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1 Ottobre 2015L’anima si confonde e si smarrisce allorché si mette ad inseguire le tante e fugaci immagini di bene, ma non può sbagliare e non può fallire allorché individua e riconosce il vero Bene, sublime e perfetto, perché in esso trova il suo completo appagamento, che non viene mai meno, né si appanna, né, tanto meno, si esaurisce.
La filosofia di Platone insegna che uno è il Bene, mentre molti, e non mai del tutto appaganti, sono i beni; concetto ripreso in chiave cristiana da Sant’Agostino, che ne fece l’esperienza concreta nella sua vita e che la descrisse mirabilmente nella sua autobiografia spirituale, le «Confessiones» (una grossa novità nell’ambito della letteratura latina). I mistici cristiani, poi, lo hanno sviscerato e ulteriormente approfondito, nel corso dei secoli.
Fra le opere dei mistici cristiani, una delle più commoventi e toccanti è quella dell’Anonimo Francofortese: un membro dell’ordine religioso-cavalleresco dei Cavalieri teutonici, vissuto alla fine del 1300, il quale — a dispetto dell’immagine ora generalmente diffusa di quell’Ordine, tutta in chiave negativa e sanguinaria, e anche della strumentalizzazione in senso protestante e nazionalista fattane due secoli dopo da Lutero — raggiunge vette mistiche inebrianti e raramente eguagliate di purezza, nobiltà e trasparenza interiore.
L’Anonimo Francofortese insegna che, quando l’anima ha raggiunto l’Uno, l’essere perfetto, essa non può desiderare altro che quello: come colui, aggiungiamo noi, il quale, dopo essersi dissetato alla fresca fonte di montagna, non potrà mai più preferirle l’acqua insipida, o magari torbida, che si può trovare altrove, lontano dalla sorgente; perché la Sorgente compendia in sé l’eccellenza della sostanza acqua, così come l’Uno compendia in sé l’eccellenza di quei beni che le cose create, invece, presentano sempre in maniera lacunosa e imperfetta. Chi ha fatto l’esperienza del Bene, dunque, non potrà mai più accontentarsi dei beni; così come chi è giunto al cospetto della Verità, non potrà mai più accontentarsi delle piccole, parziali verità, che vengono spacciate per l’intero, vale a dire per la Verità in quanto tale.
E tuttavia, si potrebbe domandare: come potrà mai l’anima umana, essa stessa limitata e imperfetta, giungere fino al riconoscimento dell’Uno, ed abbeverarsi alle sorgenti del Bene, senza restarne, per così dire, folgorata e annichilita? E come è possibile che l’anima, legata al corpo — se pure non vogliamo dire: imprigionata nel corpo, come avrebbe detto Platone, e, forse, come pensava l’evangelista San Giovanni — possa vincere, per così dire, il peso dell’umano ed innalzarsi molto al di sopra di se stessa; anzi, come è possibile che giunga a intuire la propria insufficienza, il proprio segreto desiderio, e si indirizzi verso la sua meta finale, senza lasciarsi distrarre e fuorviare dalle illusorie, frammentarie immagini di bene che popolano il nostro mondo contingente?
La cosa non è affatto impossibile come sembra, anche se richiede, senza dubbio, l’intervento della Grazia: perché l’anima, pur legata al corpo e, con esso, alla dimensione del contingente e dell’illusorio, non è, però, di natura illusoria o contingente, tutt’altro: essa è un riflesso, una scintilla dell’Essere da cui proviene; e dunque possiede in se stessa un legane originario, luminoso ed eterno, con la Sorgente donde è scaturita e al quale aspira ardentemente a ritornare. L’anima non è di questo mondo: vi abita come un’ospite; ma sa, ricorda, intuisce, e infine può arrivare a comprendere, sia per la via del ragionamento filosofico, sia per la via dell’esperienza mistica, che la sua patria originaria è l’Assoluto.
Scrive, dunque, l’Anonimo Francofortese nel suo «Libretto della vita perfetta» (titolo originale: «Der Franckforter. Theologia Deutsch»; a cura di Marco Vannini, Roma, Newton Compton, 1994, cap. 32, pp. 55-56):
«Si deve ora fare attenzione: Dio, in quanto è buono, è buono in assoluto e non è questo o quel bene. Qui c’è qualcosa da tenere ben fermo. Vedi, quel che è ora qui e ora là, non è in ogni luogo, né al disopra di ogni termine e luogo; e quel che avviene in un certo tempo, oggi o domani, non è sempre e al di sopra di ogni tempo. E quel che è qualcosa, questo o quello, non è il tutto o al di sopra del tutto. Vedi, se Dio fosse qualcosa, il questo o il quello, non sarebbe il tutto e al di sopra del tutto, come è, e non sarebbe neppure la vera perfezione. Perciò Dio è, ma non è il questo o il quello, che la creatura possa in quanto tale conoscere e denominare, pensare ed esperire. Perciò, se Dio, in quanto è buono, fosse questo o quel bene, non sarebbe ogni bene e al di sopra di ogni bene, e così non sarebbe quell’unico e perfetto bene che invece è.
