.

Questo, sul piano strettamente militare. Sul piano economico e tecnologico, l’Impero ottomano visse come una gigantesca caserma, senza incentivare i mercanti e i produttori, senza promuovere una classe di liberi agricoltori che, oltre a pagare le tasse, fossero cointeressati nella difesa dell’Impero. Questo perché i sultani non sapevano concepire la propria politica se non in termini di guerra permanente: eredi di una tradizione di nomadi guerrieri, per più di sei secoli essi non fecero altro che organizzare guerre di conquista, senza farsi amare dai popoli conquistati, e soddisfacendo i bisogni dell’erario con sempre nuove campagne e sempre nuovi saccheggi: una specie di razzia sistematica e pianificata. Ma quando il sultano Bajazet I si trovò a dover affrontare, ad armi pari, dei guerrieri nati come loro, i turco-mongoli di Tamerlano, che, come loro, concepivano la politica come guerra e conquista incessante, furono clamorosamente disfatti nella battaglia di Ancyra del 1402; i vincitori invasero l’Asia Minore, presero e incendiarono la capitale, Bursa, e catturarono perfino l’harem del sultano.

Sorge la domanda se un simile stato, un simile impero, non si sia precocemente avviato sulla strada della decadenza proprio a causa della sua mancanza di tensione etica. Ogni grande compagine politica nasce e si sviluppa all’ombra di una grande idea: per l’Impero di Alessandro Magno, quell’idea fu l’ellenismo, la fusione della cultura greca con quella asiatica; per l’Impero romano, il diritto, la certezza e la sacralità della legge e il privilegio della cittadinanza, che fu estesa, sotto Caracalla, a tutti gli abitanti dell’immenso stato; per l’Impero carolingio, l’ambizione di far rivivere la gloria dell’Impero romano, questa volta non su scala mediterranea, ma centro-europea, e sotto l’egida della religione cristiana. Ma qual era l’idea che stava alla base dell’Impero ottomano? Non c’era nessuna grande idea: solo la brama di conquiste e la folle ambizione dei sultani, il loro cieco delirio di onnipotenza, sostenuto dal fanatismo religioso. Per questo i Turchi furono battuti sotto le mura di Vienna, pur avendo un esercito tre o quattro volte più numeroso di quello cristiano, e per questo gli ulani di Giovanni Sobieski lo fecero a pezzi a sciabolate: perché quell’orda di fanatici guerrieri musulmani non era sorretta da alcuna idea veramente grande. La scimitarra non è un’idea, come non lo è il feroce prelievo fiscale a danno dei popoli vinti e sottomessi.

Ci sembrano degne di riflessione, al riguardo, le osservazioni svolte dal saggista Alberto Leoni nella sua pregevole monografia «La Croce e la Mezzaluna. Le guerre tra le nazioni cristiane e l’Islam» (Milano, Edizioni Ares, 2002, pp. 211-3):

«… In buona sostanza, il sistema ottomano fu schiacciato sotto il peso di una sostanziale immoralità nei fini e nei modi che traeva origine dai costumi dei ghazi, i predoni al servizio dell’Islam. Il tradizionale soddisfacimento dei bisogni primordiali aveva portato i turchi a razziare l’intera Europa, privandola di donne e di ragazzi, destinati all’harem e ai reggimenti di giannizzeri con effetti, alla lunga, perversi: una schiava come la russa Roxelana esercitò un’influenza nefasta sull’ormai anziano imperatore, spingendolo a sopprimere i successori più dotati, come il prode Mustafà, per far posto a suo figlio, Selim II, denominato l’Ubriacone. I giannizzeri divennero a mano a mano più numerosi e potenti, estorcendo sempre maggiori concessioni a sultani sempre più deboli. L’usanza, divenuta poi legge, di far strangolare tutti i possibili eredi al trono una volta nominato il nuovo sultano, non esprimeva soltanto un atto barbarico legalizzato unico nella storia: era la rinuncia ottusa alla costituzione di una classe nobiliare principesca che assumesse compiti di comando, come nel caso di don Giovanni d’Austria. lo stesso rapporto tra il sultano, unico signore, e una massa più o meno distinta di nobili servi e di miseri schiavi, aveva impedito la formazione di quei corpi intermedi quali furono l’aristocrazia e la borghesia europee, artefici, insieme ai chierici, della moderna società occidentale. L’amore per la guerra, radicato nella cultura ottomana, aveva portato tutta la struttura statale a privilegiare obiettivi immediati, piuttosto che quelli di lungo periodo. Mentre l’Europa cristiana progrediva incessantemente, pur fra guerre tremende, o nel caos politico e religioso, investendo risorse in arte, scienza e tecnica, i turchi si accontentavano di ingaggiare i tecnici europei senza sviluppare una loro tecnologia o un proprio abbozzo di industria nazionale. "Le galee del sultano erano progettate e costruite da maestri d’ascia, molti dei quali avevano imparato il mestiere all’arsenale di Venezia. I migliori cannoni turchi erano gettati da fonditori immigrati; il legno di tasso per gli elaborati archi proveniva dalla Germania meridionale; i lunghi remi per muovere le galee corsare erano contrabbandati da Marsiglia via Algeri." (Jack Beeching, "La battaglia di Lepanto", Rusconi, 1989, p. 43). Se è vero che i turchi mostrarono una estrema duttilità nell’applicare i precetti del Corano e furono perciò molto più aperti alle novità del resto del mondo islamico, è pur sempre innegabile che la propria tradizione militare e culturale era più rigida di qualsiasi religione. I giannizzeri, inoltre, erano refrattari a combattere come gli europei, in modo meno eroico ma più organizzato, e la cavalleria timariota continuava a costituire la maggior parte dell’esercito campale, con tutti i problemi relativi alla cura dei cavalli e alla dipendenza dalla bella stagione per lo svolgimento delle campagne militari. Come si è già notato, le offensive turche non venivano proseguite nei mesi invernali per evidenti problemi logistici.»

