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Ogni cattiva azione nasce da una menzogna che raccontiamo a noi stessi

Il filosofo Antonio Rosmini diceva, molto giustamente, che ogni peccato è la conseguenza di una menzogna che noi diciamo a noi stessi: di una infedeltà al nostro senso della giustizia, di un tradimento della nostra coscienza. Perché il senso del bene, quello l’abbiamo iscritto nel fondo della nostra anima; e, se lo ignoriamo, e facciamo tutto il contrario di ciò che esso ci indica, dobbiamo prima compiere una diabolica operazione ai nostri stessi danni, rivestita di astuzia apparente: prendere in giro il nostro senso morale, addormentare il nostro sentimento del buono e del giusto, convincere noi stessi che quello che ci apprestiamo a fare non è il male che vediamo e che sappiamo essere tale, ma il bene che vorremmo raggiungere. Resta da vedere, naturalmente, se si tratta davvero di un bene, in primo luogo; e, in secondo luogo, se è lecito perseguire un supposto bene per una via illecita, cioè tale da configgere con il nostro senso della giustizia.

Prendiamo il caso della cupidigia, quello fra i vizi capitali che Dante considerava come il più pericoloso, o, quanto meno, quello che egli considerava come il più diffuso presso gli uomini del suo tempo e, dunque, suscettibile di provocare il male più grande, tanto alle singole anime, quanto alla società nel suo complesso. Il pedagogista Giovanni Modugno (1880-1957), figura interessante e ingiustamente dimenticata della cultura italiana del Novecento, sceglie, per esemplificare il modo in cui la cupidigia si fa strada con diabolica gradualità nell’anima umana, un romanzo a sua volta quasi dimenticato della scrittrice inglese George Eliot, «Romola» – ben più nota per il celebre romanzo «Il mulino sulla Floss» -, da lei scritto nel 1862-63, e nel quale il crescendo dell’auto-inganno del protagonista, tanto volontario quanto malefico, assume forme altamente drammatiche, che ricordano, un po’, il crescendo infernale della discesa verso i gorghi del delitto nell’anima di Macbeth, nell’omonimo dramma shakespeariano.

In termini cristiani, l’ottavo comandamento — non dire falsa testimonianza — ci ricorda che la prima falsa testimonianza, radice di tutte le altre, è quella che noi rendiamo contro noi stessi, contro la nostra coscienza morale; pertanto, l’avidità che spinge un uomo a violare il decimo comandamento — in ultima analisi, il desiderio della roba altrui — si intreccia sinistramente e inestricabilmente con la violazione dell’ottavo: perché, per poter perseguire liberamente il proprio proposito malvagio, quel tale uomo cercherà, innanzitutto, di convincere se stesso che quel desiderio non è cattivo, magari sforzandosi di pensare che quella roba, in fondo, dovrebbe appartenere a lui, che ne è più degno, e non al suo legittimo proprietario, che, guarda caso, ne è assolutamente indegno. Insomma, si tratta di persuadere se stessi che non si sta desiderando niente di illecito, mentre si sa benissimo, nelle profondità della coscienza, che si tratta solo di capziosi ragionamenti e di miserabili sofismi, aventi l’unico scopo di anestetizzare la ribellione della coscienza davanti alla prospettiva del male che si viene preparando.

Ci piace riportare questa pagina, oggi pochissimo conosciuta, del pedagogista italiano (da: G. Modugno, «Religione e vita», Brescia, La Scuola Editrice, 1935, pp. 251-6):

«Studiare le opere dei grandi scrittori, che han saputo leggere nel fondo dell’anima umana, è […] un mezzo prezioso per prepararsi efficacemente a parlare dei Comandamenti e per guidare gli alunni più maturi a cogliere le leggi della vita morale. Giorgio Eliot, per esempio, nel suo romanzo "Romola", ci fornisce un esempio mirabile di quel che sono nella vita le reticenze, i sotterfugi, le bugie. Il suo protagonista, il giovane Tito Melema, personifica spaventosamente la tragedia della menzogna; eppure egli si presenta non solo bello, ma intelligente, pronto, tutto gentilezze e sorrisi. Come mai poi diffonde intorno a sé tradimenti e dolori d’ogni sorta? Come mai diventa l’autore di una lunga serie d’infamie, di cui poi finisce coll’esser vittima? Eliot spiega stupendamente l’enigma. Dopo un naufragio, Tito si reca a Firenze, per vendere alcune gemme appartenenti al padre adottivo — Baldassarre Calvo — per ricavare la somma occorrente a riscattarlo dalle mani dei Turchi, che l’han preso prigioniero. Il dovere di Tito è dunque chiaro e preciso: vendute le gemme, mettersi in viaggio per rintracciare e liberare il suo benefattore, che l’aveva sottratto, dall’età di sette anni, a una vita di miserie, di sozzure, di orrori, e condotto invece in una casa, che al bambino era sembrato un paradiso, dove non mancavano delicato nutrimento e, sulle ginocchia del suo salvatore, dolci carezze; dove infine era stato istruito e amato più di un figlio