Vedi, Dio è anche luce e conoscenza; perciò gli si addicono luce e conoscenza, , ed è sua proprietà illuminare, risplendere e conoscere. E, in quanto è luce e conoscenza, deve dar lume e chiarire e portarsi a conoscenza; e tutto questo dar lume e rivelarsi in Dio è senza creatura. Non è qui come un operare, ma come un essere o un’origine. Se invece deve darsi come operare ed agire, deve darsi nelle creature. Vedete, quando la conoscenza e la luce è operante in una creatura, allora conosce e insegna che è; così è buona. E perciò non è il questo o il quello. Così neppure rivela ed insegna il questo e il quello, ma rivela ed insegna a riconoscere che è un vero, unico, perfetto bene – non il questo o il quello, ma un bene perfetto, al di sopra di ogni bene.
Ora qui si è detto che la luce insegna l’unico bene. ma cosa insegna di esso? Vedi, questo va considerato bene. Guarda, come Dio è l’unico bene, conoscenza e luce, così è anche volontà, amore, giustizia,verità e assolutamente ogni perfezione , e tutto ciò è un essere in Dio, che però non può venir esercitato e operato senza la creatura, giacché in Dio, senza la creatura, non c’è altro che un essere e un’origine, e non un operare. Ma quando questo Uno, che è tutto ciò, assume in sé una creatura e se ne impossessa, ed essa gli ubbidisce in modo che a lui sembra di potersi riconoscere in essa come in ciò che gli è proprio — vedi, siccome allora c’è una sola volontà e un solo amore, da lui stesso, in quanto è luce e conoscenza, viene insegnato di non volere altro che l’Uno, che egli è.
Vedi, da allora in poi non viene voluto o amato altro che il bene, perché il perché è bene e per nessun altro motivo, e non perché è questo o quello, o perché è piacevole o doloroso, amabile o penoso, dolce o amaro a questo o a quello. A tutto ciò non si bada e non si cerca, e neppure a se stessi o a quel che ci riguarda. Infatti qui è perduta ed abbandonata ogni seità ed egoità, ogni io ed "a me". Qui non si dice: "Io ho caro me stesso, o te, o questo, o quello, ecc.". E se all’amore si chiedesse cosa ama, egli direbbe che ama il bene. E se gli si chiedesse perché, risponderebbe: "Perché è buono, e in virtù del bene". Così è giusto, bene e ben fatto che sia amato. E se ci fosse qualcosa di meglio di Dio, dovrebbe essere amato più di Dio. Perciò Dio non ama se stesso in quanto tale, ma in quanto è il bene. E se vi fosse qualcosa, e Dio conoscesse qualcosa di migliore di Dio, allora amerebbe quello, e non se stesso. A tal punto l’egoità e la seità è separata da Dio e non gli appartiene, se non quanto gli serve ad essere persona. Vedi, questo deve essere ed è in verità in un uomo divino, ossia in un uomo vero, divinizzato — altrimenti non sarebbe tale.»
Abbiamo in questa pagina una sintesi perfetta di pensiero e sentimento, teologia e mistica: Dio è il Sommo Bene, ed è per questo che va amato e adorato; ma, se vi fosse qualcosa di ancora più perfetto di Lui, allora non soltanto noi, ma Lui stesso, dovremmo tutti amare e adorare questo Qualcosa di più alto; però, non essendovi, per definizione, nulla di più alto, di più perfetto e di più buono, è Lui che dobbiamo amare e adorare, e in Lui troveremo tutto ciò che cerchiamo negli enti di questo mondo, i quali, per quanto eccellenti possano essere, non saranno mai perfetti e, quindi, non ci daranno mai altrettanta gioia e altrettanta pienezza di quante ne possiamo trovare in Lui, e in Lui solo. Pensiero audace, sfiorante, quasi, l’eresia, in quella ipotesi, puramente teorica, di un Bene più grande di Dio; ma pensiero consolante, efficace, splendente d’una luminosa evidenza.