Aveva dunque torto Machiavelli, quando teorizzava la netta, radicale separazione fra l’etica e la politica e riservava a quest’ultima la più assoluta libertà d’azione, purché fosse accorta e spietata nella gestione del potere, forte come il leone e astuta come la volpe? I sultani turchi ebbero sia la forza che l’astuzia, ma ciò non valse a far sì che il loro impero affondasse delle solide radici nelle terre e fra i popoli via via conquistati. Solo le popolazioni musulmane gli erano favorevoli, ma, alla lunga, anche una gran parte di esse — quelle di stirpe persiana e quelle di stirpe araba — finirono per stancarsene e per unirsi ai suoi nemici. Le popolazioni cristiane — gli Armeni, i Greci, i Bulgari, i Serbi – lo subirono e lo sopportarono, finché ebbero il suo giogo implacabile sul collo; quando si offrì loro una sia pur minima occasione di scuoterlo, tentarono di farlo, a prezzo di qualunque sacrificio e di ad onta di qualsiasi repressione.

Dobbiamo concludere che la moralità, dopo tutto, è un elemento decisivo nella vita politica, almeno quando si tratta di costruire un grande progetto, che vorrebbe sfidare i secoli? Anche se la storiografia più recente vorrebbe convincerci che una simile idea equivarrebbe a ricadere nelle tenebre del Medio Evo, parecchi indizi paiono suggerire una risposta affermativa. Nessuna grande politica può reggersi soltanto sulla forza o sull’astuzia. Una grande politica ha bisogno sia di grandi idee, sia di forze produttive adeguate, ossia di una classe dirigente degna di questo nome. Un sultano che governa dal chiuso del suo palazzo, circondato da vili cortigiani e immerso nella lussuria del suo harem, e che sa soltanto far strangolare i parenti stretti e tagliare la testa ai suoi generali sconfitti, non può essere un vero protagonista della politica, perché resta soltanto un piccolo despota, vizioso e crudele, incapace di utilizzare il suo immenso potere per degli scopi che non siamo miopi e sostanzialmente meschini.

I sultani turchi poco si curavano dell’arte, della scienza, del progresso; per tutto quel che superava le normali necessità di un popolo di pastori semi-nomadi e di un esercito di razziatori e di predoni, dovevano rivolgesi proprio al nemico cristiano, Fu un rinnegato cristiano a costruire per Maometto II il gigantesco cannone che aprì la breccia fatale nelle mura di Costantinopoli, nel 1453. Da sé soli, i Turchi non sapevano costruire né le navi, né le artiglierie onde affrontare degli eserciti organizzati, così come le loro stamperie non pubblicarono dei libri profani d’alcun genere fino al XVIII secolo inoltrato, e così come il loro sviluppo industriale fu quasi inesistente e le loro finanze, a partire dal XIX secolo, destinate a cadere nelle mani delle potenze straniere.

La verità è che nessuna forza politica può svolgere un ruolo importante nella storia se non supera l’orizzonte ristretto e la mentalità rozza ed egoistica proprie del despota conquistatore. Il Reich "millenario" durò appena dodici anni perché i suoi capi non seppero perseguire una grande politica, di ampio respiro; non seppero coinvolgere i popoli conquistati in un disegno più vasto, anzi, fecero quasi tutto quel che stava in loro per suscitare contro di sé lo sdegno e la rivolta dei vinti. Machiavelli, forse, aveva torto: senza un’etica, la politica è destinata a crollare. Nessun principe, per quanto abile e potente, può compensare un deficit di tipo ideale.

L’Impero ottomano fu, appunto, questo: un grande corpo senza un’idea e senza un’etica; un esercito che non serviva alcuna causa più vasta dell’ambizione del sultano; e uno stato che viveva in gran parte di sfruttamento e di rapina. Troppo poco, anche se aveva la forza. Gli mancava un’anima…

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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