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Esiste una responsabilità in amore o l’amore giustifica tutto, anche il dolore altrui?

In amore è tutto lecito e tutto permesso, purché si seguano le proprie naturali inclinazioni, oppure esistono dei limiti, delle precise responsabilità morali, dei doveri da rispettare comunque nei confronti dell’altro, anche quando — vorremmo dire: specialmente quando — smettiamo di amarlo, ma lui continua ad amare noi?

La domanda sorge spontanea, osservando il comportamento sessuale d’innumerevoli persone, le quali passano da un "innamoramento" a un altro con la massima disinvoltura e che, ogni volta, appunto in nome di Sua Maestà l’Amore, non si fanno il minimo scrupolo a scaricare il precedente oggetto d’amore, ormai logoro e inservibile, per correre dietro a quello nuovo, ancora adorno di tutte le sue seducenti promesse.

Se, poi, qualcuno osa rimproverare a uno di codesti uomini o di codeste donne, la sconvenienza, l’irresponsabilità e la crudeltà del loro modo di agire, e la deplorevole indifferenza che mostrano verso la sofferenza causata alla persona abbandonata, sovente le si vede insorgere con una sorta di sacra indignazione e affermare, con la massima serietà e quasi con compunzione, che l’amore è misura a se stesso e che nessuno può mettergli il guinzaglio o la museruola; e che molto peggiore di qualunque sofferenza eventualmente inflitta al proprio ex innamorato (o ex innamorata) sarebbe macchiarsi dell’orribile colpa dell’ipocrisia, della falsità, della finzione.

A dire il vero, nessuno pensa seriamente che, per evitare la sofferenza della persona amata, o amata fino a ieri, la si debba ingannare, e sia pure a fin di bene; si tratta, semmai, di ridurre al minimo, per quanto possibile, la sofferenza dell’abbandono dell’altro, cercando di medicarla con il balsamo dell’affetto, della stima, dell’amicizia e della rassicurazione sul suo valore (perché una delle conseguenze più gravi dell’abbandono, specie se brusco e incomprensibile è, di solito, la perdita della fiducia in sé). Non solo di questo, però: si tratta anche, e soprattutto, della necessità – e del dovere – di interrogarsi sulla instabilità e precarietà dei propri stati emotivi e affettivi, generatrice di confusione anche per gli altri.

Come si fa ad essere innamorati il lunedì, e disamorati la domenica successiva? E come è possibile, amando una persona, o credendo di amarla, innamorarsi, subito dopo, di un’altra persona, guarda caso quasi sempre più giovane, più bella, più attraente? Il problema, forse, è l’analfabetismo dei propri sentimenti: il fatto di scambiare per "amore" una banale infatuazione superficiale, e di non saperla riconoscere come tale, ma sentirla, pensarla ed esternarla come un grande, impareggiabile sentimento: per poi gettarla via, come un vestito vecchio e ormai inutile, nello spazio di pochi giorni, o settimane, o mesi. Non è una questione di moralismo: se due persone, sufficientemente mature e responsabili, decidono di intraprendere un gioco sessuale, sono liberissime di farlo; ma se lo chiamano "amore", se lo vivono come "amore", e se adoperano, nei loro abbandoni e nelle loro estasi, il linguaggio dell’amore, che è fatto di dichiarazioni solenni, di promesse indefettibili, di appuntamenti con l’eternità, o giù di lì, allora le cose cambiano: perché il gioco rischia di diventare crudele, e di produrre enormi sofferenze, con degli esiti imprevedibili.

La civiltà moderna si caratterizza, quanto alle relazioni interpersonali, come una miscela di sfrenato edonismo e di una "cultura" dei diritti a senso unico (cioè senza corrispondenti doveri): e ciò ha condotto ad una vera e propria deresponsabilizzazione della vita sentimentale e affettiva, e ad un vero e proprio imbarbarimento dei comportamenti erotici e sessuali. L’uomo e la donna sono diventati cacciatori compulsivi di piaceri carnali e di emozioni forti, l’uno a spese dell’altra, senza complicità, senza tenerezza, senza rispetto personale: l’altro è divenuto, nello stesso tempo, preda e strumento di piacere, mezzo da sfruttare come oggetto sessuale e, poi, da abbandonare come un giocattolo divenuto inutile, all’approssimarsi di una nuova preda, di una nuova avventura e di una nuova occasione di piacere e di emozioni forti.

