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Perché soffrono gli animali?
5 Ottobre 2015Quello sulla caccia è un classico esempio di dibattito ideologico: non si discute nel merito, ma si parte da categorie teoriche e da esse si vogliono tirare le conclusioni, indipendentemente dal contesto, dalle circostanze, dai fatti concreti; e ciò, a nostro avviso, è un sistema infallibile per porre un muro contro un altro muro, senza alcuna prospettiva di giungere alla benché minima forma di mediazione, né al presente, né mai.
Premesso che siamo assertori della vita e della cultura della vita, nonché di una visione non antropocentrica del reale, per cui non poniamo, in linea di massima, una gerarchia ideale circa il "diritto alla vita" fra le differenti creature che popolano la terra (ma il guaio è che la natura ignora i diritti e se ne infischia delle nostre convinzioni), e che, pertanto, non proviamo alcuna simpatia per il fatto che si trovi divertente uccidere degli esseri viventi, nondimeno desideriamo porre la questione in termini non ideologici, non esasperatamente teorici, non — per quanto possibile – secondo rigide categorie precostituite.
Una cosa è credere nel diritto alla vita di tutti gli esseri, e dunque, ad esempio, praticare rigorosamente il vegetarianismo, e una cosa è volerlo imporre; esattamente come una cosa è credere nella bontà, e cercare di praticarla, e un’altra cosa, e ben diversa, è voler imporre la bontà, anzi, la santità, per legge, e pretendere che tutti i membri della società siano buoni, premurosi, comprensivi, accoglienti, verso chiunque e in qualsiasi circostanza: perché questa sarebbe una forma di fondamentalismo e di intolleranza totalitaria.
Sforziamoci, dunque, di entrare nel mondo del cacciatore: nella sua psicologia, nelle sue abitudini, nelle sue credenze. Non è necessario immaginarlo, per forza, come un essere umano brutto e cattivo: proprio come non è necessario immaginare che lo sia un altro soggetto, che di mestiere fa il macellaio. Diciamo che a noi non piacerebbe fare il macellaio, così come non andremmo mai a caccia; ma non ne consegue che i macellai o i cacciatori siano delle persone meritevoli di disprezzo. Fra le due cose, ce ne corre: e la vera saggezza è l’arte delle distinzioni.
Inoltre, non sarebbe corretto prendere come modello del "cacciatore tipo" quello che è, in realtà, il tipo inferiore: quello, per intenderci, che va a caccia senza amore, né rispetto per la natura; che bada solo a riempire il carniere, in qualunque maniera; che non fa distinzione fra animali adulti e cuccioli, fra maschi e femmine, fra giovani e anziani: ossia, che procede come un carro armato in un negozio di cristalleria, incurante della sofferenza che infligge, ma anche del danno verso l’equilibrio ecologico che i suoi comportamenti, inevitabilmente, provocano.
In tutte le categorie di persone esistono dei tipi inferiori e dei tipi superiori; il cacciatore "tipo" non sarebbe equamente rappresentato dal tipo inferiore, perché esiste anche un tipo superiore: un tipo che ama la caccia non per amore della strage, ma per una tradizione familiare, o per lo stretto contatto con la natura che essa offre, o per il piacere dell’astuzia, dell’appostamento, dell’abilità; quello, per intenderci, che è disposto a rinunciare a un colpo troppo facile, quando si sente appagato dal fatto di aver superato l’animale in fatto di bravura o quando si rende conto che la sua uccisione, in determinate circostanze — ad esempio una femmina di cervo, o di cinghiale, che sta badando ai suoi piccoli – sarebbe una crudeltà inutile e lascerebbe i piccoli senza difesa.
La caccia, per chi la pratica secondo le regole dell’arte, è, soprattutto, un rito: un rito fatto di gesti, di precisione, di cura delle armi, di capacità d’intuizione; ma anche di amicizia nei confronti dell’animale (il cane) e di altri esseri umani. Si narra di un uomo severo e temuto, socialmente importante, che, andando a caccia, aveva fatto amicizia con una persona di modeste condizioni, un piccolo commerciante: ebbene, erano diventati inseparabili, e il figlio di quell’uomo raccontava sbalordito, di non avere mai visto il suo riservatissimo padre così aperto, scherzoso, bonario verso un’altra persona, come lo era con il suo compagno di battute: scherzava, rideva, gli dava una pacca sulla spalla. Basterebbe questa capacità della caccia di creare amicizia e autentica sintonia fra le persone, aiutandole a lasciar cadere la maschera seria di ogni giorno, per farci avvertiti che essa, in sé, non può essere considerata un male. Certo, sarebbe ancora più bello che due amici imparassero ad andare per i boschi ad osservare la natura con un binocolo, invece che armati di fucile: ma, ripetiamo, questo può essere un auspicio, un desiderio: non deve trasformarsi in una imposizione, se non vogliamo cadere nel fondamentalismo dello stato etico.