Ma Tito ha con sé una terribile nemica: la tendenza alle reticenze, anzi una vera abilità in esse, e di solito va innanzi seguendo gl’impulsi del momento: mentre sta trattando con persone di riguardo per vendere le gemme, travisa in parte i fatti, parla cioè di Baldassarre come perduto nel naufragio: qui è l’inizio della tragedia. Perché dare come notizia certa ciò ch’era soltanto una possibilità, non avendo nessuna prova sicura della morte del padre adottivo? Egli non aveva mai chiaramente confessato a se stesso i motivi della sua condotta, rimasti nella penombra della sua coscienza; e solo quando è in possesso della somma, egli ha il primo colloquio con se stesso. E qui l’A. coglie una profonda verità psicologica acutamente messa in luce dal nostro Rosmini: "ogni peccato si riduce a una menzogna che noi diciamo a noi stessi"; "prima d’operare il male esternamente, noi siamo riusciti ad ingannarci, a sedurci internamente, ed una parola interna falsa e bugiarda è il fondamento di tutti i nostri regolamenti esteriori" (Rosmini, "Principi della scienza morale", p. 121).

Un sincero e chiaro colloquio interiore avrebbe potuto salvar Tito dall’infamia del tradimento, giacché egli ha abbastanza chiaroveggenza per intendere che non potrebbe restar tranquillamente a Firenze — dove lo blandiscono onori, prosperità e dolci cure di un nascente amore — se fosse certo di sapere sotto il sole del mezzogiorno, su qualche infuocata costa remota, sotto la sferza di quel sole estivo, il vecchio e tenero padre adottivo trattato come uno schiavo tra le percosse degli aguzzini, sorretto dalla sola speranza che sarebbe stato riscattato coi danari delle gemme. Ma ecco i sofismi dell’autoinganno, dietro i quali va a trincerarsi per commettere l’infamia senza volerla considerar tale: ho io l’assoluta certezza ch’egli sia vivo, se nella galera che fu catturata dalla nave turca, c’era stata resistenza e probabilmente spargimento di sangue? S’era visto un uomo cadere in mare: non potrebbe essere stato proprio Baldassarre? Chi erano gli scampati e che cosa poteva essere accaduto fra le tante possibilità? E allora, se non è certo che Baldasarre sia nella schiavitù e nemmeno fra i vivi, devo passar la vita a cercarlo? E conclude: credo che sia morto; ossia gli fa comodo creder così per appagare il suo segreto desiderio egoista, senza confessar chiaro e netto a se stesso che, impadronendosi di una somma non sua, egli commette un furto; che abbandonando al suo destino il suo benefattore, egli vien meno al suoi dovere di gratitudine. "Sotto ogni segreto pensiero — dice profondamente Eliot — si nasconde una nidiata di desideri colpevoli, la cui malsana vita è favorita dalle tenebre". La luce della verità sarebbe stata la sua salvezza, l’osservanza dell’ottavo Comandamento, la sua difesa; ma Tito ha preferito le tenebre, ha violato il Comandamento e si è messo fatalmente sulla via del precipizio, mentendo a se stesso e agli altri. […]

"Vi son dei momenti — osserva acutamente Eliot — in cui invece di noi sono le nostre passioni che parlano e decidono, e sembra che noi stiamo ad udirle, sorpresi. Esse portano in sé un impulso di colpa, che in un momento compie l’opera di una lunga premeditazione": la paura di compromettersi e la sua prontezza gli avevano fatto di colpo intuire che il riconoscere Baldassarre in presenza dei suoi amici sarebbe stato in contraddizione con la sua prima menzogna. E la nuova bugia lo costringe ad inventarne altre e a trattare il suo benefattore — solo, ammalato e derelitto — come un vecchio matto pericoloso. Ciò faceva un uomo, che non aveva mai perpetrato un atto di sanguinosa crudeltà, nemmeno al più vile animaluccio, che potesse emettere un lamento! Sotto l’incubo di una terribile vendetta doveva vivere egli, che non poteva sopportare l’idea di essere odiato! Eppure vive così, pur nei suoi trionfi, sotto il timore e l’incubo, che gli logorano la vita. Pure – osserva Eliot – c’era una via aperta a Tito: tornare indietro, ricercare Baldassarre, confessare ogni cosa a lui, alla moglie, agli amici. Ma egli non aveva idea che la forza e la sicurezza stessero nella verità; stimava che l’unica forza in cui confidare fosse riposta nella sua scaltrezza e nella sua dissimulazione. E questa persuasione fu la sua rovina […], perché l’abilità ha i suoi limiti, e anche i divisamenti più perfetti richiederebbero l’onniscienza, di cui nessun uomo è fornito.»

