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6 Ottobre 2015La religione dei Babilonesi: quasi una monolatria intrisa di paura e angoscia esistenziale

La religione dell’antico Impero babilonese offre un buon esempio di quella che si può definire una religione fondata sulla paura, sull’angoscia e sulla disperazione dell’uomo; una religione che tende verso l’idea del dio unico, ma non è ancora di tipo monoteista, perché non afferma l’esistenza di un solo Dio, ad esclusione di tutti gli alti, bensì adora un Dio particolare che regna in Cielo, accanto ad un certo numero di altre divinità (monolatria). Nei salmi penitenziali babilonesi accade sovente che l’esaltazione di un singolo dio sia così intensa ed esclusiva, da negare ogni importanza — ma non già la loro esistenza – delle altre divinità
Questo tipo di religiosità sembrerebbe più evoluta rispetto al politeismo classico, magari teriomorfo (com’era quello degli antichi Egiziani: venerazione degli déi in sembianze d’animali), anche perché costituisce, senza dubbio, un passo avanti nella direzione del monoteismo vero e proprio. Per chiarire il concetto, diremo che sia il faraone Ekhnaton, alias Amenophis IV, nella sua straordinaria riforma religiosa, con la quale, durante la XVIII dinastia, tentò d’imporre il culto di Aton, simboleggiato dal disco solare, sopra il vecchio Pantheon, capeggiato dal dio Amon o Amun; sia il popolo ebreo nella fase precedente l’affermazione del giudaismo maturo, rigidamente monoteista, ossia quando aveva raggiunto le sue nuove sedi in Palestina e doveva ancora vedersela con Cananei, Filistei dovuto, mentre concentravano tutto il loro sentimento devozionale nei confronti, rispettivamente, di Aton e di Yahwé (e c’è stato, come è abbastanza noto, anche chi ha visto una relazione storica tra i due eventi, la riforma di Ekhnaton e l’affermazione della religione mosaica in Palestina, tanto più che dovettero aver luogo in un arco di tempo compatibile, intorno al XIV secolo avanti Cristo il primo, e verso il XVI secolo il secondo).
Se qualcuno pensasse che l’evoluzione di una religione dal politeismo verso il monoteismo deve rappresentare anche una sorta di raffinamento e di approfondimento spirituale e morale, accostandosi alla religione degli antichi Babilonesi non può non rimane sorpreso e sconcertato nel constatare che costoro vivevano, invece, sotto una cappa di cupo timore, poiché non riuscivano a scorgere quasi nessun tratto benevolo nel Signore del Cielo, il quale incuteva loro, piuttosto, sentimenti di paura e sgomento, essendo solito manifestarsi soprattutto nelle sue funzioni di distruttore e devastatore, sicché i fedeli non osavano sperare nulla di buono da lui e cercavano in ogni modo di ingraziarselo, celebrandone le lodi nella forma più solenne e altisonante possibile, come attestano le preghiere che la polvere dei secoli ci ha permesso di decifrare. Per trovare altrettanto pessimismo e altrettanto scoraggiamento, confinante con una sorta di tetra rassegnazione, bisogna traversare l’Oceano Atlantico e accostarsi alle religioni di alcuni famosi popoli dell’America precolombiana, dagli Aztechi ai Maya, che cercavano di ingraziarsi gli déi con autentiche ecatombi di esseri umani; quanto ai Quechua e agli popoli dell’Impero incaico, è ormai assodato che essi vivevano nel terrore di un evento disastroso predetto dai loro sacerdoti-astronomi, i quali lo avevano letto nelle stelle, e che tale circostanza ebbe un peso non lieve nello sconsolato fatalismo con cui un grande Stato, popolato da milioni di sudditi, si consegnò in potere di poche centinaia di conquistadores spagnoli, audaci e aggressivi, ma non certo invincibili.
Scrive l’archeologo e orientalista Paolo Matthiae a questo proposito (in: «La preistoria e gli antichi imperi». Novara, De Agostini, 2012, pp.332-4):
«La penetrazione violenta e l’infiltrazione pacifica dei Semiti occidentali, che in momenti diversi e con vicende alterne si verificarono sullo scorcio del III millennio, perdurando per qualche tempo anche quando genti della stessa stirpe controllavano politicamente la Mesopotamia meridionale, non provocarono sovvertimenti tali che la tradizione religiosa ne risultasse profondamente alterata. Al contrario, gli sviluppi che si introdussero nelle concezioni religiose appaiono piuttosto, come fenomeno generale, il prodotto di un processo interno che non la conseguenza di un apporto esterno, se si fa eccezione per l’emergere di qualche figura divina e degli orientamenti devozionali a esse connessi.