La vera saggezza è comprendere che nessuno può diventare altro da quello che è, se non lo decide lui stesso. Il vegetariano non dovrebbe mai fare le smorfie, a tavola, davanti all’amico che mangia di gusto la sua bistecca: pur non condividendo quel tipo di alimentazione, non è suo diritto rimproverare il prossimo di non avere le sue stesse convinzioni. Il suo stile di vita, compreso il modo di mangiare, parlerà per lui: ma con semplicità e naturalezza, senza ostentazioni puritane e senza atteggiamenti di superiorità morale nei confronti di chicchessia. E lo stesso discorso vale per chi non ama la caccia, né la pratica, anzi, intimamente la disapprova: egli dovrebbe operare una doverosa distinzione fra la caccia e il cacciatore. La caccia è una pratica che non approva; il cacciatore è un essere umano che, in quell’ambito specifico, si comporta come colui che non ha raggiunto una piena consapevolezza spirituale. E con questo? Forse, quella stessa persona avrebbe delle altre cose da insegnare, anche moralmente, a colui che disapprova la caccia: in nessun modo possiamo concludere che esiste una superiorità morale dell’uno sull’altro, né, di conseguenza, un diritto dell’uno a giudicare severamente l’altro. Invece è proprio questo l’errore che fanno, di solito, i sedicenti progressisti, buonisti, animalisti, pacifisti, e chi più ne ha, più ne metta: si sentono moralmente superiori, e guardano gli altri dall’alto in basso, come si guardano — e si giudicano, per condannarli — i reprobi, i peccatori senza scusanti.
Resta da dire che il cacciatore (e, naturalmente, il pescatore), nel mondo moderno, assomiglia sempre di più a un corpo estraneo, a un masso erratico: che cosa ci fa, nel regno della fretta, dell’efficienza, del produttivismo, un signore che dedica ore del suo tempo a inseguire una lepre o un fagiano; che non bada alla quantità delle prede che riesce a fare, ma giudica il proprio successo in base all’abilità che ha dovuto impiegare per catturarle; che, se torna a casa con il carniere vuoto, talvolta si sente altrettanto sereno e soddisfatto che se lo avesse pieno, perché ha passato comunque una bella giornata col suo fido cane da caccia e in mezzo al verde riposante dei boschi?
Il cacciatore è consapevole, più meno oscuramente, di questa incongruenza; e, per nobilitare la propria arte, cerca di poggiarla su una tradizione "alta", sì da renderla più atta a resistere alle sfide dei valori moderni. Per esempio, se è un cattolico praticante, si è preso Sant’Uberto come santo protettore — operazione un po’ azzardata, visto che Uberto da Liegi, "l’apostolo delle Ardenne", di pura stirpe merovingia, vissuto fra il 656 e il 727, viene bensì rappresentato, nell’iconografia cristiana, in compagnia di un cervo, ma per ragioni opposte a quelle che vorrebbero gli amanti della caccia. Secondo la leggenda (ricalcata su quella di sant’Eustachio), dopo una vita un po’ disordinata e superficiale, un giorno gli apparve un cervo fra le cui corna splendeva un crocifisso, e ciò segnò la sua conversione: da quel momento, egli abbandonò tutti i suoi precedenti divertimenti, primo fra i quali, appunto, quello della caccia, e si mise al seguito di san Lamberto di Maastricht, divenendo, più tardi, suo successore sulla cattedra episcopale di quella città, nonché ardente predicatore e, da ultimo, fondatore della diocesi di Liegi, di cui fu il primo vescovo.
Scrive Sergio Dalla Bernardina, bellunese, classe 1953, saggista e studioso apprezzato più in Francia, Paese nel quale ha tenuto la cattedra — nell’università di Aix/Marsiglia — nella sua interessante monografia «Il ritorno alla natura. L’utopia verde tra caccia ed ecologia», Milano, Mondadori, 1996, pp. 170-171):
«"Il nostro passato ha qualcosa di incompatibile con i valori moderni?" si domandano i cacciatori: non c’è problema, basta cambiarlo. Del resto, perché non dovrebbe essere così? È la logica stesse delle democrazie liberali, nel loro rifiuto di ogni retaggio che non sia il frutto di una conquista personale, a legittimare tale pretesa. "La natura, come realtà che precede il soggetto, condizionandone il destino, non è che un pregiudizio" ci dice Michael Jackson con la sua pelle schiarita e il naso rifatto. "La natura non si eredita, si costruisce" ribadiscono i cultori del body building. Lo stesso vale per la cultura, aggiungono i venditori di enciclopedie al metro quadro; e per la nobiltà, precisano i clienti dei vari centri di araldica. Dunque perché non la storia?
