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15 Ottobre 2015
Quanti futuri esistono?
16 Ottobre 2015I bambini vivono in un mondo che non è il nostro mondo; benché noi adulti, appunto in quanto adulti, riteniamo di disporre degli strumenti concettuali per comprendere anche quel mondo, mentre siamo profondamente convinti che i bambini non dispongano ancora degli strumenti per arrivare a comprendere il nostro.
Che le cose stiano altrimenti; che gli adulti abbiano completamente scordato, nella quasi totalità dei casi, il mondo della loro infanzia, e che il possesso di una logica concettuale e di una maggiore esperienza di vita pratica non bastino affatto a garantire loro una vera comprensione del mondo dell’infanzia, questa è una cosa che pochi adulti sono disposti a prendere in considerazione, e meno ancora sono disposti ad accettare.
Eppure è così.
L’infanzia è un mondo competo e definito in se stesso: non è, semplicemente, una introduzione, o un preambolo, al mondo della vita adulta; è un’altra cosa, una cosa che l’adulto non ha le parole per descrivere, né i concetti per comprendere, nonostante il fatto che egli vi sia passato. Ma forse non è esatto dire che vi sia passato: forse è più giusto dire che l’infanzia finisce insieme all’io bambino; quando si afferma l’io adulto, l’infanzia è non solo finita, ma anche dimenticata: e l’io adulto non sa più niente di essa, ha dimenticato completamente ciò che essa era, è ansioso di costruirsi un altro piano di consapevolezza, di esplorare nuovi orizzonti conoscitivi e affettivi, completamente diversi da quelli dell’infanzia. È un processo naturale, e guai se così non fosse; nondimeno, è un peccato che, in questo modo, vada smarrito, per sempre, quasi tutto ciò che l’io bambino ha vissuto, ha veduto, ha imparato: e che quel poco che, per avventura, ne sopravvive, venga rimosso quasi con un senso di vergogna, perché, nell’adolescenza, non c’è niente di peggio che sentirsi ancora bambini ed essere trattati come tali: così grande è l’impazienza di essere ammessi nel club degli adulti — o, almeno, dei quella particolare categoria di adulti che sono i giovani (cioè degli adulti che, magicamente, non invecchiano, o sembrano destinati a non invecchiare mai).
I bambini, dunque, non sono degli adulti in potenza, degli adulti più piccoli, non ancora cresciuti; sono tutt’altra cosa dagli adulti, che sentono, pensano, sognano, amano e sperano e credono e odiano, in maniera radicalmente diversa da quella degli adulti. Essi credono perfettamente possibili delle cose, che per l’adulto non lo sono: e ciò per la buona ragione che ritengono il mondo assai più grande, più misterioso e più affascinante di come lo vede l’adulto: come il regno del possibile, dell’infinitamente possibile. In quel mondo i confini sono estremamente labili, sfumati, quasi evanescenti: tra passato e futuro, fra vero e falso, fra buono e cattivo, fra vita e morte: in qualsiasi momento, come ad un colpo di bacchetta magica, possono aprirsi i cancelli del sogno, e lasciare che la realtà altra irrompa nella vita di ogni giorno.
Ne abbiamo già parlato: i bambini vedono cose che noi non vediamo; odono parole che noni non sentiamo; percepiscono presenze che sfuggono ai nostri sensi (cfr. il nostro articolo: «I bambini vedono cose che noi non vediamo», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 25/05/2007; ripubblicato recentemente su «Il Corriere delle Regioni»). Senza dubbio, molte creature leggendarie, di cui parlano le tradizioni popolari delle culture pre-moderne, hanno questa origine: il che non significa che si tratti, per forza di cose, di racconti destituiti di ogni fondamento; al contrario: essi sono più che fondati, solo che sono fondati sopra un piano di percezione e di esperienza completamente diverso da quello dell’età adulta.
Accade che le esperienze straordinarie dei bambini lascino una impronta talmente forte, da non scomparire mai del tutto nel corso dell’età adulta, anzi, da segnalarla in maniera inequivocabile, nel bene o nel male, come un bagaglio unico e ineliminabile: ed è il caso, specialmente, di sensitivi, poeti e artisti; di persone, cioè, che conservano, anche da adulte, un altissimo grado di creatività e immaginazione, e che non sono disposte a relegare la sfera della fantasia fra le vecchie cose inutili, da riporre in qualche polverosa soffitta.