Gli individui sono divenuti intercambiabili, l’unica legge universalmente valida e riconosciuta è quella dell’edonismo narcisista e maligno: va bene quel che mi piace, bisogna evitare in qualunque modo ciò che non piace più, anche se piaceva fino a ieri. Ma "ieri", nella cultura dei consumi di massa, è pari ad un secolo fa: non bisogna mai parlare del passato, il passato è passato e non c’è differenza fra una dichiarazione o una promessa fatta ventiquattro ore prima ed una che era stata pronunciata dieci, venti o trenta anni fa. Amare, secondo questa filosofia, significa sempre e solo guardare avanti, senza voltarsi mai.

Ci piace, a questo punto, riportare il punto di vista del sociologo Francesco Alberoni (da: F. Alberoni, «Ti amo», Milano, 1996, pp. 80-82):

«Il mondo antico aveva rigide regole morali nel campo dell’erotismo e dell’amore. Proibiva l’incesto, stabiliva impegni matrimoniali, condannava l’adulterio, la rottura della promessa di matrimonio, stabiliva l’obbligo di sposare la ragazza rimasta incinta. Queste regole sono invecchiate e perdono ogni giorno di importanza. Le relazioni erotiche e amorose vengono sempre più lasciate alla libera espressioni individuale, alla preferenza, al piacere. Lo vediamo fra gli adolescenti. Se un ragazzo si incapriccia di una ragazza più bella, non si pone problemi nel lasciare quella precedente. Se una ragazza incontra un altro che le piace di più, lo comunica al suo ragazzo abituale. E se quello continua ad amarla, se soffre, se si suicida? Sono problemi suoi. Nel campo amoroso il soggetto non si sente responsabile di ciò che sente o fa l’altro.

Questo tipo di comportamenti adolescenziali si stanno estendendo alla vita adulta. La morale propugnata dai "serial" televisivi e dalle telenovele sostiene con chiarezza che l’unica forza che tiene unito il matrimonio è l’amore. L’amore giustifica tutto. La nuova morale ha un solo comandamento: "va’ dove ti porta il cuore". Se qualcuno non ama più, se è preso da collera e da odio, va senza voltarsi ad osservare il dolore e la devastazione che ha lasciato dietro di sé. Il risultato è che, nella vita reale, il mondo dell’amore e dell’erotismo sono sempre più dominati dalla logica della preferenza e della sopraffazione. Prendiamo il caso di una donna che ha aiutato il marito a fare carriera, che gli ha dato dei figli e lo ama teneramente. Lui si innamora di una ragazza più giovane e la sposa. La donna incomincia a bere e, alcuni anni dopo, muore di cirrosi epatica. L’ex marito non si considera moralmente responsabile di questa morte. Prendiamo un altro caso: un uomo di sessant’anni ha un dissesto finanziario, si ammala e allora la donna che vive con lui lo lascia. Lui muore di infarto. Anche in questo caso lei non si considera minimamente colpevole visto che non lo amava più. Ma tutto questo è giusto?

Ovviamente non c’è nessun contratto, nessuna legge morale che possa imporci di amare una persona che non amiamo. Ma da questo non deriva automaticamente che noi non siamo responsabili delle conseguenze provocate dalle nostre azioni. Farlo significa violare i principi morali fondamentali della nostra civiltà: il comandamento biblico di non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, l’insegnamento di Kant di agire in base alla massima che vorremmo veder applicata da tutti, l’etica della responsabilità di Max Weber. Noi siamo sempre responsabili del male che provochiamo agli altri e dobbiamo cercare di ridurlo al minimo. Se è vero che non possiamo obbligarci ad amare chi non amiamo, è altrettanto vero che possiamo agire con prudenza, trattarlo con gentilezza, aiutarlo nel bisogno, rispettare la sua dignità e il suo valore.

Molti sostengono che all’amore non si comanda. Dipende da che tipo di amore. Molti grandi amori sono solo cotte, capricci, infatuazioni passeggere. Perfino il vero innamoramento comincia sempre con esplorazioni e, per svilupparsi, ha bisogno del nostro assenso, della nostra complicità. Cosa dire poi delle falsità, dell’egoismo, delle cattiverie, fatte in nome dell’amore? Quando c’è di mezzo l’amore, dobbiamo giustificare tutte le turpitudini? Invece oggi un grandissimo numero di persone ritiene che andare dove le porta il cuore sia sempre giusto, sempre legittimo. E si indignano a sentir parlare di responsabilità.»