In Dio, dunque, la Persona divina, si realizza pienamente e perfettamente ciò che in nessuna persona umana è possibile, nemmeno nella più perfetta (umanamente parlando): la totale unità e la totale gratuità. Nulla si può pensare, non solo più perfetto di Dio, ma al di fuori di Dio e separato da Dio, tanto che a Lui spetta la qualifica dell’essere Uno; e nulla si può pensare che non sia amore; ma Egli è l’Amore: dunque, Dio ama se stesso: non però alla maniera degli uomini, che amano se stessi in maniera narcisistica, cioè con cieco attaccamento al loro io, ma come solo può amare Dio, cioè senza ombra di attaccamento, che è imperfezione, perché, appunto, se davvero vi fosse qualcosa di più amabile di Lui, Egli stesso amerebbe quest’altra cosa.
Dio ama se stesso perché è il Bene, perché è Amore; gli uomini amano se stessi perché si piacciono, o perché vogliono piacersi, o perché s’illudono di piacersi. E, se pure gli uomini, talvolta, si amano perché sono buoni, nessuno di loro, però, è il Bene, ma solo, al massimo, un segno del Bene, un riflesso del Bene, una via che conduce in direzione del Bene: nessuno di loro può essere la meta in se stesso, dunque nessuno di essi merita di essere amato soltanto e unicamente per se stesso, ma in quanto brilla, in lui, un riflesso di quell’Altro, di quello che solo è Bene, di quella Persona che è amabile assolutamente e incondizionatamente. Nessun uomo e nessuna donna meritano di essere amati così, perché sono creature e dunque, in se stesse, imperfette; neppure quell’uomo che sono io per me medesimo, merita un tale amore, perché, se mi amassi a quel modo, rimarrei prigioniero entro me stesso, catturato dall’amore per me stesso, e non sarei più in armonia con l’universo, non sarei più alla ricerca del Bene, ma mi accontenterei di uno dei tanti, piccoli, ingannevoli beni che non brillano di luce propria, ma solo di luce riflessa.
Gli uomini non possono, né devono, innamorarsi di se stessi; e devono guardarsi con ogni cura dalla tentazione più pericolosa di tutte, la tentazione della superbia, che li spingerebbe a volersi fare, ciascuno di essi, il dio di se medesimo, spodestando e allontanando dalla propria vista Colui che, solo, merita di essere cercato, amato e adorato come un fine in se stesso, e non come un mezzo per raggiungere qualche cosa d’altro, ciò che noi tutti facciamo allorché amiamo le cose di questo mondo, e perdendo di vista l’origine di tutto ciò che è il Bene. Così come ogni acqua — delle sorgenti, dei fiumi, dei laghi, dei mari – proviene dall’Acqua, e così come ogni fuoco — dei soffioni, dei geyser, dei vulcani, delle stelle — proviene dal Fuoco, allo steso modo ogni bene deriva dal Bene, ogni persona umana proviene dalla Persona divina, ogni molteplicità proviene dall’Uno, ogni bellezza proviene dal Bello, ogni cosa vera proviene dal Vero e ogni cosa giusta proviene dal Giusto; e il Bene, la Persona, l’Uno, il Bello, il Vero e il Giusto sono solo in Dio, sono solo Dio, e nessun altri che Dio.
In fondo, la vita serve a questo: ci è stata data per capire questo, per capirlo e per metterlo in pratica. Ciò non significa che ciascuno di noi è chiamato ad allontanare tutti i beni in vista del solo e unico Bene; non tutti sono chiamati all’ascesi perfetta, ma tutti sono chiamati alla santità: e la santità consiste in questo, nel non scordare mai che non vi è alcun vero bene senza il Bene, alcuna vera bellezza senza il Bello, alcuna verità autentica senza il Vero, e alcuna giustizia senza il Giusto: insomma che nulla si può fare, nulla si può sentire, pensare, capire, al di fuori di — o, meno ancora, a dispetto di — quell’Uno che assomma in sé ogni perfezione, e nel quale si trova meravigliosamente e pienamente realizzato ciò che, nella dimensione del finito, ci appare sempre come manchevole di qualcosa, e sempre, in qualche modo, lacunoso e imperfetto.
Anche noi siamo chiamati alla perfezione: perché la santità è una forma di perfezione; quella forma di perfezione che si addice all’umano, ove nulla è assolutamente perfetto. E la nostra perfezione consiste in questo: nel lasciar cadere la zavorra del nostro piccolo io, capriccioso e viziato, e nell’abbandonarci pienamente, fiduciosamente, incondizionatamente, a quel Tu assoluto e perfetto che è Dio, nostro creatore e signore, nostro fine e nostra speranza, nostro amore e nostra felicità. In Lui è tutto ciò che possiamo desiderare per vivere degnamente e serenamente in questa dimensione del finito e del contingente, e per trovare il nostro vero compimento in quell’altra, la dimensione dell’infinito e del necessario.
La nostra piccola vita umana, la grande vita dell’universo intero, non sono che fasi di preparazione alla Vita vera e assoluta: quella che vedrà ogni cosa tornare a Dio, come da Lui tutto è cominciato…
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