La religiosità nel periodo paleo babilonese è fortemente pervasa dall’angoscia che infonde il dio, concepito sempre come forza tremenda, che incute il terrore e che si adora più per placarne l’aspetto terribile e per conciliarsene lo sconfinato potere che per una profonda e sentita religiosità. Connessa a questo aspetto prevalente è, sempre più viva, la tendenza ad attribuire ad ogni divinità, al di là dei caratteri propri di ciascuna, attribuiti e qualità assolute di preminenza rispetto agli altri dèi, in maniera tale che gli inni e le preghiere rivolte a un dio possono apparire in contrasto con analoghi documenti conservati per altri dei. Caratteristico in questo senso è l’inizio di una preghiera di più tarda data, nella quale il fedele implora per sé salute, giustizia e perdono dei propri peccati e in cui è invocato il dio lunare semitico Sin, esaltato come equivalente di Anu, il capo del pantheon, e di Enlil, il dio titolare del grande tempio Ekur di Nippur.
"O Sin, o fiaccola magnifica.. / Sin, che sempre riappari di nuovo, che rischiari le tenebre, / che crei luce per gli uomini… / Sugli uomini dalle teste nere è diffuso lo splendore dei tuoi raggi; / chiaro è il tuo sorgere nel cielo…; / brillante è la tua torcia come fuoco; / il tuo chiarore riempie l’ampia terra, gli uomini sono fieri, al vederti si fanno animo. / O Anu del cielo, i cui disegni nessuno può conoscere, / travolgente è il tuo splendore come quello del tuo primogenito Shamash; / si inchinano davanti a te i grandi dei; a te sono presentate le decisioni della terra; / quando i grandi dei ti domandano, tu dai loro il consiglio; / essi siedono in assemblea, tu dai loro il consiglio; / essi siedono in assemblea e discutono ai tuoi piedi. / O Sin, o magnifico signore dell’Ekur, quando essi ti interrogano, tu dai l’oracolo degli dei…"
Si è detto che questa tendenza della religiosità babilonese è sostanzialmente una via alla monolatria, ma è certo che si ricollega, da un lato, alla maniera tipica di concepire la divinità come potente e terribile, ma lontana, e dall’altro, all’esigenza di superare questa lontananza esaltando il dio di cui si è più devoti. Da questa stessa necessità discende la presenza degli dei personali, che hanno, si può dire, la funzione di avvicinare il divino all’uomo.
Dove più sicuramente può riconoscersi l’opera, se non dei Semiti occidentali, almeno dei teologi del periodo paleo babilonese è in una più accentuata tendenza alla rappresentazione simbolica delle divinità. Tale tendenza è largamente documentata nella glittica contemporanea con il reimpiego di elementi figurativi già diffusi nel periodo akkadico e poi trascurati dalla cultura artistica neosumera, pur senza rinunciare all’antropomorfismo fisico e spirituale secondo cui si articolava la concezione della divinità palo babilonese.
Un’interessante testimonianza scritta di una caratterizzazione simbolica del divino tipica dell’età paleo babilonese — quella che identifica astri e costellazioni con divinità — è fornita da una preghiera composta in occasione di un atto di divinazione da compiere nella notte, in cui gli dei, designati convenzionalmente come "principi", sono invocati sotto il nome di costellazioni. Il testo che si riproduce è appunto d’età paleo babilonese.
"I principi riposano; / i chiavistelli sono serrati; le offerte sono preparate; / la gente, prima rumoreggiante, è ora quieta; / le porte, prima aperte, sono ora sprangate. / Gli dei della terra, le dee della terra, / Shamash, Sin, Adad, e Isthar, / si sono recati a dormire in cielo; / essi non pronunciano giudizi; / non prendono alcuna decisione. / Velata è la notte; / il palazzo e i luoghi più santi sono quieti e oscuri. / Colui che è in cammino invoca il so dio; / colui che ha una questione legale indugia nel sonno. / Il giudice di verità, il padre dell’orfano / Shamash, si è ritirato nella sua santa camera. / I grandi dei della notte, / lo splendente Gibil, il guerriero Irra, / l’Arco e il Giogo, / le Pleiadi, Orione e il Drago, / il Carro, il Capro e il Bisonte / siano presenti; / attuino la divinazione cui io sto attendendo; / nell’agnello che io offro / pongano per me la verità".»