Il problema è che l’io adulto, nella stragrande maggioranza dei casi, pur avendo conservato un vivissimo ricordo di quelle esperienze, come accade al risveglio da un sogno eccezionalmente intenso, che stenta a dileguare nella coscienza – ciò che in genere avviene per i sogni -, non sa poi come debba interpretare il suo significato; anzi, per dirla tutta, non sa neppure quale grado di veridicità debba attribuire all’esperienza stessa, esattamente come avviene quando si deve giudicare qualcosa che riguardi la vita di un’altra persona. E, di fatto, è proprio questa la situazione in cui si trova: perché, come già abbiamo detto, l’io adulto non conserva un vero rapporto biografico con l’io bambino di un tempo passato: è come se fossero due coscienze totalmente distinte, che non sono più neppure lontane parenti.
In altre parole: se noi, da adulti, abbiamo conservato un ricordo assai vivo di un certo fatto, di una certa esperienza, rimasti, però, in una sfera irrisolta e misteriosa, ove neppure allora siamo stati in grado di capire quale grado di realtà avessero effettivamente: come potremo, adesso, assumere quella decisione, e stabilire, in maniera certa e definitiva, che si trattò di semplici fantasie, oppure di eventi reali, e viceversa? Come possiamo farlo proprio adesso, allorché abbiamo smarrito la bussola fondamentale dell’infanzia: quella istintiva capacità di sentire, più che di comprendere col ragionamento, se una cosa era vera o se era soltanto il frutto della nostra immaginazione, o magari la deformazione, ampliata e arricchita, di qualche racconto che avevamo udito?
Prendiamo il caso di un famoso scrittore il quale, a un certo punto, ci parli di un qualche fatto della sua infanzia, o della sua adolescenza, da cui la sua personalità è rimasta profondamente segnata, e che ha conservato, per lui, un significato misterioso, forse decisivo, che, però, non è mai riuscito a chiarire a se stesso, a svelare, a spiegare: ed ecco che avremo una pagina della biografia dello scrittore statunitense, poi naturalizzato cittadino britannico, Henry James (nato a New York il 15 aprile 1843 e morto a Londra il 28 febbraio del 1916, in piena Prima guerra mondiale, con gli Zeppelin tedeschi che sganciavano le loro bombe dai cieli della capitale inglese).
Si tratta di un paio di episodi alquanto suggestivi, anche se, in fondo, non particolarmente spettacolari; due episodi che fanno venire in mente altri episodi, ancor più sorprendenti, accaduti nell’infanzia di un’altra futura scrittrice, anche se di tutt’altra levatura: Wanda von Sacher-Masoch, moglie del celebre scrittore austriaco-galiziano Leopold von Sacher-Masoch (in particolare, l’apparizione di una creatura luminosa, simile a un angelo, nella sua stanza da letto, che la fissò con sguardo penetrante e allusivo, e poi scomparve, così com’era venuta).
Ha scritto in proposito Guido Fink, anglista goriziano specializzato nella letteratura degli Stati Uniti, Paese ove ha insegnato per alcuni anni, nella nota introduttiva bio-bibliografica a «Ritratto di signora» di Henry James (titolo originale: «The Portrait of a Lady», pubblicato a puntate nel 1880-1881; traduzione dall’americano di Pina Sergi Ragionieri, Roma, Newton & Compton Editori, 2006, p. 17):
«La storia dell’infanzia e dell’adolescenza di James è una storia di precoci esperienze intellettuali: le letture a voce alta che avvengono nel salotto di casa sua e che ascolta di nascosto quando gli adulti lo credono a letto, la passione per il teatro mista a un senso di esclusione quando lo "immagina" grazie ai racconti dei genitori e del fratello maggiore, William. C’è poi la misteriosa vicenda dell’incubo del Louvre: la sensazione (vera? sognata?) che qualcuno stia cercando di penetrare nella galleria dell’Apollon, dove si trova solo e indifeso; la decisione disperata di rovesciare la situazione, aprendo violentemente quella porta e cercando di spaventare a sua volta l’essere orrendo e indistinto che lo minaccia: così, vedremo, Spencer Brydon inseguirà il fantasma in "The Jolly Corner" ("L’angolo ameno", 1906), e così in un certo senso si comporta anche la governante che racconta "The Turn of the Screw" ("Giro di vite", 1898), quando mettendosi al posto del fantasma di Miss Jessel spaventa la povera Mrs Grove.