Di qui le differenti iniziative destinate a promuovere il folclore venatorio, cioè a creare dal nulla tradizioni che nel giro di pochi anni diventano secolari. Anche in questo caso, naturalmente, ci troviamo di fronte a una pratica che va ben oltre l’universo dei cacciatori. Direi anzi che è tipico del mondo pubblicitario lanciare prodotti "tradizionali" corredandoli con aneddoti concernenti l’eroe fondatore ("histriolae" che funzionano come veri e propri miti di fondazione). È nel lontano 1887 che il dottor Kellogg, che puro caso, inventò i suoi celebri corn flakes (cito a memoria, parafrasando): ma non c’è dubbio che il mondo della caccia, proprio per il suo carattere di messinscena, oltre che per il suo continuo richiamarsi a un passato da cui trarre legittimazione, si presti in modo particolare a operazioni di questo genere.
Gli esempi non mancano. Tra i più suggestivi non esiterei a citare le messe del cacciatore, celebrate sempre più spesso con sottofondo di corni da caccia suonati da musicanti in costume (altoatesini, austriaci e tedeschi, ma anche svizzeri e brianzoli). Per conferire solennità a queste manifestazioni che, nonostante il loro statuto religioso, presentano curiose simpatie per orizzonte pagano, è sembrato opportuno rispolverare il personaggio di sant’Uberto, figura nordica (già a sua volta inventata per fronteggiare i suoi antecedenti pre-cristiani), che ben poco ha a che fare con l’universo mediterraneo. Ma quel che più sorprende (e qui ci ritroviamo in piena affabulazione), è che al povero sant’Uberto vengono attribuite una serie di massime di origine alquanto dubbia, nonché una coscienza ecologica a dir poco anacronistica. Così leggiamo in "Il cacciatore italiano" (10 ottobre 1991): "Anche quest’anno, il 9 novembre, nei comuni di tutt’Italia i cacciatori torneranno a celebrare il rito di sant’Uberto e a riflettere sugli insegnamenti del Santo nei quali, malgrado il trascorrere dei secoli, ogni cacciatore sente ancora di potersi riconoscere: "Solo chi caccia con controllo, rispetto della natura e capacità di rinuncia è un cacciatore vero e giusto" (p. 3).
Pare proprio di vederlo, il venerabile sant’Uberto, recitare uno dei suoi famosi sermoni che aprirono la strada, con qualche secolo d’anticipo, alla conversione protezionistica del cacciatore contemporaneo. [Senza parlare del paradosso che fa patrono dei cacciatori proprio sant’Uberto, che, avendo rinunciato alla caccia (questo il messaggio centrale dell’episodio che lo vede protagonista) dovrebbe piuttosto essere considerato come il patrono degli ecologisti, N. d. T.]. Mi si potrebbe obiettare che è tipico della maggior parte dei santi prestare la propria vicenda alle contraffazioni più inverosimili. Nulla di più "medievale", dunque, di questa biografia apocrifa. Pre-moderno, del resto, si direbbe anche il modo in cui l’autore-destinatario della finzione finisce per avvertirla come qualcosa di autentico, rimuovendo il fatto di esserne lui stesso all’origine. Il fenomeno non si limita all’improvvisazione agiografica. Il cacciatore contemporaneo inventa di sana pianta "riti ancestrali" e poi li celebra nelle riviste specializzate. Oppure, in presenza di elementi rituali ormai defunzionalizzati, li reinserisce all’interno di nuove sequenze, destinate a modelli endogeni (prevalentemente mitteleuropei) con effetti sincretistici a volte sorprendenti.»
Eppure, nonostante l’ingenuità, e, qualche volta, la goffaggine naïf di certi tentativi di costruire in fretta una tradizione aristocratica per alcune attività umane, noi non crediamo che possa darsi una spiegazione solo in termini di consumismo pubblicitario: questo è un modo riduttivo di vedere le cose. Non c’è solo la ricerca di una legittimazione "facile" e artificiale; c’è anche il desiderio di ricollegare il presente, sentito come anacronistico — come nel caso del cacciatore — ad un passato remoto, rispettabile o addirittura sacro. In questo senso, la sopravvivenza della caccia, intesa come arte, in piena epoca moderna, e ora post-moderna, è una realtà affascinante, che ha del prodigioso…
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