Il dio Sin, dunque, era una delle divinità babilonesi adorate "in esclusiva" da un certo numero di seguaci (Sin era la forma accadica; Nanna, quella sumerica). Egli era il dio della Luna, protettore del ciclo lunare e degli elementi ad esso collegati; era venerato da un’epoca antichissima e possedeva numerosi templi, ma i due principali si trovavano a Ur di Caldea (bassa Mesopotamia, presso l’antica foce del Tigri e dell’Eufrate nel Golfo Persico, oggi molto avanzata a causa dei depositi alluvionali) ed a Carre (corrispondente all’odierna Harran, in Turchia, e situata perciò nella Mesopotamia settentrionale). Il suo culto, a un dato momento, dovette uscire dall’ambito locale e raggiungere l’antica Roma durante la bassa epoca imperiale, se è vero che Caracalla si stava dirigendo proprio a Carrhae, per venerare Lunus, allorché cadde ucciso da un ufficiale della guardia, l’8 aprile del 217; voleva forse strappare la benevolenza del dio babilonese nel momento in cui si accingeva a sferrare una seconda campagna di guerra contro i Parti. I Romani, del resto, possedevano, nel loro Pantheon originario, una divinità lunare femminile, Luna; la quale, insieme ad Ecate e Persefone, era conosciuta e adorata sotto forma di Diva Triforme.
La voluminosa raccolta di biografie degli imperatori romani nota con il titolo di «Historia Augusta», alla quale siamo debitori di questa precisa informazione, ci dice anche che il dio Sin, a Carre, veniva adorato sotto due specie, maschile e femminile; e che, mentre nel primo caso il fedele acquisiva la piena padronanza di sé, nel secondo egli — se di sesso maschile – era destinato a cadere sotto il dominio delle donne. Questo, beninteso, se è realmente corretto identificare Lunus, di cui parla Elio Sparziano, l’autore della biografia di Caracalla contenuta nella «Storia Augusta», che narra la tragica fine dell’imperatore, con il dio babilonese Sin, così come sono propensi a fare la maggior parte degli studiosi; e non già con il dio frigio Men, il cui culto era diffuso nell’area mediorientale, specialmente nella sezione occidentale dell’Asia Minore. Del resto, va pure aggiunto che parecchi studiosi sono inclini a pensare che il culto di Men non sia l’espressione di una divinità locale della Frigia, ma che sia giunto in Anatolia proveniente dalla Mesopotamia, e che sia, semplicemente, una derivazione o deformazione dell’originario culto di Sin.
Il culto di Sin, come si desume dagli inni e dalle preghiere composti in suo onore, e ritrovati nel corso di svariate campagne archeologiche, esaltava la sua dimensione luminosa e notturna, la sua terribile potenza, la sua maestà celeste; invano, tuttavia, si cercherebbero in quei testi delle parole di affetto, di confidenza, di autentico amore: quel che appare evidente è il forte sentimento di ansia dei fedeli, che essi cercavano di placare levando fino alle stelle le lodi del dio Sin e facendone risaltare la solitaria grandezza, presentata come priva di concorrenti. Una religione della paura, appunto, caratterizzata da un senso di angoscia e insicurezza permanenti; una religione dalla quale l’uomo non si aspetta propriamente di ricevere del bene, in senso positivo, ma, piuttosto, di non subire del male, e, tutt’al più, di essere protetto contro le offese.
Ora, se è vero che molte religioni semitiche, e non solo semitiche (abbiamo accennato a quelle precolombiane d’America), erano caratterizzate da un grado analogo di timore e di angoscia, bisogna pur trarne qualche deduzione circa l’orizzonte esistenziale di quei popoli e circa la loro tonalità affettiva, se così possiamo dire; per concludere che essi dovevano vivere in uno stato di forte tensione, oscillante fra gli estremi della depressione e dell’ansia cronicizzata, sentendosi sempre in pericolo di incorrere in qualche mancanza, in qualche colpa, e di attirarsi l’ira di questa o quella divinità, le quali, adorate in maniera esclusivistica, non che offrire un maggior grado di sicurezza e di rasserenamento, minacciavano di perseguitare il malcapitato con un accanimento tutto particolare.
Distanti erano gli dèi dal mondo dell’uomo, dalla sua dimensione terrena: essi regnavano in cielo e, superbi, esigevano timore reverenziale e sottomissione assoluta; come fossero stati dei collerici e impietosi sovrani, erano sempre pronti a punire ogni infrazione o anche delle semplici forme di negligenza; nessuna giustificazione veniva da essi accolta: incorrere nel loro corruccio equivaleva a una sentenza di condanna senza appello. Oppresso dalla loro terribile potenza, l’uomo tremava…
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