Ed è proprio così. Se il male commesso è un tradimento della nostra coscienza morale, di cui siamo, in fondo, consapevoli, allora è evidente che questo male ne chiama dell’altro, in una spirale di menzogne ed auto-inganni che non ha più fine, perché dalla prima menzogna nasce la necessità di giustificarla, poi dalla seconda ne nasce una terza, e così via.

George Eliot, da grande artista, ha saputo ben evidenziare come il male, nelle fasi iniziali, quando deve ancora passare dal concepimento all’azione, si muova in una zona grigia dove le distinzioni morali sfumano, si appannano, non appaiono più evidenti: e questo per la semplice ragione che l’anima, quando imbocca la via del male, incomincia con il confondere le acque, con l’avvolgersi in un mare di nebbia, in modo che le sia più facile, poi, giustificare la propria condotta, dicendo a se stessa che chiunque, in quella confusione, in quella incertezza, avrebbe agito allo stesso modo in cui ha agito lei. Insomma, si comporta come un viaggiatore che prima lascia cadere a terra la bussola, come per caso; quindi, con la bussola ormai inutilizzabile, si rimette in cammino, imboccando con piena consapevolezza la strada sbagliata, ma mentendo a se stessa circa il fatto che, priva com’era di indicazioni, si è regolata come meglio poteva, e come avrebbe fatto qualsiasi altra persona che si fosse venuta a trovare nel medesimo impiccio.

La cosa avviene in modo graduale, il che rende più facile la commedia dell’auto-inganno. Si comincia con qualche frase buttata lì, con qualche gesto apparentemente casuale, con uno sguardo, un accenno, un incontro che si finge — anche con se stessi — essere avvenuto in maniera fortuita, mentre lo si è cercato e provocato a bella posta; poi quelle prime menzogne, quelle prime manovre, ne chiamano altre; quell’amo buttato lì con finta noncuranza, viene lentamente ritirato: ed ecco che la cattiva azione si viene delineando, incomincia a prendere forma; ormai il meccanismo fatale è stato avviato, e nulla e nessuno — o, almeno, così ci piace credere — potrebbe arrestarlo, per cui tanto vale lasciare che esso proceda sino in fondo, come un treno che corre sui binari, apparentemente senza conducente e senza fuochista, quasi per forza propria.

Il male che commettiamo, abbiamo bisogno di naturalizzarlo: ci è più comodo raccontare a noi stessi che esso è una forza della natura, inarrestabile e inesorabile, e che noi non ne siamo gli autori, anzi, abbiamo perfino tentato di arrestarlo, ma presto ci siamo resi conto della impossibilità di riuscirvi e, così, siamo stati costretti a rinunciare, rassegnandoci al destino. Così, il tradimento dell’amico viene giustificato con i suoi difetti, con la sua ingratitudine verso di noi; il furto, viene giustificato con il fatto che si è trattato, in realtà, di una riappropriazione di qualcosa che ci spettava di diritto la raccomandazione, che ci fa vincere un concorso e occupare un posto che spettava a un altro, diventa un espediente forse non bello, ma necessario, quasi una forma di legittima difesa, perché, in un mondo di prepotenti e di disonesti, bisogna pur prendere delle contromisure: e così via, per ogni cattiva azione c’è sempre una ingiustizia altrui che la giustifica, che la rende accettabile ai nostri stessi occhi.

Come uscire da questa spirale, da questo circolo vizioso? Se colui che compie il male non è — come pensava Socrate — un ignorante, ma un bugiardo volontario e un disonesto nei confronti di se stesso, esiste una possibile redenzione, una strategia per sottrarsi alla catena di menzogne e di cattive azioni che si alimentano le une con le altre? Come e dove trovare la capacità ed il coraggio di guardarsi dentro senza trucco e senza inganno, riconoscendo le proprie menzogne? Non è forse come il serpente che si morde la coda? Sembrerebbe non esservi soluzione, perché la soluzione implica il ricorso ad un punto d’appoggio di cui l’uomo non sembra disporre.

O forse sì. Se non lo troviamo in noi stessi, un solido punto d’appoggio per uscire dalle sabbie mobili della menzogna e dell’auto-inganno, dobbiamo cercarlo al di fuori: al di sopra. Bisogna cercarlo in Dio. Non c’è abisso di auto-degradazione dal quale non si possa risalire, con il soccorso della Grazia. Però bisogna cercarla, bisogna chiederla. Con cuore umile. E allora essa ci verrà data…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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