Parole e concetti condivisibili; con una sola osservazioni supplementare: che, quando venivano espressi, il panorama complessivo della società italiana, e non solo italiana, era ancora, in qualche misura, legato alla tradizione, cosa che oggi è definitivamente tramontata. Per esempio, Alberoni parla dell’amore che è ha comunque, quale punto di riferimento sociale, il matrimonio e la formazione della famiglia (e sia pure come modello negativo, almeno secondo il modo di vedere di taluni soggetti); mentre oggi le persone che pensano all’amore in questi termini sono diventate una piccolissima minoranza. Da quando quelle parole furono scritte, vent’anni or sono, moltissima acqua è passata sotto i ponti: gli ultimi vent’anni sono stati l’equivalente di due secoli, o anche più, sulla scala della società pre-moderna. Oggi quasi nessuno si sposa più; e sono pochissime le donne che sognano l’amore come vita stabile di coppia e come formazione di una famiglia, ossia con la ricerca prioritaria delle gioie (e delle responsabilità) della maternità.

La precarietà, l’insicurezza, il carattere aleatorio dei sentimenti, dei legami, degli impegni (ammesso che, di questi ultimi, qualcuno abbia ancora voglia di parlare) sono aumentate a dismisura: si direbbe che non vi sia più nulla di certo e sicuro, se non l’incertezza e l’insicurezza; e che l’unico atteggiamento ragionevole, anche in campo sentimentale — come in tutto il resto — sia un relativismo assoluto, confinante sovente col cinismo, unica arma difensiva (e offensiva) in quella foresta inquietante che è divenuta la società odierna. Una foresta a paragone della quale la foresta amazzonica, popolata da giaguari, serpenti e coccodrilli, sembra quasi il Paradiso terrestre: perché in essa, almeno, si sa, più o meno, chi è amico e chi nemico; mentre nella società odierna, ove un po’ tutti sono portati a fingere e a mentire — a scopo difensivo, dicono — è impossibile fare questa distinzione con prontezza, e succede che le peggiori ferite, le più dolorose, vengono proprio da parte di colui, o di colei, di cui ci si era maggiormente fidati. Per cui ciascuno, dopo tre o quattro esperienze del genere, finisce per costruirsi la propria personale filosofia del deserto: la vita è un deserto ove ciascuno è solo e deve contare esclusiva mene su se stesso, mentre fidarsi di qualcuno è un peccato d’ingenuità che si finisce per pagare carissimo, e forse è qualcosa di peggio: un atto di debolezza che "merita" la più severa punizione.

La vecchia massima del trattare gli altri come si vorrebbe essere trattati, e di non fare agli altri quel che non si vorrebbe ricevere, sembra essere caduta nell’oblio, sostituita da nuove massime, più pragmatiche, forse brutali, ma certamente più realistiche ed efficaci. Perciò, se qualcuno cade sul terreno dell’amore e ne esce con il cuore spezzato (come si diceva una volta: ma il concetto, se non l’espressione, è sempre attuale), con la vita segnata, con l’anima distrutta, a chi può importare? Avrebbe dovuto imparare a stare al mondo: non è stata colpa di nessuno. Vuol dire che se ne andava in giro ad occhi chiusi: logico che uno così sia destinato a finire, prima o poi, sotto le ruote di una macchina. Ed ecco perché colui, o colei, che gli ha spezzato il cuore, ingannandolo, seducendolo e poi gettandolo via come uno straccio, non si sente minimamente in colpa: ci si può sentire in colpa nei confronti di chi si è comportato come si comportano i pazzi e gli ubriachi? Se capita loro una disgrazia, lo sanno tutti che la colpa non è dell’automobilista che li ha investiti. La colpa è loro e solamente loro: avrebbero dovuto stare più attenti e pensarci prima.

Le cose, invece, dal punto di vista morale, non stanno affatto così: e se anche il mondo intero affermasse che, in amore, nessuno è responsabile di niente, la cosa non diventerebbe vera per il fatto di godere dell’unanimità dei pareri: pareri non credibili, perché direttamente interessati. Ecco il conflitto d’interesse, in cui tutti quanti, oggi, ci troviamo intrappolati. Coloro che hanno interesse ad assolversi, sono chiamati a giudicare se stessi e il proprio modo d’agire: è evidente che si auto-assolveranno. Ciò accade perché la società odierna ha proclamato il relativismo e il soggettivismo etico come la dottrina ufficiale del Pensiero Unico. Ma è evidente che una società, su queste basi, non potrà mai funzionare; e che i singoli individui si faranno l’un l’altro, ogni giorno, tutto il male possibile. Come se ne esce? Rifiutando la comoda dottrina della coscienza individuale sovrana, e tornando alla sana dottrina di ieri e di sempre: che invita a vedere, nell’altro, il volto stesso di Dio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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