Ancora più oscura e misteriosa — e a lungo dibattuta da studiosi e analisti dilettanti — la vicenda dell’"orribile ferita" alla schiena che, in seguito all’aiuto volontario prestato durante un incendio a Newport, dove allora viveva, doveva subire all’età di diciassette anni, non potendo più in seguito partecipare alla Guerra Civile e continuando a soffrire di non precisati dolori: c’è chi ha voluto identificare questa ferita con una sorta di castrazione, o comunque le ha voluto attribuire un peso determinante, anche se su un piano più che altro psicopatologico, nelle future inibizioni e paure che avrebbero caratterizzato la vita dello scrittore.»
Sebbene Henry James ci abbia abituati, attraverso romanzi dalla delicatissima trama psicologica, come «Il giro di vite», ad accostarci con un certo rispetto al mondo interiore dei bambini, e a non aver fretta di giudicarlo secondo le categorie dell’io adulto, ma a cogliere le sue impalpabili sfumature, le sue segrete allusioni, la sottigliezza e l’elusività dei suoi confini, restiamo ugualmente colpiti e imbarazzati nel decidere quale grado di verità e quale tipo di significato si debba attribuire a questi due episodi: tanto più che lo stesso James, da parte sua, non sembra essere mai riuscito a sciogliere il nodo di questi interrogativi.
Davvero c’era qualcuno dietro quella porta, nella galleria d’Apollon, al Museo del Louvre: qualcuno che cercava di forzarla, di entrare, di irrompere brutalmente e minacciosamente, per gettarsi su quel bambino solo e indifeso, che, in quel momento, nessun adulto sarebbe venuto a proteggere, e del cui imminente pericolo nessuno si era accorto? O era solo immaginazione? O forse un sogno, in seguito confuso con lo stato di veglia? O, ancora, una specie di sogno ad occhi aperti, un sogno estemporaneo e febbricitante, avvenuto in uno stato di dormiveglia, di coscienza allentata, quando la mente non è ancora interamente assopita, ma non è nemmeno ben desta, e ondeggia confusamente fra i due stati, come indugiando nella misteriosa terra di nessuno?
Certo, è possibile anche una spiegazione molto più semplice e banale: qualcuno cercava di aprire quella porta, ma non era una creatura imponderabile e terrificante; era, né più né meno, un impiegato o un custode, o magari un uomo o una donna delle pulizie, che aveva scordato le chiavi, e che, irritato della propria dimenticanza, e non volendo tornare indietro a cercarle, o non volendo far sapere che le aveva scordate, tentava ugualmente di introdursi nella galleria, scuotendo la maniglia e spingendo la porta con forza, così, più per sfogare il proprio disappunto che con la reale speranza di riuscire ad entrare.
È chiaro che, per un bambino che si trovi momentaneamente da solo, in un luogo ignoto, vasto e vagamente minaccioso, come una grande galleria di un antico, grandissimo museo, anche un fatto in se stesso modesto, quasi insignificante, può assumere risonanze grandiose, e colorirsi di tinte inedite, vagamene paurose. Ma è altrettanto chiaro che l’io adulto non possiede alcun mezzo per appurare di che genere sia stata una tale esperienza: perché per il bambino, come per il mistico, una chiara e netta distinzione tra il "dentro" e il "fuori", tra esperienza soggettiva e realtà oggettiva, non esiste affatto, né potrebbe esistere. Le "voci" non sono, a rigor di termini, né dentro", né "fuori": provengono, semplicemente, da un’altra dimensione. Il che non significa, lo ripetiamo, che siano voci puramente immaginarie. Forse sono voci che anche noi adulti potremmo udire, a determinate condizioni; solo che ne escludiamo a priori la possibilità, e, con questo, ci precludiamo la strada da noi stessi.
Anche i "compagni di gioco" misteriosi, che sono presenti nell’infanzia di bambini particolarmente solitari: siamo proprio sicuri che esistano solo all’interno della loro sfera fantastica? Siamo proprio sicuri che la sfera fantastica e la sfera del mondo "reale" siano totalmente separate, e che, talvolta, non possa aprirsi una porta fra l’una e l’altra, così da porle in comunicazione reciproca? Lo stesso ordine di ragionamenti vale per il secondo episodio riferito da Henry James, quello della "orribile" e misteriosa ferita ricevuta alla schiena, mentre si prodigava per lo spegnimento d’un incendio: ferita reale, ferita immaginaria? E chi potrebbe mai affermarlo con assoluta sicurezza? Forse, come diceva Shakespeare ne «La tempesta», la vita stessa è un sogno, fatta della stessa sostanza dei sogni.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels